Giulio Gasperini
AOSTA – Sono in molti a considerare come il capolavoro di Stefan Zweig questa “Novella degli scacchi”. Un romanzo breve (o racconto lungo) edito nel 1941, mentre era esule in Brasile, pochi mesi prima di suicidarsi. E forse tra le righe di questo piccolo gioiello si possono persino individuare le ragione di questo supremo gesto.
Anche chi non sia direttamente appassionato di scacchi non può che rimanere affascinato da questa “novella”, nella quale si incontrano due storie che paiono agli antipodi ma che raccontano entrambe di estremi dolori e di devastazione intime. La storia, ovvero, del campione mondiale di scacchi Czentovič, arrogante, venale, con un’infanzia tormentata e solitaria e quella del dottor B., elegante e colto, costretto a sviluppare un talento per resistere alla tortura di una stanza sempre vuota e sempre sola. Il lungo racconto del dottor B. ci vuole consegnare la memoria di una dolorosissima pagina della storia austriaca. Per un uomo amante della pace come fu Zweig fu una ferita feroce la perdita di indipendenza della sua nazione, la sottomissione senza resistenza sancita dall’anschluss dell’Austria a un’ideologia di intolleranza e di ferocia insensata.
Così, nella novella, il Dottor B. fu costretto a sviluppare la sua abilità nel gioco come antidoto alla pazzia, alla follia che lo assediava in quella camera d’albergo dove veniva tenuto prigioniero, sempre interrogato, mai con chiarezza. Ma il gioco era, per il Dottor B., tutto una teorizzazione, il tentativo immateriale di figurarsi una scacchiera. Fino a quando la sua mente non si scinde in due giocatori diversi, nel difficile tentativo di competere con sé stesso, cercando di evitare i disegni mentali, le tattiche, le pianificazioni delle partite: un tentativo, insomma, di cercarsi un compagno nell’assenza che potesse giocare con l’altro sé. Escamotage narrativo delizioso, per poter arrivare a parlare della scissione dell’io, della difficile convivenza e sinergia tra parti diverse che diversamente compongono l’individualità di ciascuno.
Poi, sulla nave, l’incontro con l’altra devastante solitudine, quella di Czentovič: un diverso, diversissimo modo di considerare l’individualità, granitica, ridotta all’essenziale, mai scissa né nevrotica. Evidentemente, per entrambi (ma soprattutto per il Dottor B.) la partita a scacchi diventa metafora di un riscatto contro la vita, di un’ultima idealmente rivincita contro chi ci costringe a decisione che non ci appartengono, a vivere eventi che non ci spetterebbero. Una pazzia, quella del Dottor B., sempre tenuta a freno, quasi sotto controllo, fino all’esplosione totale, alla deriva umana e sociale.
Stefan Zweig ci consegna un ultimo testamento, prima di uccidersi assieme alla giovanissima moglie, in un doppio suicidio d’amore: “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”. Un pessimismo di base, per Zweig, che aveva animato il suo carattere irrequieto ed errabondo, ma anche la sua particolare attenzione alla scrittura.
Una partita a scacchi tra due solitudini.
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