Veruska Armonioso
ROMA – Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e Innamorati “Dentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”. “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.
Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].
Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].
Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].
Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]
Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.