Giulia Siena
PARMA – “Ormai di tutti coloro che hanno combattuto siamo rimasti in pochi. La vita ha ucciso quelli che non sono morti in guerra. Alla fine restano le nostre giacche e le nostre storie raccontate.” Per questo bisogna ricordare, ripercorrere, raccontare. Per questo, per la libertà e il suo significato, che bisogna tornare in Bielorussia, in quelle terre prima violentate dalla guerra e poi martoriate dall’uomo; tornare per ascoltare le ultime voci, catturare le immagini. Questo hanno fatto il fotografo italiano Sandro Capatti e la giornalista bielorussa Nadzehda Kalinina: sono andati alla ricerca dei superstiti di quella generazione di bielorussi che combatté e respinse gli invasori tedeschi dell’allora Unione Sovietica, ne hanno raccolto le voci, gli sguardi, le rughe, le cicatrici e i ricordi. Il loro lavoro di ricerca, ascolto e raccolta è diventato Una luce per la memoria, una luce per la libertà, il libro con il quale Capatti – attualmente collaboratore dell’Ansa e di Fotogramma – ha voluto rendere omaggio ai tanti bielorussi che si opposero all’invasore nazista. Pubblicato da Fedelo’s Editrice, Una luce per la memoria, una luce per la libertà – in italiano con la traduzione in bielorusso a fronte – sarà in libreria nei prossimi giorni, subito dopo la presentazione ufficiale di domani, sabato 31 ottobre 2015 presso la Biblioteca Internazionale Ilaria Alpi di Parma (Vicolo delle Asse, 5 – ore 16.30. Oltre a Sandro Capatti, saranno presenti Andrea Marvasi della casa editrice Fedelo’s, Marina Rossi dell’Università di Trieste e le autorità bielorusse). Da qui, il libro, partirà per l’Italia, entrerà nelle scuole, si mostrerà con il suo carico di ricordi e di drammi. Tutto per non dimenticare. Un lavoro minuzioso di ricerca che racconta un pezzo di storia attraverso i volti e le vicende dei protagonisti.
Per conoscere meglio questo progetto, ChronicaLibri ha intervistato Sandro Capatti, autore di Una luce per la memoria, una luce per la libertà.
Come nasce questo libro?
Questo progetto nasce nel 2012 al confine tra Bielorussia e Ucraina. Ero in quelle zone, precisamente all’interno della Zona 30, per documentare le conseguenze del disastro nucleare di Chernobyl sulle donne e i bambini. L’impatto fu forte: un giorno visitai una struttura dove erano ricoverati bambini con malformazioni fisiche causate da quelle radiazioni. Da lì cominciai a sentire il bisogno di fare qualcosa, di non fermarmi solamente al reportage. Quel soggiorno in Bielorussia, però, mi fece vedere anche altro, un altro aspetto di quella terra, una storia più vecchia. Vidi una mostra fotografica, scatti che ritraevano coloro che fecero la guerra, reduci vestiti delle loro divise dell’epoca. Tornato in Italia misi insieme i pezzi, pensai a quello che avevo visto e divenni consapevole di far diventare quell’esperienza un progetto. Volevo ricordare quella terra e il grande sforzo che fece per conquistare la libertà. Scrissi il progetto che fu accolto in pieno da Nadzehda Kalinina, giornalista professionista che vive e lavora a Minsk. E’ suo, infatti, il grande lavoro di ricerca storica: dove si sono sviluppati i conflitti, dove sono avvenute le battaglie, i movimenti, le sommosse e gli scontri.
Questo, però, non è un libro storico.
No, non solo. Il nostro obiettivo era quello di cercare le persone coinvolte in quel conflitto, farle parlare, scavare nei loro ricordi e immortalare i loro volti. Non un libro storico ma un fotoreportage, un libro della raccolta e della memoria.
Può, un libro come questo, aiutare lo studio della storia nelle scuole?
Certamente. Voglio, infatti, che la realtà che abbiamo messo su carta possa essere portata nelle scuole e diffusa attraverso un progetto didattico: è importante che i giovani conoscano la storia dalla voce degli uomini che l’hanno fatta; devono guardare i loro occhi, conoscere i loro sforzi, i sacrifici, le perdite, capire il significato della libertà e come si è arrivati ad essa.
Oltre a questo libro cosa ti ha lasciato quel viaggio?
In tre settimane di lavoro in Bielorussia ho conosciuto persone, ho incontrato storie, ho partecipato alla parata del 9 maggio, una festa di libertà a cui prendono parte donne e uomini che vissero quella guerra o persone che hanno conosciuto la storia raccontata dalla voce dei padri. Molto di quel viaggio, praticamente tutto, è nelle pagine di Una luce per la memoria, una luce per la libertà.
Quando un fotografo scatta, fa una scelta. Cosa hai raccolto in queste immagini?
Ho raccolto la storia, ho raccolto delle tesminonianze e la voglia di non dimentircare. Noi siamo qui perché molti di loro hanno dato la vita… raccontare era un dovere: occupandomi sempre di tematiche sociali, questo era un progetto che poteva e doveva essere fatto. Spero che il risultato ottenuto con la pubblicazione dia il riscontro sperato. Io non finirò mai di ringraziare Nadia, i collaboratori, i testimoni di quella guerra, i superstiti.
Che rapporto c’è tra le parole e le immagini nelle pagine di questo libro?
C’è un legame profondo tra la narrazione e le fotografie scelte. Le immagini e le parole si completano, si compensano, parlano della stessa cosa attraverso un linguaggio diverso.
Dopo un’esperienza di guerra come si fa a riprendere la vita di tutti i giorni, il lavoro, la quotidianità?
Si fa. Si va avanti, si passa al progetto successivo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Racconterò nuove storie che parleranno dell’Italia e dell’estero, ma non voglio svelare troppo.
Di solito chiedo agli autori quali siano le tre parole che preferiscono; essendo al cospetto di un fotoreporter chiedo: quali sono le tre cose che ami fotografare?
Interessante come domanda. Allora, mi piacciono molto le storie di vita, le persone e la società, attuale o passata che sia.
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