Giulio Gasperini
AOSTA – Pigafetta, di Felicitas Hoppe, edito in Italia da Del Vecchio Editore con la traduzione di Anna Maria Curci, è difficilmente definibile, in quest’ansia di catalogazione che abbiamo sempre, nei confronti di ogni libro. È talmente difficile che la stessa Hoppe ha dovuto scrivere una sorta di postfazione per raccontarlo. Tutto inizia con un viaggio, vero, reale, che la Hoppe compie su una nave cargo intorno al mondo. Da qui, inizia quest’esperienza a tratti distopica, a tratti surrealista, a tratti cronachistica, plasmando una narrazione che è destabilizzante nella sua voracissima poeticità, che abbatte le classificazioni mentali e di squaderna in terreni ribelli e incontrollabili.
La stessa Hoppe sottolinea il doppio tradimento che sta alla base di quest’impresa narrativa, di questo suo primo romanzo: “Avevo tradito la finzione letteraria con la realtà e la realtà con la finzione letteraria”. In Pigafetta, che prende il nome da Antonio Pigafetta, uno dei pochi sopravvissuti alla spedizione di Ferdinando Magellano del 1519, si mescolano i prototipi e le regole di molti generi letterari, dal romanzo di viaggio a quello di formazione, dalla letteratura di avventura a quella surrealistica, per plasmare una narrazione che non si fa domare né imbrigliare, che lascia il lettore stordito ma pieno di sollecitazioni e provocazioni. La storia e la realtà vengono colmate “con la fantasia”, regalando a ogni lettore la possibilità di confrontarsi con spazi sconfinati e non imbrigliati, mettendosi alla prova, impegnandosi nella lettura.
La geografia fisica e certa si scontorna, la nave su cui in parte si svolge l’azione diventa tutto quello che ognuno di noi vorrebbe che diventasse, i personaggi sono presenze evanescenti che tradiscono il corpo e ci depistano, la costruzione stessa della narrazione si inficia in un presunto schema cronachistico di diario di viaggio, che è solo espediente di creazione.
Alla base di tutto, c’è la riflessione sul viaggio, sullo spostamento, come la stessa Hoppe ha messo bene in evidenza: “Scriviamo perché siamo costretti a viaggiare, perché siamo profughi, oppure scriviamo perché sogniamo di viaggiare, ma non siamo sicuri di volerlo?”. Qua sta il punto focale di questa narrazione troppo scomoda per i canoni ai quali siamo stati abituati: mettere in discussione il volere, criticare il libero arbitrio, mettere in crisi la progettualità personale come se fosse l’unico spazio decisionale intoccabile di ogni individuo.
Hoppe apre una “crisi”, nel lettore; una frattura decisa e violenta. Crea un romanzo spigoloso ma potente, denso, sapido. Quando ci imbarchiamo sulla nave, in compagnia di Pigafetta, “un viaggiatore che legge, per la precisione un viaggiatore che sente”, siamo costretti ad abbandonare le nostre certezze sul molo e a guardare ogni vario orizzonte con occhi nuovi, ripuliti da ogni pregiudizio, coraggiosi nel loro dover vedere terre ignote e mai esplorate prima.