VerbErrando: OuLiPo

ROMA – Sono con amici a parlare di scrittori e libri di oggi. Io sorseggio il terzo o quarto calice di bianco; si parla dell’endemica incapacità di narrare qualcosa di rilevante, nella forma o nel contenuto. Tutti d’accordo, colpevoli (perché tutti, ovviamente, facenti parte della categoria incriminata) e tutti quasi ubriachi. Poi si comincia a discutere sulla forma, su come si costruiscono i libri oggi. La forma del libro, la sua architettura, gli espedienti ricercati per far sì che i libri abbiano un appeal. Si rintraccia in questa ricerca l’esigenza di sopperire alle mancanze, appunto, di contenuti andando a lavorare sul contenitore. Si dice che il risultato di questa manovra è quasi sempre incomprensibile e che questo non accadeva nel passato, un tempo, un mirabile tempo, in cui, invece, essendoci sostanza non c’era bisogno di esercizi di stile. Per avallare questa teoria è stato preso come esempio di semplicità Italo Calvino.
Sorrido, continuo a bere il vino. Non è così, affatto. Ma scelgo di tacere, perché mi è stato appena servito su un piatto d’argento il tema di Verberrando di questa settimana.

 
La letteratura potenziale- OuLiPo
“Secondo i calcoli di H. Gerstenkorn, sviluppati da H. Alfven, i continenti terrestri non sarebbero che frammenti della Luna caduti sul nostro pianeta. La Luna in origine sarebbe stata anch’essa un pianeta attorno al Sole, fino al momento in cui la vicinanza dalla Terra non la fece deragliare dalla sua orbita. Catturata dalla gravitazione terrestre, la Luna s’accostò sempre di più, stringendo la sua orbita attorno a noi. A un certo momento la reciproca attrazione prese a deformare la superficie dei due corpi celesti, sollevando onde altissime da cui si staccavano frammenti che vorticando nello spazio tra Terra e Luna, soprattutto frammenti di materia lunare che finivano per cadere sulla Terra. In seguito, per influsso delle nostre maree, la Luna fu spinta a riallontanarsi, fino a raggiungere la sua orbita attuale. Ma una parte della massa lunare, forse la metà, era rimasta sulla Terra, formando i continenti.”
C’era un gruppo di pazzi che nel 1960, a Parigi, hanno deciso di fare i sovversivi. Se la letteratura, aveva sempre seguito canoni e forme convenzionali e comuni a tutti, era ora di cambiare. Lo scopo era quello di costituire nuove strutture e schemi attraverso costrizioni (contrainte) da far usare a proprio piacimento agli scrittori, al fine di potenziare il loro impulso di ispirazione e visionarietà. Vincoli e restrizioni per liberare. Per risvegliare, come diceva Calvino, “i demoni poetici più inaspettati e più segreti”. Dei folli, insomma.
Questo Laboratorio di Letteratura Potenziale (Ou Li Po, Ouvroir de Littérature Potentielle), però, non detiene il primato di follia. Quello ce l’ha il Collegio di Patafisica di Alfred Jarry di cui la OuLiPo diventa costola; una scienza delle soluzioni immaginarie di cui il Faustroll è il manifesto… a dire il vero, parlando di scienza del paradosso e della matematizzazione impossibile, già il pastore-matematico-letterato Lewis Carroll aveva fatto il suo prima di Jarry, ma è meglio non entrare in questa selva oscura e non rischiare di perdere la ragione.
Torniamo alla letteratura potenziale del Laboratorio OuLiPo. Era una letteratura che non esisteva, “da scoprire all’interno di opere già scritte o da inventare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche, attraverso il rispetto di regole, vincoli, costrizioni, come ad esempio scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera”. Sotto questa scia sono nati capolavori come “Esercizi di stile” di Queneau, “La vita istruzioni per l’uso” di Perec e “Il castello dei destini incrociati” di Calvino, ed è proprio da lui, Calvino “il semplice”, che voglio partire. Nel 1972, dopo essersi trasferito con la famiglia in Francia, entra a far parte del Laboratorio e scrive il libro oulipiano e patafisico per eccellenza.
Ne “Il castello dei destini incrociati” quasi ad ogni pagina, la narrazione è accompagnata da riproduzioni di carte dei Tarocchi, le cui diverse combinazioni danno vita a diversi racconti. La combinatoria porta sempre in sé l’ambizione folle e megalomane (e inesorabilmente fallimentare) di non omettere nulla, inserire, all’interno delle pagine, tutta, tutta la realtà nelle sue possibili declinazioni. La letteratura potenziale potrebbe andare avanti all’infinito, per poi scontrarsi con un limite, che non è dell’opera, ma nostro. Siamo noi a non avere a disposizione abbastanza tempo per
esaurire tutte le combinazioni possibili di una sequenza di immagini o di segni. E una delle conseguenze di questa constatazione viene ben formulata proprio da Perec, in un breve testo a commento del libro calviniano: “non ci saranno mai lettori a sufficienza per l’infinità di possibili racconti riflessi dagli specchi di questo Castello dei destini incrociati”. La letteratura potenziale è anche l’apertura all’infinito dei lettori possibili: i sentieri si biforcano di continuo, ogni storia può ramificarsi in infinite altre, ogni lettore potrà farsi largo a suo modo nell’oscura selva narrativa.
Perec, nel suo “La vita istruzioni per l’uso” (la cui traduzione in italiano è stata curata da Calvino in persona) immagina di togliere una parete dall’edifico e di osservare tutte le stanze e tutte le persone e le vite che le occupano. L’idea di osservare il palazzo dallo spaccato, come se fosse osservato da un architetto, gli viene da un disegno di Saul Steinberg, contenuto nella raccolta The Art of Living, che mostra appunto quello che succede nelle varie stanze di un palazzo al quale è stata tolta una parete esterna. Concentra “nel tempo di un istante (verso le otto di sera del 23 giugno 1975) e nello spazio perfettamente circoscritto di un caseggiato parigino, una pluralità favolosa di storie, di personaggi, di epoche, di mondi” (Hans Hartje, Bernard Magné et Jacques Neefs, Préface a Georges Perec) esplorando, in ogni capitolo, una stanza e muovendosi lungo l’area dell’edificio come su una scacchiera, con il passo obliquo della “mossa del cavallo”, secondo un itinerario tracciato in modo da non tornare mai due volte sulla stessa casella-stanza. Così nasce una macchina generatrice di storie: le vicende degli abitanti delle cento “caselle” si incrociano e si completano reciprocamente. Tutte le regole di costruzione delle sue strutture narrative, solo in parte svelate, sono annotate nei suoi cahiers de charges, amorevolmente ricostruiti da alcuni pazienti studiosi dopo la sua morte. Perec non esplorerà tutti e cento i locali del palazzo: ne salta uno, lasciando nella trama del romanzo un buco, un vuoto (voluto, cercato, impossibile da evitare, incolmabile e già indagato nel suo “Disparition” del 1968 , in cui la vita, mutilata di una componente essenziale, è rappresentata metaforicamente da una lunga narrazione scritta senza mai impiegare la vocale “e”). Il pezzo mancante è lo spazio che, all’interno del meccanismo letterario, permette agli ingranaggi di “fare gioco” e di mantenere il dinamismo dell’architettura complessiva. Per la stessa motivazione anche gli “Esercizi di stile” di Queneau erano novantanove e non cento. Come ci spiega Umberto Eco, traduttore di questo scrigno di preziosi “Un episodio di vita quotidiana, di sconcertante banalità, e novantanove variazioni sul tema, in cui la storia viene ridetta mettendo alla prova tutte le figure retoriche, i diversi generi letterari (dall’epico al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese), giocando con sostituzioni lessicali, frantumando la sintassi, permutando l’ordine delle lettere alfabetiche. […] Questi sono gli esercizi di stile di Queneau, che per anni mi hanno tentato come traduttore, perché erano ritenuti intraducibili, legati come sono al “genio” specifico della lingua francese. E infine la decisione: non si trattava di tradurre, ma di capire le regole di gioco che Queneau si era poste, e quindi giocare la stessa partita con un’altra lingua, azzardando qualche mossa in più, dato che lui aveva aperto la strada e non restava che continuare e andare oltre, nello stesso spirito.”
Strade aperte da altri, inviti ad andare avanti, a perdersi un po’, a percorrerla quella selva oscura.
Insomma, non è falso dire che la bellezza di un libro che farà letteratura si percepisca già dalla prima pagina, solo che non sempre quello che si legge è comprensibile. Il vizio dell’ingranaggio sta in noi, che riteniamo bello quello che ci arriva subito, ciò che è facile. I codici sono scrigni dentro i quali sono nascosti tesori. Le metafore i percorsi, i sensi il premio. La costruzione articolata e audace deve seguire una strategia e delle regole, non necessariamente messe a disposizione del lettore dall’autore. L’importante, per noi amanti del leggere, non deve rintracciare la costruzione del percorso, ma avere una strada da percorrere. Così come Lynch ci accompagna in quei corridoi senza luce incontro all’incognita, così la letteratura dovrebbe trasportarci “altrove”. Ma senza fiducia non puoi amare, conoscere, andare. Fidarsi del libro che si è scelto, affidarsi allo scrittore. Sincerandosi dell’esistenza di un valore prima di arrendersi a lui, fin dalla prima pagina.
Secondo me.

VerbErrando: Ciò che già si sa

ROMA – “Dopo molti anni ho capito che in quella luce era morta l’innocenza italiana. L’innocenza che aveva attraversato tutti gli anni sessanta come una scarica elettrica o un crampo nello stomaco. Morì da giovane soubrette a Viareggio, buttandosi alle spalle le commedie, le tonnellate di spaghetti alle vongole, le illusioni di ricchezza. Sparì nel luogo che già possedeva la luce dei morti nel giorno in cui ritrovarono cadavere Ermanno Lavorini. […]
… con la sua fine, l’Italia si gettò dietro le spalle l’innocenza.
A quella perduta innocenza vorrei dire:” Ciao, bellina, come stai? Ti voglio tanto bene.” Alla creatura straziata avrei voluto dedicare la vita che mi resta. Ma gli anni muoiono prima dei secondi. Il tempo è finito. Eppure desidero tanto spedire una lettera per supplicarla di tornare. Invece so che non lo farò. Perdonatemi, allora, se scrivo addio.” (“Addio” di Aurelio Picca, ed. Bompiani 2012)

Questo è Aurelio Picca, questo è Addio. Il suo addio all’innocenza, a un tempo, che arriva fino al  31 gennaio 1969, in cui ancora si poteva vivere di sogni, di immaginazioni. Perché le immaginazioni non erano pericolose, anzi, diventavano un surrogato ma migliore della vita vera, dei fatti, della ragione; e la sua forza era tale, quella dell’immaginazione, da riuscire a influenzare la verità stessa, la razionalità. Era il tempo in cui le mamme potevano ancora spingere i figli a mangiare le verdure sotto il ricatto del buio, perché i bambini a quei tempi erano bambini e avevano ancora paura del buio. Ora non è più così, i bambini il buio se lo portano dentro e lo vomitano fuori, puntualmente, ad ogni occasione. Non è forse vero che, con il tempo, ci si adatta a tutto? Del resto Darwin ce lo insegnava nella sua teoria sull’evoluzione della specie, un processo di “miglioramento” o di aumento della complessità degli organismi nella capacità di “uscire vincente” dal processo di selezione naturale.
Quindi noi saremmo i vincenti. Quindi noi saremmo i migliori.
“E se quelli che rimangono fossero i peggiori?” mi coglie di sorpresa, come il cellulare caduto dal cielo di Ritorno (di Fabio Viola, Feltrinelli e-books 2012),  la frase di Elias Canetti.
E allora decido che voglio capire meglio perché sono tanto d’accordo con lui, e con Aurelio.
“Si vuole diventare migliori; ci si vuole solo rendere le cose più facili” dice. E poi aggiunge “Alcuni raggiungono la loro massima cattiveria nel silenzio.”(“La provincia dell’uomo” Elias Canetti, Adelphi, 1978). Quindi, riassumendo, per Canetti siamo o peggiori ed evoluti, o migliori ma furbi, sempre alla ricerca della scappatoia facile; e, nell’essere cattivi, esercitiamo la pratica del silenzio.
Riconosco che intorno a noi, sempre più spesso, cade il silenzio, ma non voglio dare retta alle parole di Canetti… no, troppo apocalittiche. Solo che non riesco a fermarmi, vado avanti e scopro di più su di lui, tipo che nei vent’anni successivi alla guerra mondiale si dedicò allo studio della psicologia di massa e che fu una delle figure più importanti della cultura mitteleuropea. Sembrerebbe una voce autorevole. Provo a superare la diffidenza e vado avanti:
“Sono sempre più convinto che le mentalità sorgono dalle esperienze di massa. Ma gli uomini hanno colpa delle loro esperienze di massa? Non vi incorrono assolutamente indifesi? Come dev’essere fatto un uomo per potersene proteggere? Ecco quello che veramente m’interessa in Karl Kraus. Bisogna forse poter formare masse proprie per essere immuni dalle altre?” (“Il cuore segreto dell’orologio” Elias Canetti, Adelphi 1987)
Allora mi domando a cosa dobbiamo la nostra mentalità, ma prima ancora, che mentalità abbiamo noi e qual è l’ultima esperienza di massa che abbiamo vissuto dopo la Resistenza.
Cerco, mi documento, chiedo e poi, la risposta: nessuna. La resistenza è stata l’ultima esperienza di massa che gli italiani hanno vissuto. Quindi tutto a posto! La nostra mentalità dovrebbe essere strutturata secondo quelle regole! Mh… Oddio, parliamo di quasi settant’anni fa… quanti anni hanno, oggi, quelli della resistenza? … ah, sono quasi tutti morti. E allora come si fa se quelli che dovevano “fare” la mentalità della massa sono scomparsi? Allora non abbiamo una mentalità strutturata secondo le regole della resistenza… allora, che mentalità abbiamo?
Partiamo dagli strumenti che ci hanno dato i nostri amici scrittori: abbiamo perso l’innocenza e  l’ultima esperienza di massa non la conosciamo perché non c’eravamo, quindi davanti a noi c’è malizia e ignoto. Purtroppo, anche stavolta, quel pessimista di Canetti ha da dire qualcosa:
“Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto” ah… capisco, quindi è questa la ragione per cui siamo così distratti e distanti, l’uno dall’altro. E ancora “Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene nella massa.”  (“Massa e potere” Elias Canetti, ed. Adelphi 1981)
Forse non siamo una massa… potrebbe essere questa la ragione per cui non ci sono più state esperienze di massa….
Veruska! Basta! Stai diventando noiosa. Sento la sua voce…
“Perché vuoi sempre spiegare? Perché vuoi sempre scoprire che cosa c’è dietro? E più dietro ancora, sempre e solo dietro? Come sarebbe una vita limitata alla superficie? Serena? E sarebbe da disprezzare solo per questo? Forse c’è molto di più alla superficie – forse è tutto falso ciò che non è superficie, forse tu vivi ormai tra immagini illusorie, continuamente cangianti, non belle come gli dèi, ma svuotate come quelle dei filosofi. Forse sarebbe meglio: tu allineeresti parole (giacché hanno da essere parole), ma ora sei sempre alla ricerca di un senso, come se ciò che tu scopri potesse dare al mondo un senso che il mondo non ha.” (“La rapidità dello spirito” Elias Canetti, Adelphi  1996)
Forse è vero. Ma non mi interessa. Conoscenza è coscienza. Cultura è conoscenza. Diffondere, attraverso la cultura, la conoscenza è spingere a cercare una coscienza. Quando avremo tutti una coscienza sociale, allora potremo essere una massa. C’è chi ha lavorato anni, dalla Resistenza a oggi, per toglierci l’innocenza, fino a farcela perdere quel 31 gennaio 1969, come ci dice Picca. C’è chi ha lavorato anni, dalla Resistenza a oggi, per toglierci la memoria. Per non farci essere più una massa e mettersi, così, al sicuro.
Per farci “essere insensibili fino a disprezzare le cose interessanti, e diventare insensibili proprio riguardo a ciò che ci interessa maggiormente.” (“Pensieri” Blaise Pascal, Garzanti 1994)
Spero di poter vivere abbastanza per essere parte di un’esperienza di massa. Spero arrivi qualcuno capace di farci tornare ad essere una massa. Qualcuno in grado di farci ricordare quello che già conosciamo, quello che sappiamo già, perché “La memoria si blocca. Ma è ancora lì tutta intera.” Ricordare, riscoprire. Riscoprire, provare ancora emozione. E muoversi verso una direzione.

 

La cosa più dura è tornare a scoprire ciò che già si sa.
Elias Canetti, Premio Nobel per la letteratura (1981).

VerbErrando: Pigneto dreaming

ROMA – “L’etica e le regole di comportamento che ho escogitato e applicato fino a oggi, che mi hanno permesso di condurre e interpretare la mia vita come pareva a me, hanno smesso di funzionare, e non ne ho di nuove a rimpiazzarle. Mi ritrovo circondata da persone che, a quanto pare, invece, mi hanno sempre vista in un modo tutto loro e che ora continuano a impormi questa immagine falsata di me […]
Ce l’ho messa tutta perché su di me non ci fossero mai fraintendimenti. Ho sempre esposto le mie opinioni, agito nel modo più diretto, franco e inequivocabile […] Possibile che non sia servito a niente?”  (Romanticidio
di Carolina Cutolo, Ed. Fandango 2012)

 

Il Pigneto da un po’ è diventato l’ombelico del mondo culturale di Roma. Lì trovi sempre qualcosa in corso, che sia un concerto, un reading, un contest di scrittura, una mostra, qualcosa c’è  e non sei mai solo. Giovani buttati sui marciapiedi, o poggiati addosso alle macchine o fuori dai locali. Giovani che bevono… ecco, hanno sempre in mano un bicchiere di vino, di superalcolico o una bottiglia di birra, a seconda della propria inclinazione e al gruppo al quale appartengono. Ebbene sì, al Pigneto trovi i gruppi, proprio come accadeva nei paesi tanti anni fa. Così, se vai da Necci, ad esempio, torvi quelli della ‘dolcevita’, che mangiano spiedini di pesce spada cucinati da uno chef inglese; se vai da Birra + trovi i punk seduti sul ciglio della strada con i loro cani a guinzaglio. Al Forte Fanfulla gli habitué dei circoli ARCI che vanno lì per rilassarsi e ascoltare un po’ di musica o di passaggio, per fumarsi una sigaretta nel giardinetto esterno, ché tanto qualcuno che conosci lo trovi sempre; al Chiccen c’è Rossano che ti fa sedere al tavolino, ti accende una candelina immersa in quello che una volta era un vasetto di omogeneizzato ed ora è un portacandele, e ti serve vino e cibo cucinato da lui, tra un libro e l’altro. E’ proprio lì che, un venerdì qualunque di primavera, passeggiando, ti capita di incontrare Jack Hirschman che legge le sue poesie, accompagnato dalla Brigata dei Poeti Rivoluzionari di Roma, nuova di zecca. E allora, al fresco della sera, con un vinello tra le mani, puoi ascoltare le parole dell’ultimo genio della beat generation, ex professore di inglese alla UCLA di Los Angeles, che nel 1966 fu licenziato perché promotore di proteste e manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tra le quali dare il massimo dei voti a tutti gli studenti destinati all’arruolamento per aiutarli a sfuggire alla guerra.

 

Il poeta dei giovani, per i giovani. Forse è per questo che tutti se ne innamorano. Forse è per questo che in tutto il mondo fioccano Brigate dei Poeti Rivoluzionari in suo onore, gruppi di giovani, promettenti poeti che hanno scelto lui come mentore. Una carrellata dei suoi più incisivi e accorati appelli al mondo fanno trattenere il respiro a una via del Pigneto stranamente stretta intorno a un unico luogo. I suoi arcani, tra cui quello “dei giorni dei morti”, dedicato a Pasolini e l’intramontabile “One day”:

“Un giorno smetterò di scrivere e dipingerò soltanto
smetterò di dipingere e canterò soltanto
smetterò di cantare e me ne starò seduto soltanto
smetterò di stare seduto e respirerò soltanto
smetterò di respirare  e morirò soltanto
smetterò di morire e amerò soltanto
smetterò di amare e scriverò soltanto”.

Insomma, sì, al Pigneto accadono cose. Ogni venti metri. Cose di arte, di musica, di letteratura, di folklore. Cose pubbliche, per le strade o nei locali, ma anche semi-pubbliche, dentro le case o nei cortili, quelli nascosti alla vista. Ed è proprio fuori da un cortile che mi trovo e sto per citofonare. Citofonare interno 7, questa è la mia destinazione. Giorni prima avevo ricevuto una convocazione segreta per questo evento a cui puoi partecipare solo dietro invito del padrone di casa (e fin qui tutto normale) e  se conosci la parola d’ordine. L’evento è un reading, di quelli che di solito si fanno alla libreria Eternauta, ma stavolta è dedicato a pochi, ai più intimi o ai più fortunati, i privilegiati. Questo invito ha del massonico, probabilmente è la ragione per cui risulta così affascinante. Ogni volta la location cambia, perché ogni volta si svolge nella casa dell’autore del libro di turno.
Questa volta l’invito è in via del Pigneto ed è il turno di Carolina Cutolo e devono aver esagerato, perché di invitati ce ne sono tantissimi, almeno una settantina, compreso qualche infiltrato, che si riconosce perché è staccato dagli altri, non parla con nessuno e non osa nemmeno avvicinarsi allo squisito buffet che la padrona di casa ci ha amorevolmente preparato.
Lì incontri tante persone, come Girolamo, che lavora per una cooperativa impegnata nel sostenere e aiutare i senza fissa dimora. Con lui mi metto a parlare di quanto sia ancora tragicamente naturale scansare le persone come loro, quelli che vestono abiti lisi, sporchi e maleodoranti  “La gente viene a chiedermi perché sono senza tetto e sai cosa rispondo io? Domandalo a loro! Avvicina uno di loro e chidiglielo, parlano, sai?”. Discutiamo circa l’importanza della conoscenza come mezzo per sconfiggere la paura della diversità, e delle azioni, necessarie e mirate, che la sua associazione, la casa di cartone, organizza per creare ponti tra i senza fissa dimora e le persone che una casa ce l’hanno, perché “la gente raggruppata dentro questa categoria è la più disparata. C’è il barbone, il tossicodipendente, il rifugiato politico. L’anziano che aspetta il suo posto in ospizio e l’uomo che ha perso il lavoro; c’è il vedovo, il trans, c’è la schizofrenica e poi ci sono quelli in fuga. Sono storie diverse, mondi diversi e necessitano approcci diversi, attenzioni diverse, aiuti diversi. La generalizzazione è un male da curare.” Ci diamo appuntamento al 15 di giugno, sulla Tuscolana, ci sarà un evento curato dalla sua associazione: il BIP , un mega concerto in un ricovero per i senza fissa dimora.
Appena il tempo di salutarlo e parte la serata. Ci sono ospiti-amici ad aprire il reading, tra cui Fabio Viola con l’estratto del suo libro prossimamente in uscita; e poi, alla fine, lei, Carolina Cutolo con lui, il  protagonista della serata, Romanticidio.
Si rivela subito. Generoso e ospitale, proprio come la padrona di casa. Il pretesto narrativo è qualcosa a cui non posso resistere: le cose stupide che si fanno per amore. Come finire in coma, ad esempio. Come affidarsi alle fantasticherie, negare la realtà, rifuggirla e sostituirla con un surrogato a metà tra il sogno e la schizofrenia. Carolina è così quando scrive, come quando parla: diretta, concreta, senza sofisticazioni, inutili orpelli, dice quello che vede con semplicità e garbo; circa la vita, l’amicizia, la ricerca del proprio futuro, la costruzione dei rapporti, l’amore e la morte. E quando ne scrive, così come quando ne parla, non puoi fare a meno di ridere, perché lei è fatta in questo modo: ironica e carismatica, teatrale e dissacrante ai limiti del paradossale e del grottesco. Così, quando fa incontrare alla sua protagonista, per la prima volta, l’amore e un nuovo inizio le fa incontrare, immancabilmente, anche il suo opposto: la fine. E lo fa così:
“Eccola, la mia fine perfetta, la mia morte ridicola, il mio istinto di sopravvivenza sacrificato all’idiozia di volermi far bella ai suoi occhi a ogni costo. Avevo appena messo a rischio la mia vita in modo irreversibile, e lo avevo fatto perché sopraffatta e vinta da qualcosa di cui, fino a quel giorno, avevo negato l’esistenza con tutte le mie forze. Come se non bastasse, su questo già patetico epilogo ecco implacabile l’ironia della sorte a chiudere il cerchio e a prendermi per il culo senza pietà: una fiera professionista dell’alcol che schiatta assassinata dall’acqua minerale.”

Numerosi bicchieri di vino dopo e, ormai, a notte fonda, lascio quel cortile per tornare a casa.
Il Pigneto… il luogo dove accadono cose…
Il quartiere dove sei sempre il benvenuto, in cui puoi non abitare e, comunque, sentirti accolto, casa. Basta andarci più di due volte per essere uno di loro, riconosciuto e salutato per strada, intrattenuto dai camerieri dei locali. Il quartiere per chi vuole ancora assaporare il gusto della vita di paese, un paese di arte e cultura, un paese di usi e costumi… calorosamente consigliato a chi è pronto a mettersi in gioco, a darsi agli altri senza sovrastrutture, a sorridere e a prendere la vita con la freschezza del ponentino che sembra soffiare per le sue vie. Per chi cerca la poesia delle piccole cose, per chi ha fame di conoscenza e di diversità, per chi, insomma, non si accontenta del proprio cortile e la vita la vuole vivere a più braccia. Un posto, insomma, perfetto sempre e per tutti.

Unica controindicazione: da evitare rigorosamente nel caso in cui voleste incontrarvi con qualcuno in clandestinità.

 

 

VerbErrando: un regalo fatto di parole, un romanzo in anteprima

ROMA – Quando una scrittrice ti regala due pagine del suo nuovo libro non puoi non essere felice. Felice perché la scrittrice in questione è Veruska Armonioso, autrice di VerbErrando. Veruska, che da qualche mese ci fa vivere nelle storie di altri autori o altre città, questa volta ci fa entrare nella sua storia, tra le sue righe. Nella settimana della 25esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino c’è un nuovo libro che sta prendendo vita sotto i tuoi occhi: Accadde così che imparai a nuotare con le sirene.
Veruska Armonioso regala a VerbErrando, a ChronicaLibri, le prime pagine del suo nuovo e atteso romanzo; una storia che comincia con una leggerezza fatta di ricordi, di attese e di parole.

Accadde così che imparai a nuotare con le sirene

di Veruska Armonioso
copyright ©2012

I pensieri da bene, le elegie sulla costanza, sulle fedeltà… niente di quel che l’etica razionale sceglie è ineludibile… l’uomo… imbocco tabacco… voglio sentire che sapore ha un uomo… del tipo decadente o bukowskiano, un uomo che va a puttane o che legge un libro. Come donna mi auspicherei di morire giovane, conoscere la miseria e imparare a masticare tabacco.
Nacqui a sei anni con la memoria già pronta e con una voglia diluviante di essere Tersicore… Rita Hayworth in Down to Earth, avrei dato la mia mano destra per un suo piede sinistro… danzare, sfogliare… petali, pagine, ciglia… geografie anatomiche, alloggiamenti di fortuna… uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi.
Passavo giornate a fantasticare su moti di rivoluzione, opponevo la mia immaginazione ai provvedimenti draconiani delle suore che proprio non ci stavano a lasciare un bimbo in mano alla sua fantasia. Amavo fabbricare… fabbricai, avevo sei anni appunto, una barca di stecchini… ci misi tanto, da Natale a prima della fine dalla scuola. Poi le diedi fuoco. Mio padre pensò fossi piromane e chiamò subito il dottore. Volevo attirare l’attenzione, disse… così mi portarono per tutto il mese di giugno al lago… ogni sabato e ogni domenica, compleanno incluso. Mio padre mi aiutò a costruire un’altra barca con gli stecchini e poi mi invitarono a metterla in acqua. Solo che il lago non è come il mare, dal lago non si esce… le diedi fuoco, Anna gridò e smisero di portarmi al lago. Io volevo solo far salpare la mia barca di legno…
Norma era la casa di Polifemo… all’entrata del paese c’era un grande cartello con la sua icona… ci passavo tutti i mesi di agosto (questo lo so anche se non me lo ricordo). A Norma c’erano tanti pezzi… pezzi di sassi, pezzi grotte, pezzi di epica… quando i miei andavano a riposare, io correvo su per la collina e andavo a guardare i pozzi. Se esiste il pozzo c’è anche un secchio… solo che quei pozzi non avevano più acqua, così non c’erano i secchi. Io cantavo dentro al pozzo. Salivo su un vecchio cassetto di legna e cantavo. Cantavo bugie… e poi raccoglievo le bugie da terra e ci soffiavo sopra… sì… quei fiori che si rompono al primo soffio… distese di bugie attorno a pozzi senza secchi e me, a gridare bugie dagli echi fondi. Mi guardavo intorno… prato e pezzi di pietra. Immaginavo che Polifemo doveva proprio sentirsi solo, così alto e senza un occhio. Chi lo avrebbe amato se non io?… fingevo di essere la sua innamorata che lo aspettava e danzava per lui… ero Tersicore che danzava per il suo gigante. E poi il profumo del mare che arrivava a folate discontinue. Il mare era lì, all’orizzonte, e io danzavo, danzavo… danzavo… i pensieri arrivavano a mazzi, a grappoli… le suggestioni poi… ah, le suggestioni… che ricordo penetrante… un ricordo che sbaglia sempre i tempi… arriva, ti esplode tra le gambe, il freddo nella pancia, i brividi sul petto… se non fosse mai tornato?
L’anno dopo, a scuola, ci dissero che la terra dei Ciclopi era la Sicilia. Polifemo non era mai stato a Norma …smisi di cantare e rimasi seduta un’estate intera ad aspettare. Non sarebbe più tornato…non c’era mai stato, eppure io lo sentivo…avere le risposte, accoppiarle alle domande o starsene in silenzio dimenticando? Uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi…
Cominciai a suonare per dimenticarlo… era a scuola, un gigante nero… feci la sua conoscenza passando le dita sulle listarelle nere, sempre le nere… suonava di me più una nera che tutte le bianche messe insieme…restavo in piedi dapprima, tiravo la linguetta che avevo scoperto essere una specie di regolatore di volume dal nome sordina… le carezze a punta di dita lì non funzionavano, se lo volevo sentir parlare dovevo pigiare… imparai a pigiare… poi a sedere… poi a non tirare più la linguetta e me ne innamorai.
Ci si innamora spesso per dimenticare un amore finito o un amore perso… fu l’unico amante che non tradii… così lui tradì me. Da un polpastrello esce più sangue di quanto non si pensi…

VerbErrando: Produci, consuma…

Veruska Armonioso
ROMA
– Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e InnamoratiDentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”.  “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.

Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore  all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].

Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].

Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].

Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]

Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.


[1] Yeats “Bugiardi e Innamorati”, Minimum fax 2011

[2] Discorso prima del suicidio rituale, Tokyo 25 novembre 1970

[3] Il re pallido, Einaudi – Stile libero 2011

[4] Biglietto di addio di Majakovskij.

[5] Biglietto di addio di Mishima.

[6] Infinite Jest, Einaudi – Stile libero 1996

VerbErrando: Waiting for good

Veruska Armonioso
ROMA – “Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende.”
Settant’anni fa, il grande scrittore ungherese Sándor Márai metteva al mondo Le Braci e raccontava l’oblio dell’attesa, scandendone con superba incandescenza tutte le fasi, tutte le conseguenze…le conseguenze. Perché quando si attende si è soli, da soli “… nella solitudine si impara a comprende ogni cosa, e non si ha più paura di niente”. Sándor Márai sapeva bene cosa volesse dire essere soli e attendere, perché lui era passato dai lustri di un successo e di una fama meritata, ai bui dei margini nei quali i cataclismi politici lo avevano confinato. Per lui attendere era la risposta. Aveva la fiducia completa nel’attesa che avrebbe portato qualcosa, avrebbe dato indietro qualcosa. A lui diede indietro domande…domande capitali come “Chi sei?… Cosa volevi veramente?”. Márai, attraverso la voce eterea di Krisztina, diceva:
“Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alle fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza.” Attesa come esercizio di pazienza, di fede, non di tattica di difesa come ci suggerisci Sun Tzu ne “L’arte della guerra”. Fiducia verso l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. Di qualcuno che cambierà il corso della nostra vita, dei nostri destini.
Qualcuno che farà pur qualcosa, qualsiasi cosa, a patto che porti dei cambiamenti, come per Kavafis, ad esempio, erano i barbari:

“ – Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.
– Perché tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non legiferano?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro
[…]


– Perché tutto a un tratto questa apprensione, tutta questa agitazione?

(Come si sono fatte serie le facce.)
Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi, qualcosa è venuto dai confini
e ha detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?

Quella gente, dopotutto, era un soluzione.”
L’attesa, la vita. L’attesa, la solitudine. La vita, la solitudine… La solitudine. Sentirsi soli. Essere soli. In solitudine ci si conosce, ma riconoscersi è un’altra cosa. Ci si riconosce solo da fuori, fuori dal proprio cerchio.
Kafka diceva che ci sono due regole per cominciare a vivere “… restringere il tuo cerchio sempre più e controllare continuamente se tu stesso non ti trovi nascosto da qualche parte al di fuori del tuo cerchio”. Ci richiamava alla solitudine e, nel farlo, usava la confortante immagine di una geometria che contenga, senza spigoli contro cui sbattere. Gli spigoli, gli angoli, sono loro che ci distraggono. La curiosità di andare a vedere cosa nascondono, ci spinge, crudelmente, a non prestare attenzione a quello che, invece, c’è di qua, davanti, dalla nostra parte, e ci spinge a perderci…certo, perdersi è perfetto se ci si conosce… se ci si
conosce, uscire dal cerchio è un bel gioco e rientraci è uno scherzo. Ma se non ci si conosce? Che cosa si fa se si esce dal cerchio senza conoscersi?
Kafka sapeva bene dell’esistenza di questo rischio e scelse il cerchio. La confortante rassicurazione di una geometria facile e comoda per tutti.
Ma la solitudine, che cos’è? E’ una sedia vuota accanto alla tua o una casa con una sola sedia? Riflettevo in questi giorni sul tempo e la solitudine. Sul sentirsi soli e l’essere soli.
Su come questi due diversi stati d’animo influenzino il tempo che viviamo per esperienze, scelte, reazioni, azioni. Su come questi due diversi stati d’animo influenzino, appunto, l’attesa.
Allora ho pensato a Beckett, a come abbia stravolto il binomio attesa-solitudine e a come lo abbia svuotato, e, nello svuotarlo, lo abbia riempito.

“ Estragone: mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo. eravamo fatti per seguire la stessa strada.
Vladimiro (senza offendersi): Non è sicuro.
Estragone: No, non c’è niente di sicuro.
Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi.
Estragone: Ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Vladimiro: E’ vero, ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Estragone: Allora andiamo?
Vladimiro: Andiamo.
Non si muovono.”

Per Beckett la solitudine è in due, due che sono uno, perché nell’attesa si può non essere da soli ma si è comunque soli… come nell’attesa di una risposta, di un esito, di un arrivo… come nell’attesa della morte…un’attesa vuota, un’attesa stanca, un’attesa senza la fede cieca di Penelope, o senza la speranza di Borgna… un’attesa del niente. Un niente.
Esistono, però, altre attese. Sono quelle che ho scelto di vedere. Sono le attese che si vivono con il sorriso, quelle che si trascorrono con una trepidazione bambina, che ti ricorda quando aspettavi il Natale per scartare i regali. L’attesa per un nuovo incontro, l’attesa per una nascita, l’attesa per una nuova stagione… l’attesa per raggiungere un desiderio ed esaudirlo.
Che l’attesa di questo 25 aprile, amici, ci ricordi il sapore delle attese belle e ci faccia venire voglia di provarne ancora; che questa attesa sia liberazione e, nel renderci liberi, ci faccia sempre essere presenti a noi stessi e ci ricordi che la libertà è un dono per metà, per l’altra metà è una meta da raggiungere.
Che la libertà sia uno status in divenire e non un punto d’arrivo.
E che le nostre attese siano, comunque, una soluzione e ci portino verso un qualche dove!

 

Costantino Favafis, Aspettando i barbari, Passigli 2005

Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, 2004

Samuel Beckett, Aspettando Godot, Einaudi 1956
Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli 2005
25 aprile giornata della liberazione d’Italia

VerbErrando:Trentatré

Veruska Armonioso
MILANO
– A Milano piove. Dicono che andrà avanti ancora per dieci giorni. L’ho trovata così quando sono arrivata venerdì scorso… alle otto e cinquanta del mattino la Stazione Centrale era una sfinge bagnata, silenziosa e addormentata… come me, che avevo lasciato Roma con il treno delle sei, dopo un sonno piccolo, figlio di una serata senza fondo con vecchie birre e un amico nuovo.

Da quando il lavoro mi porta a Milano il treno è diventato uno dei miei nonluoghi preferiti… cerco di prenotare sempre la stessa seduta, anche se in carrozze diverse, così da mantenere un senso di familiarità che renda il mio nonluogo ospitale… all’occorrenza un letto, spesso un ufficio, a volte (quelle più fortunate) un salotto; comunque un osservatorio. Proprio sul treno penso di aver capito che non sarò mai una grande scrittrice… l’ho capito leggendo un’intervista a Céline…quando chiedi a uno scrittore cosa ami di più tra la conoscenza e l’immaginazione non ti risponde mai la conoscenza, invece io ho sempre preferito indagare piuttosto che inventare, chiedere piuttosto che supporre…eh sì, c’era un tempo in cui, per me, chiedere era tutto… eppure smisi. Forse perché cominciai ad avere paura di non ricevere risposte, o forse perché cominciai a temere le riposte. Smisi di fare domande e così la mia carrozza di conoscenza, indagine, tracce, perse di resistenza fino a diventare un polveroso e pericolante carretto pieno di strumenti in disuso… magari è proprio da lì che proviene la mia passione per gli utensili antichi, abbandonati…è una passione che ho scoperto condividere con Paolo. L’ho scoperto sabato scorso alla cappelleria Mutinelli, durante una delle nostra passeggiate del sabato mattina. Da qualche tempo passeggiare di sabato mattina con Paolo per Milano è diventato un allenamento intellettuale. Insieme a lui c’è un gruppo di persone che si riuniscono e condividono conoscenza… letteratura che sedimenta nell’asfalto, negli anfratti delle rotaie del tram, sui muri dei palazzi, nelle pieghe della memoria di Milano. Si chiamano “Passeggiate d’autore” e ogni settimana incontri uno scrittore diverso, un libro diverso, un quartiere diverso e con loro un mondo nascosto, silente. E allora succede come sabato appena passato in cui Paolo (Melissi) ti guida per Porta Venezia e, senza dover chiedere, lui ti racconta cose.. .cose che vorresti proprio sapere… con lui le “donne di carta”, donne che non recitano ma ‘dicono a memoria’ estratti dai libri a cui le passeggiate sono ispirate. Costeggiando i confini immaginari di quello che un tempo era il Lazzaretto finisci, così, per incontrare la chiesa Di San Nicola. E’ la vigilia di Pasqua per la Chiesa Ortodossa e questo prevede un rito chiamato “miracolo della luce”. La tradizione vuole che, nel buio prima della mezzanotte, il vescovo accenda trentatré candele da portare in processione per le vie della città e che, per i primi trentatré minuti, il fuoco di quelle candele non bruci ciò con cui entra in contatto. Trentatré minuti di grazia, di trentatré candele di luce senza calore, di fiamma senza pericolo. Trentatré minuti in cui si potrebbe ancora correre il rischio di chiedere…per trentatré minuti almeno. Ho sempre saputo di aver perso dei passaggi chiave nella costruzione della mia coscienza emozionale. Mi domandavo cosa ne sarebbe stato di me se avessi saputo fin da subito come si fa … come si fa a riconoscere un’emozione, attribuendole il giusto nome, individuandone i tratti distintivi, senza errori, senza confonderla con altro…e poi come si fa a prenderla in mano quell’emozione e a tenerla senza farla cadere o, peggio, mandarla via. Infine, come si fa ad affrontarla…viverla insomma…o, se non altro, camminarci accanto restando vivi.

Ero cresciuta poggiando i piedi su un basamento solido che diceva così:

“Alcuni vanno alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, in campagna, al mare o sui monti, e anche tu hai l’abitudine di desiderare ardentemente tutto questo. Però è quanto mai sciocco, dato che puoi, in qualunque momento tu voglia, ritirarti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto se si hanno dentro di sé i princìpi tali che, al solo contemplarli, si acquista una perfetta serenità. E per serenità non intendo altro che ordine interiore.” Marco Aurelio me lo aveva insegnato quando avevo tredici anni e io avevo cercato di tenerlo sempre a mente. Solo che non avevo considerato che sapere dove cercare qualcosa non volesse dire trovarla. E allora da un po’ avevo cominciato ad associare fraintendimento a comunicazione e a pensare cosa succede quando si comunica con diversi codici e ci si fraintende…a lungo…di continuo.
Succede che ci si perde. Succedono i distacchi, le separazioni…succedono gli addii.
Succedono valigie fuori dalla porta, lacrime, parole piene di spigoli…succedono reazioni, cariche di brutte intenzioni, succedono illusioni, delusioni.
Succede che non ci si capisce. E si comincia ad avere paura.

Nei rapporti tra umani rintraccio tutta la solitudine dei contenitori vuoti, siamo sempre più simili a scatole, bellissime, curate nelle rifiniture, ma senza contenuto….così le relazioni diventano condivisioni di spazi vuoti riempiti a forza da inutili gingilli che distraggano dalle mancanze. Cosa ci manca per essere uomini e non solo esseri umani? Per capirci? Forse usiamo codici diversi? No, temo si tratti di altro. Penso che non abbiamo codici, e quando andiamo a decodificare una reazione ad esempio, la interpretiamo male perché è frutto di un’azione svolta senza criterio, senza codice. Continuo ossessivamente a domandarmi da un po’ che cosa ne sarebbe stato di noi se, alle scuole materne o alle elementari, avessimo ricevuto lezioni di sentimenti.
Così ieri sera, con quelle trentatré candele in mano, ho deciso di ricominciare a chiedere. A Giovanni ad esempio, che tra poco diventerà sacerdote, di fare la Pasqua con loro; di condividere con me le loro uova e i loro tozzi di pane secco. E poi ho deciso di chiedere altro, a un’altra persona. E sono andata a bussare alle porte di Dario Borso. Che è, sì, uomo dall’intelletto sopraffino e dalla sconfinata cultura, traduttore di bravura inestimabile e docente universitario di prim’ordine, ma prima di tutto un conoscitore delle filosofie dei più grandi pensatori, un uomo capace di rintracciare e sintetizzare l’essenza delle cose. Allora gli ho chiesto… di scegliere un sentimento, uno qualunque, e di insegnarmi a capirlo come se fossi sua sorella…

Non avrei dubbi: la curiosità. Che deriva da cura. Curiosità è prendersi cura chiedendo: cur? in realtà viene da cuor, perciò non è un sentimento freddo, e come l’amor parte da un vuoto/mancanza/bisogno. Sete di sapere/fame di… insomma, la curiosità comincia con una confessione: d’ignoranza.

Mh…poi però deve essere successo qualcosa, perché provare curiosità è diventato un sentimento di cui avere pudore… Sempre meno si ha in stima il curioso, sempre più si associa la curiosità all’invadenza. Allora, cos’è cambiato… quando è successo?

Da sempre la curiosità è associata al pudore e al divieto: Ulisse finì all’inferno, no?Adamo fu curioso, ogni curiosità prevede un velo da sfondare, o almeno da scostare. La chiesa cattolica, quindi stato e famiglia, sono concrezioni patologiche di blocco della curiosità. Come diceva Paolo di Tarso “la legge crea il peccato”, perciò la curiosità è vista come invadenza di un territorio altrui. In realtà la curiosità di per sé è una forma altissima di rispetto… rispetto da respicio = guardo due volte, ossia guardo con cura: curiosità. Piuttosto, ultimamente si è diffusa una curiosità strana, senza cura: si curiosa senza neanche guardare, si fruga cioè, si cerca/crea l’osceno, il fuori scena oltre, o meglio sotto il divieto. Se curiosare è nevrotico, frugare è psicotico.

Quindi inibire la curiosità è un effetto della diseducazione al sentimento… e come mi educo alla curiosità?

Alla curiosità ti educhi soddisfacendola. Se è vero che la legge crea il peccato, essa crea parimenti il piacere, è come l’assicella del salto in alto. L’ignoto è oltre i valori, se ne fosse assogettato, sarebbe noto. Ciò crea paura, solitudine, ma contemporaneamente spinge all’unione, all’alleanza. La ricerca colllettiva/curiosa dell’ignoto è la fonte della società perfetta, che è anche la più imperfetta, perché priva di tutto, vuota.

E cosa mi dici della delusione allora? Uno dei pericoli in cui si rischia di cadere per soddisfare la curiosità è proprio quello…la delusione per la conoscenza dell’ignoto…

La delusione è il rovescio dell’illusione, e il ludus si gioca tra soggetti, non tra soggetto e oggetto: l’ignoto né illude né delude. La curiosità tra soggetti è reciproca, raddoppiata rispetto a quella per l’ignoto. E’ il campo del patto e della promessa, in una parola del futuro.

Il campo del patto e della promessa…

Prendiamola da un altro lato: osservare, ob-servare, serbare davanti. Curiosità, rispetto, osserv… anza. per serbare davanti, devi essere sicuro dietro (il timoniere di Ulisse). Il patto è di rispettare/osservare una promessa. Pro-messa è l’apertura al mondo… una famiglia, una società, un mondo va a ramengo se alla base manca ciò.

Delusione, ludus, cor, Ulisse, ignoto, solitudine… mica un passo da niente. Del resto, però, se si chiede aiuto a qualcuno, poi bisogna affidarsi a lui. E allora sia!
Così avrà inizio il mio viaggio… e l’inizio partirà da qui.
Un viaggio alla scoperta del mondo, con un occhio verso Ulisse e l’altro verso il suo timoniere.
Trentatré candele ancora da accendere sul comodino e una promessa a me stessa: non avere più ’70aura dell’ignoto.
Una curiosità da alimentare, soddifacendola, senza paura e poi… giocare, giocare, e ancora giocare…
…forse, così, finalmente, imparerò anch’io a immaginare.

“La libertà interiore” – Marco Aurelio (ed.Mondadori)
Passeggiate d’autore – Associazione Pluriversi (pluriversi@gmail.com)
Chiesa Russa Ortodossa di San Nicola – Via San Gregorio, Milano (15 Aprile 2012 Pasqua Ortodossa)

 

 

VerbErrando, cronaca delle parole. Milano è…


MILANO
– Milano è la città che meglio di qualunque altra ti restituisce te stesso. Vive auto-fagocitandosi e per sopravvivere devi imparare a prenderti cura di te altrimenti ti perderai. E’ come l’amico tormentato che ognuno di noi ha avuto almeno una volta nella vita, da interpretare, attendere, conquistare, giorno dopo giorno. Le vite a Milano non si intrecciano, camminano in parallelo, condividendo spazi in silenzio, con mestizia che a tratti diventa tristezza.
A Milano ridono i ragazzi, quelli che incontri per strada, all’uscita delle scuole o quelli che trovi sul metrò, con i loro i-phone alla mano mentre si raccontano storie di poco conto, ma che so perfettamente (anch’io un tempo ebbi quell’età) essere per loro tutto… tutto il loro mondo.
Quando è primavera Milano è la città migliore, lo dicono i milanesi, quindi ci credo. Non fatico io stessa a rintracciarvi il fascino spregiudicato della metropoli frenetica che si prende del tempo per guardarsi attorno, per sorseggiare una cedrata. Dal metrò scendo a Moscova, voglio arrivare in centro passeggiando per qualche isolato. Appena esco, ad accogliermi, c’è la libreria Utopia. Due piani che si estendono verso il basso, il fondo, il retro… due piani di libri accatastati con dovizia… la tipica libreria che ti rimanda al passato, a quei negozi dove lo spazio era sempre poco rispetto ai libri che si ospitavano. Ci sono gli odori delle carte, gli odori che trovi nelle tipografie o nelle biblioteche. Non riesco mai a uscire da una libreria senza portare via dei pezzi di poesia… Utopia è perfetta per lasciarmi Esenin e la sua Russia:

 

“Non insultatemi. Ecco la mia tragedia!/ Io non sono un mercante di parole/ E non ho colpa se la mia testa è sconvolta,/un tempo sembrava d’oro./ Dite che non amo il mio villaggio né la mia terra:/Ma allora, come avrei potuto vegliare su di loro?/Sto per lasciare tutto ciò che possiedo. Con la barba selvaggia,/Me ne andrò vagabondo: così vuole la Russia./Dimenticherò i miei poemi, i miei libri:/ M’attaccherò al collo una cornamusa/ Se è vero che proprio ai nomadi il vento suggerisce/ Nella vasta pianura le canzoni più belle/…”

Esco con il mio amico nella borsa e riparto alla ricerca del centro. Non conosco bene la strada, ma ho le sue parole con me e scelgo a sensazione la direzione che più mi richiama per appartenenza. E’ così che  mi perdo per Corso Garibaldi. Quando mi perdo succedono sempre cose meravigliose. Sarà che quando ci si perde l’attenzione si affina per ritrovare la strada giusta e allora tutto è visibile, niente sfugge, nemmeno il più piccolo particolare.
Per la strada c’è aria di paese… due anziani signori seduti su una panchina che si scambiano suggerimenti su come navigare in internet dall’i-phone (è ormai chiaro che sono rimasta l’unica a non possederne uno), nonni con nipoti in bicicletta, signore al bar che bevono il caffè e parlano dei figli e delle loro vite impegnate. C’è un fioraio che vende mazzetti di lavanda avvolti in coni di carta… solo che accanto ha segnato un prezzo che restituisce immantinente a quel luogo la sua vera identità: una strada centrale di Milano.
Con la delusione di chi scopre un inganno, proseguo fin quando i miei occhi non inciampano in un’insegna che oscilla avanti e indietro… dal vento…
“Libreria del mondo offeso”
… suona come una canzone bella.
Una freccia sotto il nome mi invita a seguire la strada. So di allontanarmi sempre più dalla meta e di rischiare di perdermi oltre misura, ma non è forse la curiosità di scoprire l’ignoto che ci trascina verso le catarsi? Seguo la prima freccia, la seconda e la terza… le cose migliori sono nascoste alla vista… richiamano alla ricerca, alimentano il desiderio, richiedono determinazione e il tempo… le scoperte richiedono tempo…

 

“Se per Itaca ti metti in viaggio / augurati che il cammino sia lungo / pieno di avventure, colmo di esperienze. / Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi / O l’irato Posidone: / non avrai questo genere di incontri sulla tua strada / se il tuo pensiero resta altro e squisita / è l’emozione che t’invade il cuore e il corpo. / Non incontrerai i Lestrigoni e i Ciclopi / né il grifagno Posidone / se non li porti dentro di te, / se la tua anima non te li mette davanti.”
Entro nella corte, poi nel palazzo di sinistra… seguo diligentemente tutte le indicazioni e, al piano terra, ecco la porta… Varcare quella soglia si rivelò il passo migliore che avrei fatto quel giorno. Se il primo libro che vedi è un gigantesco tomo di finissima fattura di Carmelo Bene vuol dire che sei in un posto speciale… non intravedere nessun libro di Faletti ti rassicura sulla sensazione iniziale, scoprire che la proprietaria è Laura ti conferma di trovarti nel luogo giusto.
Laura è una donna bionda, minuta, con capelli arruffati tenuti insieme da un fermaglio o un elastico, comunque legati dietro la nuca. Ha gli occhiali e il sorriso imbarazzato della debuttante quando ti confida a voce bassa che la libreria è aperta da soli tre anni e mezzo… strano perché sembra esserci da sempre.Laura parla a voce bassa e quando lo fa sorride sempre. Si commuove quando le dici che dentro quella stanza si consuma un mondo fantastico perché lei, come tutti i librai indipendenti, lotta continuamente per rimanere in piedi. Alla domanda “Organizzate presentazioni letterarie?” risponde che organizza tutto ciò che abbia un peso e, quando dice ‘peso’, Laura scandisce tutte e quattro le lettere fino a farla diventare una parola mooolto luuunga, molto pesante, appunto. Mi mostra “Tristano muore” di Tabucchi e poi il logo sul loro volantino “Vedi?” indicando le due immagini “… lo abbiamo preso da lui”, poi bacia il libro con devozione e lo riposa sul tavolo.
Parliamo dei luoghi non luoghi, di quanto le socialità ormai si svolgano solo sugli schermi di un pc o su quelli di un cellulare, mentre luoghi veri come il suo sono pieni di sedie e sgabelli vuoti. “Riempiamola di persone questa libreria!” le dico con fermezza, lei, come la protagonista di un libro di Jane Austen, con compostezza si commuove e risponde “lo amerei tanto”. Le chiedo come mai ha aperto una libreria e mi risponde che nella vita ha sempre e solo desiderato prendersi cura delle persone e poi aggiunge “avrei voluto aprirla a Roma…” riconoscendo dal suono delle mie vocali un’origine capitolina “… ma poi ho pensato che Milano ne avesse più bisogno”.
Vado via con la promessa di tornare, Laura si è impegnata a trovare per me un libro di Kavafis, una raccolta di poesie che cerco da anni… esaudire un desiderio mi pare un modo perfetto per prendersi cura di una persona.

 

La passeggiata porta verso il Duomo e poi verso via Torino. In tutt’altra libreria e in tutt’altro ambiente, in una Fnac qualunque, c’è Roberto Andò che presenta il suo romanzo “Il trono vuoto”. Una schiera di moschettieri di eccezione lo accompagnano: il giornalista Aldo Cazzullo che, dopo il suo intervento lascia la sala causa febbre, Moni Ovadia e, il D’Artagnan del caso, Umberto Eco… mi domando che libro mai potrà essere per smuovere Lui in persona, poi Andò dice “…quando ho telefonato al mio amico Umberto per invitarlo a presentare il libro…” e smetto domandarmi cose… essere amici di Eco comporta indubbiamente dei privilegi.
Parlerei volentieri della trama del libro, ma troverete facilmente valide recensioni su tutti i più importanti siti di settore, con interventi di relatori prestigiosi come Walter Veltroni e Matteo Renzi. La presentazione, in sé sarebbe stata interessante se non si fosse respirato quell’odore di naftalina che caste intellettuali del genere diffondono, con le prime due file di sedie rigorosamente riservate ai “vip”, a donne con collane di perle al collo e a uomini in giacca e cravatta con sorrisi paretici sul volto. E allora avverto cose (lo so, retoriche) …lo stacco tra questa libreria piena di gente e la libreria del mondo offeso, piena di  vuoto… Eco ad appannaggio di alcuni, dei soliti e non lì, a raccogliere persone, a parlare di altro, di altri… di gente nuova, del futuro… mi domando cosa ci faccia io qui. Poi mi ricordo che c’è Umberto davanti a me e che lui è il mio santone, del quale sarei disposta a stampare immaginette sacre da distribuire in strada. Così resto fino alla fine, godo della sua ironia colta e raffinata e poi, appagata e satolla di sofisticazioni, me ne torno verso la mia casa di Milano.

 

Seduta in metrò, penso… alla strada percorsa oggi, al mio viaggio, al lungo cammino… penso al vento, alle canzoni belle, a Esenin e Kavafis… penso a quanto sia lontana la Grecia… a quanto lo sia la Russia… a quanto queste due terre mi appartengano… a quanto io non appartenga a niente. Perché da anni ho deciso di essere una nomade e di cantarmi canzoni belle che mi indichino la via.Perché da anni ho deciso di prendere un vaso, riempirlo di terra e delle mie radici e di portarlo sempre con me. Perché da anni ho capito che la casa non è un luogo ma  qualunque posto parli di me.
Libreria Utopia – piazza Moscova – Milano
Sergej AAleksandrovic Esenin – “Russia e altre poesie” (ed. Baldini Castoldi Dalai)
Kostandìnos Kavafis – Itaca da “Tra queste stanze buie-poesie morali” (ed. Passigli)
Libreria del mondo offeso – Corso Garibaldi, 50 (cortile interno) – Milano
Roberto Andò – “Il trono vuoto” (ed. Bompiani)

 

Veruska Armonioso per ChrL.

VerbErrando, cronaca delle parole: la Poesia

ROMA – “Non ho mai saputo

lasciarmi portare

da ciò che avrebbe potuto essere bello

e ho resistito senza sapere

senza capire perché

con tutte le mie forze

contro…la gioia.

Ho dovuto soffrire senza ragione

per me

per lamentarmi

per avere qualcosa su cui piangere.
Adesso, ho così ben scavato

con le mia lacrime la fossa

che posso davvero seppellirmici.
Eppure credo di aver amato da lontano

tante cose diverse

ma sempre mancava qualcosa

Un sapore di sogno

un po’ d’incanto

perché bisognava soffocare

i ricordi teneri.”
Marie-Jo Simenon era la figlia di George. George scriveva. Lui inventava personaggi a cui affidava compiti importanti, tipo cercare gli assassini, rincorrere i delinquenti, far innamorare donne misteriose, conquistare città inarrivabili all’altro capo dell’oceano. Seppe inventare tutti i tipi di uomo, ma non quello giusto per Marie. Così lei morì.
Il 19 maggio 1978 si sparò un solo colpo con una calibro 22 e tutto finì. Gli echi delle corde della sua chitarra, le lettere al padre, le poesie, le parole alla rinfusa scritte su carte di fortuna… niente più niente… il suo niente… così vuoto di esseri… così pieno di sé… di se… lei era una mongolfiera che proprio non riusciva a volare. Eppure voleva. Lei viveva lo struggimento di sapere che la vita non ha fine e che vivere è arduo ovunque. Natsume Sōseki lo diceva.
“È difficile vivere nel mondo degli uomini.

Quando il malessere di abitarvi s’aggrava,

si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile.

Quando s’intuisce che abitare è arduo,

ovunque ci si trasferisca,

inizia la poesia…”.

Nel 1906 scriveva “Guanciale d’erba” e dipingeva ad acquerelli l’essere poeta… un destino che non ha niente a che fare con la vocazione o l’ambizione… il poeta è un essere per il quale “Completare è diminuire”. “ Non guardo nulla. Ma proprio perché sul palcoscenico della mia coscienza non si muove nulla che sia rivestito di un colore sgargiante, riesco a identificarmi in qualsiasi cosa. Eppure mi sto muovendo. Né dentro né fuori da esso. Tuttavia mi muovo […] Se proprio mi si costringesse a spiegarmi, affermerei che il mio animo vibra con la primavera.” Il poeta… un uomo, “… un uomo che, avendo limato da questo mondo quadrangolare un angolo chiamato buon senso comune, vive in un triangolo”. Questo fu anche Nazim Hikmet, nato a Salonicco quando era ancora Turchia, russo di adozione… passò tutta la sua vita lontano. Lontano dalla sua donna, lontano da suo figlio, lontano dalla sua terra… lontano dal carcere, lontano dalla morte. Lontano… solo… visse in amore. Scrisse d’amore. Per la libertà di cui si fece bandiera, per le donne, per la vita, per la meraviglia, per il potere del divenire, del cambiamento, del rinnovamento “Il miracolo del rinnovamento / mio cuore / è il non ripetersi del ripetersi”. Vivere, osare, assumersi il rischio di essere audaci, perché la vita non è uno scherzo…
“…Prendila sul serio

come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

dal di fuori o nell’al di là.

Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate

o dentro un laboratorio

col camice bianco e gli occhiali

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conosci la faccia

e morrai sapendo

che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

pur temendola,

e la vita sulla bilancia

peserà di più.”

 

Gente così muore una volta sola, e quando lo fa non è nemmeno per sempre. Invece noi? Noi che non siamo audaci se non in apparenza, noi che non abbiamo ricevuto lezioni di educazione sentimentale, che non conosciamo le geografie delle nostre emozionalità, che non combattiamo se non per il nostro pasto, noi, chi siamo noi?
Che la poesia sia con noi e con il nostro spirito. Che questa primavera ci aiuti a transitare… verso il risveglio o il lento abbandono… comunque verso un qualche dove. Che questo transitare sia in poesia, in divenire… di desideri inespressi, di giochi mai iniziati, di incontri al buio, di avviamenti, di raccordi… …che questa primavera sia vita, amici! Che questa primavera sia vita!

 

21.03.2012
Giornata mondiale della poesia.
Morte di Tonino Guerra.
Primo giorno di Primavera.

 

George SimenonMemorie Intime (ed. Adelphi)
Natsume Sōseki Guanciale d’erba (ed. Neri Pozza)
Nazim HikmetPoesie d’amore (ed. Mondadori)

 

Veruska Armonioso per ChrL.

L’Editoriale: VerbErrando, cronaca delle parole

ChronicaLibri editorialeROMA – Parte oggi VerbErrando, cronaca delle parole, uno nuovo spazio dedicato agli eventi, rassegne, incontri e appuntamenti letterari. A raccontarci cosa succede sulla scena editoriale romana e italiana c’è la scrittrice Veruska Armonioso; attraverso la sua penna conosceremo i libri e gli scrittori che popolano il variopinto mondo culturale di questo periodo. Con una scrittura descrittiva, coinvolgente e spensierata, Veruska ci porterà in viaggio alla ricerca delle parole.

 

A spasso per Monti, mi presento
Che arriva la primavera non te ne accorgi dal calendario, ma dalle porte aperte.
Quando, dopo aver aperto la porta, non fai caso a richiuderla perché tanto non c’è freddo da bloccare all’entrata, ecco… quello è il momento.
Così, piano piano, le strade si popolano di passeggiatori che, senza una meta precisa, si aggirano per vicoli, piazze, alla ricerca di nuove scoperte. Il Rione Monti è un Barrio, speciale in questo. Solo lì recuperi una parte di te che non hai altrove, la parte della città che non sarà mai di nessun viaggiatore occasionale. Monti è di chi a Roma ci viene per restare, di chi se ne è perdutamente innamorato e proprio non riesce a starne senza. La casa di appuntamenti all’aperto più romantica che ci sia, dove l’arte si mette in mostra in tutte le sue declinazioni per farsi scegliere e portare a casa. Dove c’è posto per ogni pensiero, dal più pudico al più spregiudicato, dove le clandestinità si condividono tra sconosciuti per appartenenze, con una birra ghiacciata in mano e un libro nella tasca. In una serata come questa, passeggiando per via Leonina, trovi Orlando e Ofelia. Non so se Ludovico Ariosto e William Shakespeare avrebbero mai fatto incontrare questi due epici paladini dell’amore folle, ma Roma lo ha fatto accadere attraverso una porta aperta, al civico 85. Non entrare è impossibile, sei attratto da una forza magnetica che ti trascina dentro e di colpo ti trovi in un luogo curioso, un luogo di libri; arte figurativa per lo più, e poi, man mano che procedi attraverso le sale, scopri che non è un luogo ma una casa, una casa dell’arte. C’è una veranda vestita a serra dove si beve e ci si intrattiene al chiar di luna, una botola che, attraverso una scala a chiocciola, ti fa scivolare in un sottoscala umido e freddo, completamente bianco, dove alloggia una mostra di pittura. Risalgo e trovo, seduto su una poltrona (non si sa se vintage o antica ma, di fatto, non nuova) Claudio Morici che legge le filastrocche di Maurizio Ceccato impegnato, intanto, con una bomboletta spray oro, a rivestire la porta d’entrata con un’illustrazione tratta dal suo libro “Non capisco un’acca” (ed. Hacca 2012).
Assaporo ogni passaggio di questa delizia dei sensi, dove le parole giocano a servire le immagini di Ceccato in un rebelot di identità stornate, rielaborate e poi riassegnate che fanno di questo libro un prezioso oggetto da sfogliare con parsimonia, centellinandone ogni centimetro quadrato.

 

L’affabulazione del suo gioco ti proietta in una dimensione di onirica visionarietà, fluttui in un’aria rarefatta, sospeso tra i suoi vedononvedo, attraversato dai suoi vagoni… percepisci con ogni cellula del tuo corpo le possibilità, infinite e indefinibili, che la mente può riservarti. Una casa dell’immaginazione spregiudicata, raccontata con poesia semiotica in tutte le sue forme.
Uscire da quel luogo ha il sapore amaro dell’addio… meno male che c’è Monti fuori ad aspettarmi…il mio luogo…quel che mi manca quando sono altrove… il luogo che parla di me, fatto della mia gente, di gente come me… esploratori pagani alla ricerca di scoperte nuove… e di nuove immaginazioni.
Orlando e Ofelia, via Leonina 85, Rione Monti, Roma.
“Non capisco un’acca” di Maurizio Ceccato, ed. Hacca 2012

 

Veruska Armonioso per ChrL