Giulio Gasperini
AOSTA – Albert Londres è il prototipo del reportagista narrativo. Figura forse poco nota, in Italia, è stato indubbiamente uno dei principi della narrazione giornalistica, da ogni parte del mondo, con uno stile particolare e inconfodibile. ObarraO Edizioni, in questi giorni in cui viaggiare è totalmente precluso, dà alle stampe La Cina nel caos, un libro edito nel 1925.
La Cina degli Anni Venti è un rebus complesso: un paese politicamente allo sbando, lontano per cultura e geografia, per tradizioni e inenti. È un paese straziato dal potere, parcellizzato in figure di uomini forti che lottano tra di loro per non si capisce bene quale predominio. E la popolazione attende che gli eventi si compiano, senza granché preoccuparsi. Come dice Yan Huiqing, Primo ministro in carica: “I mercanti di lanterne fabbricano ancora lanterne, i ragazzi continuano a tacchinare le ragazze e i coolie a tirare i rickshaws”.
Questo reportage amplia i suoi confini di indagine e diventa teorizzazione più ampia della necessità del governo come forma di gestione della res publica: “Un governo, come lei e io siamo abituati a concepirlo, è in generale così indispensabile alla felicità degli Stati?”. È un confronto tra Oriente e Occidente, in un’epoca nella quale le distanze veramente separavano e l’Oriente ancora si celava agli occhi degli speculatori: “Voi, in Europa, pensate di detenere la verità. […] Mai il Paese è vissuto meglio come da quando non c’è più lo Stato”.
Lo stile di Londres è uno degli aspetti più interessanti: uno stile asciutto, essenziale, quasi stenografato, ma che viene plasmato dalla sua grandissima ironia, dalla sua capacità di essere adderente al mondo (e di capirlo nel profondo) ma dandogli un senso persino dissacrante. Londres non ama il politicaly correct; e con ragione.
Le sua analisi sono feroci e disincantate, proposte rifiutando il pericolo e l’accusa di sembrare irragionevole o scorretto. Sagace e sapida, ad esempio, è la sua descrizione della città di Shanghai, che pare avere una lungimiranza sovrumana, spiazzante: “A Shanghai si producono soldi”.
Il libro non è solo un reportage da uno degli angoli, a quei tempi, meno conosciuti del mondo, ma anche un canto d’amore, staziante e appassionante, del desiderio di viaggiare, di esplorare, di conoscere che da sempre ha affetto l’uomo; di quel tentativo di reprimere l’inquietudine umana, per dirla come Chatwin, che lo ha spinto a esser migrante, sempre e comunque, a ogni latitudine e condizione, alla ricerca di una libertà che possa prescindere da confini e orizzonti: “Dov’ero? Al Cairo? A Tokyo? A New York? Istante delizioso in cui non si sa più dove si vive! Il gabbiano saprebbe forse dire a quale grado di latitudine si trova l’onda che lo culla?”.