Alessia Sità
ROMA – “Un uomo in gabbia. Una gabbia con le sbarre larghe. Ci si può passare senza problemi. Egli non può avere problemi a passare.”
Si apre così “Il pasto degli schiavi”, l’ultimo lavoro di Adriano Marenco pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. In una continua alternanza di buio e di luce, ha inizio il monologo dell’autore, incentrato su una condizione umana ed esistenziale ai limiti del grottesco. Non siamo molto lontani dal degrado già descritto da Marenco nel suo precedente romanzo breve: “La palude e la balera”.
Al centro della piéce è il potere in tutte le sue sfumature. La scelta del soliloquio non è casuale, ma quasi necessaria per rendere bene l’idea di come il potere non sia in grado di instaurare un dialogo oltre se stesso. Dall’altra parte, ci siamo noi, “le scimmie”, spettatori quasi impotenti della miseria e dello squallore del nostro paese. Marenco porta alla ribalta una triste realtà, quella costituita essenzialmente dai più deboli, dai ‘poveri’ costretti a “strisciare” dappertutto. L’umanità che “striscia per un’opportunità”. L’uomo che nella didascalia iniziale è chiuso in una gabbia non è stato confinato brutalmente. Sceglie di restare nella propria prigione dorata, protetto dal mondo, in quanto consapevole di quello che c’è sulla terra: solo “untume e resti umani”. “Noi siamo sani e dobbiamo proteggerci dobbiamo proteggere la nostra famiglia la nostra famiglia la nostra famiglia e perciò ci rinchiudiamo sempre di più (…) dobbiamo comprare e comparire e infilarci nelle nostre ville bunker almeno chi se le può permettere. Ma anche una gabbia va bene. Che ci protegge dalla sporcizia di fuori”.
Con un linguaggio forte e a tratti surreale, Marenco porta in scena la triste realtà di un paese, il nostro, logorato dalla mancanza di moralità, in cui tutte le anime sono barattate per un nulla. Un paese in cui “un’anima vale meno di una crosta di pane’.
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