Giulia Siena
PARMA – La terra non è piatta come un tappeto, ma tonda come una botte: non è ancora una certezza, è – piuttosto – una premonizione. Brandano, un giorno, si sveglia con questa intuizione sussurratagli all’orecchio dal sonno. Un sogno che Brandano non riesce a tenere a bada; cerca in tutti i modi di intraprendere quest’avventura di scoperta e coinvolge gli abitanti di Saggionia mettendo in moto una sgangherata macchina organizzativa. Gli viene data una “bagnarola” e quel vascello bucato diventa, così, La nave dei folli, il libro di Marco Taddei e Michele Rocchetti. Pubblicato da Orecchio Acerbo, l’albo raccoglie le splendide immagini e le parole visionarie che danno vita a un racconto di speranza e scoperta. Continua
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“Manuale di cucina sentimentale”, la vita è una ricetta che non ti aspetti
Giulia Siena
ROMA – “Quei venerdì erano qualcosa di più di una semplice cena tra amiche a parlare di tizi carini, fidanzati immaginari, capi insopportabili, lavori precari, sesso insoddisfacente, dipendenza da social network, chili da perdere e colpi di testa: era l’idea che in un periodo storico di inquietudine e incertezza, in cui la precarietà lavorativa e sentimentale ci costringeva ad aggiornare i nostri sogni e a non prenderci troppo sul serio, gli unici punti fermi che avevamo erano l’amicizia e una cena da condividere con chi la sapesse apprezzare”. Tessa, Agata e Cecilia si incontrano ogni venerdì sera. Il loro è quasi un rito, un appuntamento al quale non si può rinunciare: ogni settimana, a turno, si mettono attorno a un tavolo imbandito, si spogliano dei propri orpelli sociali e assaporano il gusto e la piacevole complessità delle chiacchiere. Ogni venerdì di ogni settimana, nonostante tutto. Il tutto per Tessa, “foodblogger imprigionata nel corpo di un avvocato”, era un fidanzato QuantoBasta, un lavoro alquanto frustrante e una madre che le ripeteva “E adesso? Te lo avevo detto!”; ma la sua unica, vera e grande passione era la cucina, anche se spesso si lasciava imprigionare dalla ricerca della ricetta perfetta. Il “tutto il resto” di Agata, “una giornalista di moda sovrappeso con l’ossessione per la dieta” era spalmato durante la settimana, quando, vestiti i panni di una milanese fashion writing scriveva di diete, bellezza e tendenze. Per Cecilia “una bio-donna integralista del km zero”, il resto era rappresentato dalla lotta ai pesticidi e agli OGM, mentre passava il tempo ad accudire Romeo, un panetto di pasta madre che si portava dietro dalla fine della storia con Gaspare.
Le vite di queste giovani donne così diverse si incrociavano ogni venerdì sera; mano mano che i mesi passano e i venerdì si alternano, le loro vite cambiano, prendono direzioni differenti, inaspettate e sorprendenti. Le nostre tre donne devono scontrarsi con la vita che, fuori dalle mura domestiche, continua sagace a cambiare le carte in tavola.
E loro devono crescere, improvvisando la ricetta della propria esistenza.
Questo – e molto altro – è “Manuale di cucina sentimentale”, il primo romanzo di Martina Liverani, giornalista e foodblogger già autrice di “10 ottimi motivi per non cominciare una dieta” (Laurana). Pubblicato da Baldini&Castoldi, il nuovo libro della Liverani è un romanzo piacevole e divertente, un racconto immediato e veritiero (tranne la possibilità di riuscire a trovarsi lo stesso giorno della settimana di qualsiasi mese) della società attuale. L’autrice fa del cibo uno strumento comunicativo: ci si confronta attraverso il cibo, si parla attraverso il cibo e lei stessa parla attraverso il cibo; infatti, usa il cibo – tema tanto inflazionato in questo periodo – per parlare di una generazione, quella dei trentenni, sempre alla ricerca della felicità.
“Manuale di cucina sentimentale. Penso che la cucina abbia molto da insegnare, ed è una specie di metafora della vita- Come si cucina un arrosto o una torta fatta in casa, così si cucina la vita. Fateci caso, le regole della cucina valgono anche per la vita e per i sentimenti”.
“Requiem per D. Chisciotte”: Dennis McShade dalla parte del killer
Giorgia Sbuelz
ROMA – “Requiem per D. Chisciotte” è un romanzo noir del 1967, di Dennis McShade, pseudonimo dell’autore portoghese Dinis Machado, edito per la prima volta in italiano da Voland, che ha come protagonista Peter Maynard, un assassino di professione.
Maynard utilizza una sua personale filosofia per portare a termine gli incarichi: non si accontenta di essere un mero sicario, segue scrupolosamente un personale “codice etico”, se così si può definire, rintracciando le ragioni che si celano dietro ogni richiesta di uccisione, quasi a renderla un atto giusto.
Maynard vuole conoscere sempre “chi” deve uccidere, per questo il compito che gli è stato affidato stavolta gli sembra inammissibile: eliminare il magnate della finanza Big Shelley senza permettersi obiezioni e col divieto di raccogliere qualsiasi tipo di informazione. Il Sindacato del crimine, che lo ha assoldato sotto ricatto, è stato chiaro in merito: nessuna domanda. Ma Maynard, conosciuto anche come il Califfo, non ci sta. Lui, che per raccogliere le idee nei momenti critici legge l’Ulisse di Joyce… come può uccidere un uomo di cui non conosce la storia, e che per giunta porta il nome di un grande poeta inglese? Sa che si metterà nei guai, non si possono contraddire gli ordini del Sindacato, tuttavia non vuole nemmeno sottostare ai diktat dei suoi mandanti. Il Califfo non vuole invischiarsi in alcuna organizzazione, il Califfo non vuole padroni, per questo i suoi nemici sono numerosi e spesso nascosti.
Per alleviare la tensione a cui è sottoposto ascolta musica classica: Cajkovskij, Sibelius, Borodin… trangugia litri di latte per calmare la sua ulcera che si accende come una spia a sottolineare i passaggi della sua esistenza in cui frequentemente si perde, inseguendo le ombre della sua intensa attività cerebrale. Si ritrova sovente a fare a pugni con la propria coscienza, che rimane pur sempre la coscienza di un killer, ma non si presenta mai in disordine all’appuntamento con la sua vittima: sceglie con cura l’abito, si sistema la fondina sotto l’ascella e cambia la cravatta se è il caso.
Un professionista stimato, dunque, ma che spaventa per la sua troppa autonomia. Caricato su un’auto viene picchiato a sangue come avvertimento: non può permettersi di tergiversare indagando sulla vita di Big Shelley, gli ordini sono chiari. Ma chi si nasconde dietro il suo pestaggio? È davvero un monito del Sindacato? Quel che risulta chiaro è che nulla è come appare, anzi, può persino capitare che un assassino incaricato di uccidere un malavitoso, trovandosi faccia a faccia con lui, cominci a discutere di letteratura:
“– Penso che il Don Chisciotte sia la vittoria dello spirito sulla materia. È l’elogio della pazzia – disse.
– E già – risposi. – Ma l’aspetto lirico della pazzia.
– È bello.
– È una delle opere più importanti scritte fino a oggi. Dentro ci sono i nostri mulini a vento, il mio, il suo quelli di tutti.”
Peter Maynard è infatti un chiaro riferimento dell’autore a Pierre Ménard, il protagonista del racconto di Borges, che aveva come ambizione quella di riscrivere il Don Chisciotte nel ventesimo secolo. A Maynard è dedicata un’intera trilogia che comprende La mano destra del diavolo e Mulher e Arma, tutti firmati da Machado come Dennis McShade. Lo pseudonimo era d’obbligo, così come l’ambientazione americana, per sfuggire alla forte censura perpetrata all’epoca in Portogallo. Eppure negli scenari cupi, fatti di bische e gangster incravattati, nelle claustrofobiche strade buie e nei pensieri dello stesso Califfo, è possibile percepire quell’atmosfera… è anche possibile simpatizzare per l’assassino, se l’assassino si presenta come un narcisista sovversivo che difende la propria libertà onorando i “contratti” meticolosamente.
Uno spietato filosofo il nostro Maynard, che abbellisce il cinismo della propria vita con la pura poesia. Machado offre in questo modo delle personali visioni, che diventano la sua suggestione narrativa, brillantemente rappresentata nei dialoghi tra i protagonisti:
“ – Raccontami, Maynard. A che cosa pensi?
Sorrisi con gli occhi chiusi.
– A Ravel.
Lei scosse la testa.
– Sei pazzo, Maynard. Dimmi.
– A Ravel, signorina. Sto riducendo tutto ciò che penso all’espressione più semplice. Ravel ha ragione. Ha fatto il Bolero con un’incessante ripetizione di note, cambia solo il movimento.
– E quindi?
– E quindi è come la vita. – Dissi e aprii gli occhi. – Le note sono sempre le stesse. Solo i movimenti cambiano. Il resto è un problema di orchestrazione.”
“Attimi paralleli”, la vita e la storia che non ti aspetti
Giulia Siena
ROMA – “Ho sempre pensato a lei come ad una pesca, un frutto delicato, facilmente attaccabile in superficie, ma con dentro un nocciolo duro capace di resistere ad ogni avversità. Alex, al contrario, mi era sempre apparso come una noce, con un guscio duro e apparentemente impenetrabile, che se solo intaccato rivelava un’anima morbida e fragile”. La vita è fatta di coincidenze. Per una coincidenza Alex e Loreley si incontrano. Siamo a Roma, in una stazione in cui i binari collegano le vite di molti pendolari. Alex e Loreley sono tra questi. Una sera, come succede spesso, Alex fa tardi in tribunale e deve accontentarsi di prendere il convoglio delle nove. Nel vagone, però, la stanchezza lascia il posto alla sorpresa perché davanti ai suoi occhi si materializza la bellezza. Su quel treno per Ostia lo sguardo di Alex incontra due occhi “custodi di un fascino irresistibile”.
Comincia così “Attimi paralleli. Un libro a due voci”, il romanzo di Antonio Di Giovanni e Carmela Ferrara pubblicato dalle Edizioni Psiconline. In libreria da poco meno di un mese, “Attimi paralleli” è la storia di due esistenze che si incontrano e si raccontano ognuno con la propria voce lungo il percorso che li porta alla consapevolezza di amare.
Loreley è un medico che non si risparmia mai. Ogni giorno in corsia dona tutta se stessa; per il resto ha quasi dimenticato di essere donna. Gli sguardi che attira, la radiosità che emana e la bellezza che si porta addosso sono stati per Loreley solo elementi di sofferenza. Gli uomini attingevano il buono e davano in cambio poco o niente. Ora è stanca. Non vuole più nessuno e non cerca più niente. Ma allora perché subire in questo modo il fascino di quell’uomo sul treno? Perché pensare che l’avvocato dal fascino pretenzioso potesse essere diverso? Perché rimanere così attratta da uno spavaldo dagli occhi di ghiaccio? Loreley se lo chiede anche dopo, anche quando Alex, l’uomo del treno delle nove, non si è presentato all’appuntamento del giorno seguente. Doveva aspettarselo, doveva già sapere che dopo il loro incontro fortuito, la bella chiacchierata sul treno e l’attrazione iniziale, lei sarebbe diventata solo un’altra donna da inserire nella lista di un Don Giovanni qualunque. Ma Alex, così coinvolto da quella bellezza sconosciuta, non tenne fede al suo impegno, non andò all’appuntamento con Loreley. Alex era stato bloccato da un incidente. Una macchina, quella stessa sera, gli portò via le certezze e fece vacillare ogni sua forza. Ci volle qualche settimana per ricominciare a vivere. Nel frattempo, però, Alex non aveva mai smesso di pensare a Loreley. Ma come poteva continuare a piacere a una donna? Come poteva accogliere una nuova passione nel suo abbraccio così lacerato dai bisturi? Il destino, però, li fa incontrare ancora e questa volta confondendo entrambi. Alex dopo l’incidente è un uomo cambiato e Loreley non ha più difesa di fronte a quegli occhi così belli e così veri. Si incontrano, si esplorano, fuggono, si ritrovano, si ascoltano, imparano a conoscersi, ad aspettarsi e a viversi. Il loro è un rapporto fatto di passione e paure, un continuo avvicinarsi e perdersi che porta a un amore completo. Un amore, quello tra i due protagonisti, che sarà messo a dura prova dalle situazioni, un amore che non conosce ritrosie e che si lascia cullare dal destino. Il destino, però, gioca brutti scherzi e Loreley e Alex sono pronti a mettersi in gioco anche grazie all’aiuto di Andrea.
Un racconto incalzante, una tecnica narrativa originale (il libro è diviso in 36 capitoli e lo stesso capitolo viene scritto da due punti di vista differenti) che trascina il lettore nella storia e lo coinvolge fino all’ultima pagina. Il finale, infatti, è qualcosa che non ti aspetti. Un libro scritto per commuovere.
VEDI QUI la video intervista di ChrL e ITVRome ai due autori.
“Scongela l’arrosto” ovvero storie di ordinaria follia familiare
Luigi Scarcelli
PARMA – Una coppia si guarda alle spalle e vede due persone che si vogliono, si rincorrono, si amano, si odiano, si sposano, fanno una figlia. Dopo anni non vedono nessuna somiglianza tra quello che erano e ciò che sono diventati; una distanza quasi siderale spunta tra i primi momenti d’amore e la quotidianità della famiglia di oggi. Un esempio di dramma familiare e di coppia, affrontato nel libro “Scongela l’arrosto” edito da Lupo Editore e scritto da G. Battista Odone, un giovane istruttore di nuoto con la passione (e la stoffa) per la scrittura.
La storia è concentrata in un fine settimana, in cui la protagonista Sara vivrà una delle esperienze familiari più traumatiche e significative della sua vita. In quel fine settimana infatti la ragazza sedicenne sarà spettatrice di una delle peggiori fasi del problematico rapporto tra i due suoi genitori, l’ironico e nostalgico Giulio e Lara, donna tanto bella quanto algida e distante nei rapporti umani. Il racconto scorre tra ricordi romantici e cruda quotidianità, incentrato su un rapporto a tre (padre, madre e figlia) fatto di apparentemente fragili equilibri: Giulio e Lara sembrano due persone completamente diverse, uno emblema dell’emotività, l’altra incarnazione di freddezza e precisione; Sara si divide tra una madre troppo distante e un padre forse troppo amico e confidente con lei.
Il libro si conclude con un finale molto toccante che lascia intendere, ma non svela del tutto, i veri vincoli sentimentali dei personaggi.
L’autore riesce a trasmettere tramite la sua scrittura, in un racconto serrato, la ricca emotività dei personaggi e a descrivere il delicato e complesso mondo della vita di coppia, di una coppia vicina fisicamente ma distante negli animi, una coppia che nel tempo ha visto raffreddarsi la viva passione dei primi momenti, quelli della scoperta e della conquista.
Un libro breve ma molto avvincente, una storia che “prende” pagina dopo pagina e lascia riflettere sui mille volti e i mille equilibri di una apparentemente normale vita familiare.
“Appuntamento al Ritz”: sognare in un grand hotel
ROMA – “Era da un paio di mesi, ormai, che provavo un gran desiderio di cambiamento. Lo sentivo ogni giorno più forte. Ero convinta di aver spremuto la città al massimo. Restavano poche gocce. E speravo che mi bastassero per resistere. Non volevo correre il rischio di morire di sete proprio nella Milano da bere!”
E come in ogni sogno che si rispetti il cambiamento per Hope arriva in maniera improvvisa. Una semplice telefonata mattutina le cambia i piani: da Milano deve volare verso Parigi. Così comincia “Appuntamento al Ritz” il libro di Hélène Battaglia pubblicato da Dalai Editore.
Hope, la protagonista, scrive di moda e il suo sogno è diventare scrittrice; intanto, con in Natale alle porte, Hope deve organizzare le feste in famiglia e organizzare è una cosa che le riesce molto bene. La vita, però, è fatta di sorprese e cambiamenti che non sempre permettono di pianificare con calma le cose. Hope ne è consapevole da quando ha risposto a quella telefonata. Dall’altra parte della cornetta c’è il suo capo. Deve andare a Parigi con il primo volo, lì qualcosa l’aspetta. Ad attenderla ci sono gli Champs-Élysées e il monumentale Hotel Ritz. Un Grand Hotel in piena regola è quello che trova Hope al suo arrivo in città. Lei dovrà “lavorare sotto copertura” e scoprire i retroscena di questo luogo da sogno.
In questo modo, con un “nuovo lavoro” e con Paul, lo steward incontrato sul volo verso la sua nuova vita, Hope ha l’occasione di rimettersi in gioco. Dai piani bassi dell’hotel, quelli riservati al personale, la protagonista del romanzo della Battaglia guarda al lusso in altro modo. Guarda al mondo in altro modo. E questo le dà la spinta per cambiare, per affrontare nuove sfide e timbrare ogni giorno il cartellino del lato segreto del Ritz.
Ironico e sorprendente, sognatore e incalzante, il romanzo di Hélène Battaglia è una favola 2.0.
“Confessioni di un gatto killer”, Tuffy Tuffy…
ROMA – “Okay, okay. Ho ucciso io quell’uccello. Per amor del cielo, sono un gatto. In fondo è il mio lavoro.”
Il gatto in questione è Tuffy, sagace felino dall’animo irriverente che si diverte a impaurire chi lo circonda. Tuffy è il protagonista della felice penna di Anne Fine, autrice di “Confessioni di un gatto killer” il libro illustrato da Andrea Musso e pubblicato dalle Edizioni Sonda.
Tuffy vive in una graziosa casetta insieme alla padroncina Ellie e alla sua famiglia ma, da qualche tempo a questa parte, tutti si rivolgono a lui con un’espressione delusa e con termini quali: “come hai potuto?”, “Perché fai questo?” e continui rimproveri. Ma a Tuffy questo non interessa, lui sa di essere un gatto e sa che Ellie è una personcina ipersensibile: lo difende a spada tratta ma piange per qualsiasi cosa! Non è mica colpa di Tuffy se in una settimana, dopo aver portato in casa un uccellino morto, entra in cucina con Tippete, il coniglio dei vicini. E questa volta non è per un gioco, Tippete è senza vita e quasi irriconoscibile. Cosa sarà successo? Tuffy è così cattivo come sembra?
Anne Fine riesce ad architettare una storia davvero divertente in cui l’astuzia di un gatto esalta gli elementi pedagogici di un racconto fatto di amicizia, affetto e sincerità.
“La mancanza di gusto”, il racconto di una famiglia
ROMA – “Tornerò. Tra un mese o tra un anno, senza una ragione o per un matrimonio, supplicata da mia madre, contrita o contenta di essere qui, per un raduno di famiglia o per un funerale. Tornerò a controllare di chi si tratta. Approderò qui per curare un malessere, una solitudine e mieterne altre. Poserò le valigie, non mi tratterrò a lungo, eh, solo qualche giorno, per ascoltarli, per guardarli vivere. E poi riprenderò il treno, intenerita, irritata o cupa. Un giorno, il mio ultimo giorno qui, sarò confusamente atterrita all’idea di non aver saputo conservare qualche frammento delle loro esistenze per evitare che sfumino, silenziose. Questa casa diventerà il mio paradiso perduto, un po’ nauseante, quello che già sto tessendo. Bello, chimerico e triste. Come quello di un qualsiasi vecchio rimbecillito”.
È la casa del bisnonno, quella che raccoglie quattro generazioni nella settimana di ferragosto. È la casa, un castello, nella quale si cerca rifugio e riposo lontano dalla calura parigina. Ed è tra queste mura sospese nel tempo che Mathilde torna.
Mathilde è la protagonista di “La mancanza di gusto”, il libro di Caroline Lunoir pubblicato da 66thand2nd.
Giovane avvocato parigino, Mathilde arriva nella casa delle vacanze in un caldo giorno di agosto e, ad accoglierla, ci sono i nonni e i prozii, testimonianza fisica di un tempo che è passato e sta finendo. Delle loro vite, così intense di accadimenti, di gioie, dolori e momenti difficili, Mathilde constata che ormai sono ridotte al ricordo. Ma di queste persone, radici del suo albero genealogico, forse non ne ha la stessa forza. Mathilde non è abituata alle sfide dei suoi avi: la guerra è un avvenimento che si completa nei libri di storia, ai suoi occhi – e a quelli della sua generazione – avrebbero dovuto essere tutti partigiani perché a posteriori la vita è semplice, la guerra è semplice. La storia, però, è stata un’altra, la guerra è stata di più di uno scontro armato. La guerra è stata nelle vite di ognuno, nelle scelte e nelle conseguenze. E, a bordo di quella piscina che raccoglie generazioni a confronto, Mathilde pensa alla generosità della vità nei suoi confronti. Lei la storia la guarda dal bordo di una piscina in un castello della Francia, protetta e intrappolata in una famiglia che osserva dalla sdraio un mondo borghese che sta implodendo.
Vedi qui la video intervista all’autrice realizzata con ITvRome
Pensieri e ricordi ne “Il sentiero della libertà”
Silvia Notarangelo
ROMA – Il libro arriva in redazione accompagnato da un biglietto scritto a mano dall’autore. Poche parole per confessare di aver scritto “con il cuore”. Ecco, mi sembra che sia proprio Luca Favaro a indicare la chiave di lettura della sua raccolta di racconti “Il sentiero della libertà” (Emil Editrice). È il cuore a guidarlo in una narrazione sentita, intensa e scorrevole, in cui non mancano spunti per interrogarsi e riflettere sul senso più autentico di tanti, piccoli episodi solo apparentemente insignificanti.
Ricordi, esperienze di vita, ma anche incursioni in realtà soprannaturali con storie e dialoghi che vedono coinvolto niente di meno che Dio in persona. Il tutto arricchito da stimolanti considerazioni sul comportamento e sull’agire dell’uomo, spesso così concentrato su se stesso o così poco incline a misurarsi con il “diverso”, da non accorgersi di tutto ciò che accade intorno a lui.
Le situazioni raccontate sono, talvolta, piuttosto comuni. A chi non è capitato di imbattersi nell’arroganza di una persona convinta di poter comprare con i soldi qualsiasi cosa? O ancora, in una persona così determinata a difendere il proprio status sociale da risultare ridicola e fuori luogo? Dopo un momento di rabbia e di comprensibile indignazione, è la compassione a prendere il sopravvento nell’animo dell’autore. Un sentimento complesso, in cui l’empatia finisce con il prevalere.
È inutile nasconderlo, certi individui con i loro atteggiamenti, con il loro modo di fare, non riescono a suscitare simpatia. Eppure, lo scrittore sembra suggerire che proprio in virtù di tali comportamenti, siano loro i soggetti più deboli, coloro che hanno bisogno di nascondersi dietro alle apparenze illudendosi, così, di essere invincibili.
E allora qual è il senso più profondo, più vero della nostra esistenza? Non è facile dare una risposta. “Quando sei marcio dentro, lo sei in qualunque posto ti trovi e qualunque lavoro tu faccia”. Favaro le sue risposte le ha trovate nella fede. In un Dio che sente vicino, un Dio che lo sollecita a essere felice e che continua, pazientemente, a esortarlo: “Impara ogni giorno a ripartire, pensa a dove hai sbagliato con serenità, ingrana la marcia e via!”.
“Heartland”, continua lotta metropolitana
ROMA – “Suo padre aveva firmato qualche autografo sui volantini con le formazioni o su fogli sparsi, non parlava quasi, non ce n’era bisogno. Aveva fatto il calciatore, Rob lo sapeva, da giovane aveva giocato con i Lupi del Wolverhampton, poi si era infortunato ed era andato a lavorare come tutti i papà. Fino a quel giorno non gli era sembrata una cosa importante.” Ma Rob crescendo impara che le cose importanti ci sono e una di queste è la lotta alla xenofobia; un tunnel nel quale la città di Dudley sembra essere risucchiata. Anche se Rob volesse essere altrove, per esempio con Jasmine, Adnan o Andre, Rob sa che alla partita di calcio tra Cinderheath Fc e la compagine musulmana di Dudley, la sua città, ci deve essere. E’ in questo distretto siderurgico delle West Midland, infatti, che Rob è cresciuto, ha cominciato a giocare ed è diventato insegnante. Ma lui, questa partita non ha voglia di giocarla. Rob è il protagonista di “Heartland”, il romanzo di Anthony Cartwright pubblicato da 66than2nd.
Siamo nel 2002 e l’Inghilterra di Backham sfida l’Argentina di Veron; la sfida calcistica è la metafora della lotta intestina che sta attraversando la provincia britannica. Negli anni, la periferia delle città del Regno Unito sono diventate il centro dell’insofferenza multietnica e in questa partita che divide bianchi e neri della stessa città Rob vuole capirci di più. Schierato nelle fila dei bianchi, il protagonista del romanzo si trova ad affrontare Zubair, il fratello dell’amico scomparso Adnar.
“Heartland” è il romanzo «più manifestamente politico» di Cartwright. Infatti, “quest’urlo narrativo” dello scrittore manovale (data la sua lunga gavetta lavorativa) lo annovera di diritto nella grande famiglia del realismo sociale inglese (in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle) ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.
«Tutti i romanzi, per quanto realistici, sono sempre e comunque opere di fantasia»