“La musica è vita. La vita è musica”.

Michael Dialley
AOSTA – La musica è l’unico elemento, forse, che accompagna l’esistenza di ogni uomo ed è partecipe di ogni tappa fondamentale della crescita di un individuo.
Questa la definizione di musica che emerge nel nuovo romanzo di Franco Leonetti, “Sei note di pentagramma”, per Lettere Animate Editore: 18 racconti indipendenti che raccontano, musicano la vita dei protagonisti attraverso un linguaggio colorato, spumeggiante, vivo, che pare di vedere davvero delle note su di un pentagramma.
Storie quotidiane, storie d’infanzia, situazioni difficili, fatte di disperazione, dolore, ma anche amore e gioia. Questo è l’andamento del romanzo, il cui unico filo conduttore è la musica, che s’intreccia ineluttabilmente alla vita di ogni uomo.
Mano a mano che si viene coinvolti dalle sinfonie, dalle arie, di queste vite viene spontaneo chiedersi se la musica sia un elemento che condisce ed accompagna l’esistenza delle persone, oppure se questa musica non sia anche la vita stessa.
Spesso i racconti lasciano il tema musicale molto ai margini, ma sono storie movimentate e sonore, quasi come se loro stesse fossero dei brani musicali rock, metal; le parole diventano acuti, bassi, batterie, che rendono la lettura quasi un ascolto.
Tanti i riferimenti ai grandi della musica, soprattutto rock, che hanno composto canzoni straordinarie, ma altrettanto unici i testi, le poesie, che venivano cantate; ecco, il romanzo vuole essere questo: parole scritte che si confondono con le note di uno spartito.
Quante volte ci si rifugia nella musica per riflettere, per svuotarsi la mente, per cercare di reagire alle situazioni nelle quali la vita ci spinge inesorabilmente, costantemente e ripetutamente; la vita è fatti di alti e bassi, sempre accompagnati da una colonna sonora, che cambia a seconda dell’età, del periodo, dello stato d’animo.
Si è accennato prima alla vita vista come musica: si pensi al minuetto, un componimento musicale che su di un pentagramma appare come una sequenza di note legate che creano un movimento ondulatorio fatto di alti e bassi; questo schema non può essere quello degli alti e bassi della vita di ogni uomo?

“Svanire è davvero possibile? O è solo un’illusione?”

Michael Dialley
AOSTA – “Svanire” non è solo il titolo della raccolta di Deborah Willis, edita da Del Vecchio editore, ma anche il primo racconto che apre la strada al lettore in un viaggio particolare, molto suggestivo che riguarda lo scomparire, lo svanire, il lasciare.
Sono 14 racconti i cui protagonisti sono i più diversi, sia per età che per cultura e stile di vita, ma tutti accomunati da un’esperienza di distacco: una moglie che scappa, qualcuno che muore, che viene rapito, ma anche chi è stato incapace di capire i figli, chi gli stava intorno, causando un allontanamento forzato.
Si viene incatenati subito alle pagine di questo libro, perché sono esperienze che tutti, chi più chi meno, hanno vissuto totalmente o solo in parte; sono racconti brevi, scritti con semplicità e chiarezza, ma soprattutto con un’intensità straordinaria.
Si impara a conoscere i vari protagonisti, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro abitudini e si capisce come ci si senta dopo essere stati allontanati, dopo essere stati abbandonati o dopo essersi allontanati.
Sono tante le riflessioni che si possono fare dopo ciascun racconto: i genitori si chiederanno sicuramente se il rapporto con i figli è giusto, oppure si identifica con quello di alcuni racconti; un figlio si domanda se ha un atteggiamento giusto verso babbo e mamma, se ha affrontato un divorzio o, peggio ancora, un lutto, nella maniera corretta, con la giusta intensità; i ragazzi che si affacciano, appena ventenni, alla vita, al mondo, fuori dall’ala protettrice della famiglia, si interrogheranno su quali esperienze sono da fare per rendersi conto di come funzioni il mondo, su quali cose è necessario impegnarsi e quali situazioni vanno tralasciate e dimenticate.
Questo romanzo è una sorta di guida, non un saggio; è persino un cortometraggio con spezzoni di varie vite di varie persone. La domanda che viene rivolta a ogni lettore, alla fine, è: si può davvero dimenticare, essere dimenticati, svanire nel nulla, oppure una parte di noi rimane costantemente legata alle persone, ai luoghi, alle situazioni? La risposta sta in ogni uomo, non ci sono risposte giuste o sbagliate, ognuno pensa e agisce a modo suo, e non ci si può nemmeno chiedere perché qualcuno vicino a noi è svanito, o ha cercato di farlo.
Svanire nel nulla non è possibile né fattibile: dovunque andiamo, chiunque conosciamo, ci lascia un qualche cosa così come noi lasciamo tracce, parole, azioni, indelebili nel mondo.

È un “dolce sollievo la scomparsa”, per Sarah Braunstein.

Michael Dialley
AOSTA – Le vite sono delle storie da raccontare, e non fanno eccezione quelle di Paul, Judith, Sam, Hank, Bea, Byron, ma soprattutto quella di Leonora, la bambina che accompagna il lettore in tutto il romanzo di Sarah Braunstein, “Il dolce sollievo della scomparsa” edito da 66thand2nd nel 2012.
Sono storie che non risultano mai banali, tutte hanno un qualcosa di nascosto che cattura il lettore, sono particolari, difficili spesso. Vite di amore, rinunce, passioni sfrenate, sincerità, ma anche menzogne; e i protagonisti sono soprattutto bambini, con la loro innocenza ma anche con il loro non sapersi sottrarre alle pulsioni, alle passioni e con la voglia di libertà. I personaggi si raccontano, sono apparentemente estranei e lontani, ma poi nella narrazione alcuni si incrociano e, in età adulta, si troveranno a ricordare, rivivere momenti dell’infanzia, e a volte arriveranno a riscattare ciò che in passato non hanno potuto vivere, offrendoci spunti di riflessione e importanti lezioni di vita.
Leonora è il centro, ma al contempo periferia, di tutto il romanzo e ci fa imparare una cosa molto importante: le persone non sempre sono come sembrano e nelle situazioni estreme emergono forza, capacità, determinazione e, soprattutto, forza di volontà. È questo un insegnamento che lei ha ricevuto, a sua volta, dal babbo, e che si troverà a mettere in pratica negli ultimi istanti della sua vita: soffre, Leonora, nella stanza dove la tengono segregata, con il gattino che farà la sua stessa fine, ma a un certo punto ricorda le parole del padre – “Tieni duro!” – e poi riconosce un grande albero che ha visto ogni giorno per molto tempo: tutto questo le darà la forza di affrontare il suo destino; e lo farà totalmente sollevata.
I bambini sono innocenti, ma proprio per questa loro spensieratezza sono costantemente attratti dal male; il maligno è una calamita che attrae facendo leva sulla voglia di libertà e sull’elemento ribelle che c’è in ogni uomo. Scappare diventa una liberazione, così come lo è l’essere lontano da ogni legame; essere in un mondo di sconosciuti, essere totalmente svincolati da tutto e tutti dà, effettivamente, un dolce sollievo. Quante volte vorremmo scappare da tutto e tutti e stare con noi stessi? Spesso.
I bambini e i futuri adulti di questa storia hanno potuto provare questo distacco: chi volontariamente, chi involontariamente. Ma per tutti è stata, senza dubbio, un’esperienza fondante.

La crisi del realismo e le angosce degli artisti del Novecento.

Michael Dialley
AOSTA – “L’arte moderna non è nata per via evolutiva dell’arte dell’Ottocento; al contrario è nata da una rottura dei valori ottocenteschi”: così si apre il saggio “Le avanguardie artistiche del Novecento”, proposto da Mario De Micheli e edito da Feltrinelli. Un manuale che aiuta il lettore a scoprire i motivi che hanno portato l’arte del Novecento a diventare così avanguardista e diversa dall’arte classica, tanto estetica e perfetta. È interessante vedere proprio come sia nata la rottura, partendo dai solidi princìpi su cui si basava l’arte realista del XIX secolo: la cornice è Parigi e a livello storico si fa riferimento a tutte le rivolte e i fermenti, politici ma anche culturali, che animano le persone; si sente quanto la concezione forte di popolo che dominava gli animi del tempo si riflettesse nelle arti e nella letteratura. Un sentimento di unità che portò gli artisti a esprimere il loro attaccamento alla condizione dell’uomo, che diventò assolutamente centrale nella realtà nella quale vive. Sentimento, questo, che portò, però, a un profonda crisi del modello e che trovò sfogo nel 1848, ma ancora di più nel 1871 dopo i tragici eventi della Comune di Parigi, che segnarono rotture con il passato e grandi rivoluzioni e cambiamenti in Francia e in tutti gli altri paesi europei.
De Micheli racconta in maniera molto chiara e precisa, con numerose citazioni, l’emblematica e profonda crisi di Van Gogh: il suo animo è lacerato dalla perdita di tutte le sue concezioni, è dilaniato dal dolore per la caduta del realismo, su cui lui ha basato tutta la sua visione del mondo. Ma nonostante la consapevolezza che tutto è perduto, l’artista afferma che “al posto di cercar di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo dei colori arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte”. E ancora è riportato un commento a un articolo su di lui: “L’articolo di d’Aurier mi incoraggerebbe, se io osassi lasciarmi andare, a rischiare un’evasione della realtà e a fare con il colore come una musica di toni… Ma essa mi è così cara, la verità, il cercare di fare il vero, che infine io credo di preferire il mestiere di calzolaio a quello di musicista dei colori”.
Da qui, con il Novecento, si approda ad un’altra arte, ad una nuova visione del mondo che si propone come evasione dalla tanto cercata e bramata realtà ottocentesca. Le avanguardie, ecco la soluzione: ritornare alla realtà, sì, ma allo stesso tempo evadendola, cercando non una visione chiara e limpida, bensì scavando la verità andando a toccare la sua essenza più profonda. Tanti i movimenti dei primi anni del XX secolo, espressionismo e dadaismo, ad esempio, ma che non ebbero quella forza e quell’unità che servono per affermarsi davvero; forza, invece, che ha avuto il surrealismo: una forza interna sosprendente, che ha saputo unificare gli ideali e le esigenze di molti artisti che si possono tradurre con alcune parole chiave, trasformare il mondo (Marx), cambiare vita (Rimbaud), bisogna sognare (Lenin) e bisogna agire (Goethe); il tutto, in ogni caso, volto alla liberta individuale e alla libertà sociale, cercando sempre di unire sogno e realtà, razionalità e irrazionalità. Non solo bisogno di libertà e unione, ma anche necessità di una maggiore scientificità rispetto a quanto non avesse fatto l’arte impressionista: e questo è ciò che sostengono i cubisti, i quali, afferma De Micheli, “rimproveravano ai pittori dell’impressionismo di essere solo retina e niente cervello”. Ogni movimento raggiunge consapevolezze e risultati ben diversi, ma con una radice comune: ognuno è nato dalla profonda crisi, dalla spaccatura che si è creata a Parigi, verso la metà dell’Ottocento, che ha portato alla perdita del sentimento di unione, di popolo, su cui si basava la società.
Un manuale, questo di De Micheli, che permette di conoscere un po’ di più l’origine dell’arte moderna, tanto criticata, ma altrettanto amata; a volte difficile da capire, ma un’arte che ha dentro di sé tanto da dire, tanto da raccontare.

“Fuga dal paradiso”: come Katrina ha riunito una famiglia

Michael Dialley
AOSTA – Diana Abu-Jaber presenta una nuovo romanzo, edito da Nutrimenti, dal titolo “Fuga dal paradiso”, che ci porta a Miami nel periodo dell’arrivo di Katrina, l’uragano che nel 2005 ha causato la morte di 1833 persone. Storia di una famiglia apparentemente normale: Avis, donna che ha trasformato la cucina di casa in una pasticceria, il marito Brian, avvocato, e i due figli, Felice e Stanley. Tuttavia, una famiglia che risente molto della fuga di Felice, bellissima adolescente, che tutti paragonano a Elizabeth Taylor, ma che a un certo punto sente di non essere amata e capita e decide di scappare, a tredici anni, e di vivere in spiaggia, facendo da modella per tatuaggi.
Avis risente più di tutti di questa assenza: ricorda spesso la sua, di madre, così intenta a leggere e studiare tanti scrittori e intellettuali – tra cui Dante, Hegel e Voltaire – da lasciare costantemente la figlia senza nulla da mangiare; tanto che, per questo, Avis inizia ad accostarsi alla cucina, e in particolare alla pasticceria, come reazione opposta a questo trattamento materno nella sua infanzia.
Un dramma si consuma quindi all’interno di questa madre che, unito al dolore anche del marito e del figlio, porta la famiglia ad un graduale sgretolamento, a un lento ma inesorabile allontanamento; seppur nella drammaticità e nella catastrofica forza, l’uragano Katrina riesce, alla fine, a riavvicinare queste persone, ormai quasi sconosciute le une alle altre, facendo riemergere l’amore familiare perduto cinque anni prima.
L’autrice utilizza questo contesto perché lei era proprio a Miami quando l’uragano è arrivato ed si è sorpresa di quanto questi eventi tragici siano in grado di riavvicinare persone e porre rimedio a situazioni apparentemente irreparabili: e questo lo sappiamo anche noi, lo sanno anche tutti gli italiani che hanno vissuto gli ultimi catastrofici terremoti, le alluvioni dello scorso anno che hanno distrutto luoghi stupendi, oltre che le case di tantissime persone.
E colpisce questa grande contraddizione espressa anche nel romanzo: le famiglie e le persone sono più interessate al successo, alla carriera, ai soldi, a tutto ciò che porta al giovamento fisico ed all’affermazione nella scala sociale, perdendo però di vista i veri valori, quelli che permettevano fino a qualche decennio fa di mantenere la famiglia unita e piena di amore ed affetto, ma che poi durante avvenimenti tragici, catastrofici, permeati di dolore, paura e morte si riscoprono, quasi a voler chiedere perdono di anni di sofferenze, quasi a chiedere un’ultima assoluzione nell’eventualità più buia.
Nell’individuo, questo aspetto è una costante: non si comprende davvero fino in fondo ciò che si ha fino a quando non si è sul punto di perdere tutto.

“Ascoltare, capire, emozionarsi, sentirsi infiniti e parte del tutto: questo è Charlie”

Michael Dialley
AOSTA –
“Caro amico, ho deciso di scriverti perché ho sentito dire che sei uno che ascolta e che capisce […] OK questa è la mia vita. E desidero che tu sappia che sono felice e triste al tempo stesso, e che sto cercando di capire come ciò sia possibile”. Così inizia il romanzo di formazione “Ragazzo da parete” edito da Frassinelli nel 2006, che Stephen Chbosky propone sottoforma di raccolta epistolare e che tra pochi mesi uscirà nelle sale cinematografiche italiane, con il titolo di “Noi siamo infinito”.
Tante lettere destinate ad un “caro amico”, scritte da Charlie, un ragazzo appena entrato al liceo, un ragazzo che inizia a conoscere la vita dei grandi, confrontandosi con l’amore, i problemi adolescenziali, i sentimenti e le emozioni, nei tempi dei primi anni ’90. Colpisce fin dalla prima pagina la storia di questo ragazzo, perché forse tutti, almeno una volta, ci siamo sentiti “ragazzi da parete”, anche se lui lo è stato per gran parte del primo anno di liceo. È il confidente perfetto: ricorda tutto ciò che vede e gli viene raccontato, soffre con gli altri, non per gli altri; gioisce con gli altri, non per gli altri. Scopre il suicidio di un amico che lo sconvolge, ma cerca di capirne i motivi; scopre la violenza di un ragazzo verso la sorella, ma mantiene questo segreto per molto tempo e non tradisce le persone cui vuole bene, siano segreti belli o brutti; scopre il sesso, eterosessuale, grazie a un ragazzo della scuola, poi grazie a sua sorella; conosce la realtà omosessuale, che accetta, anzi si dimostra molto comprensivo ed emotivo.
Il romanzo procede piano piano, lettera dopo lettera, confessione dopo confessione e ci fa conoscere questo ragazzo, che non riesce ad essere “presente” nella vita. Il professore d’inglese e la ragazza di cui Charlie è innamorato sono le uniche due persone che riescono a capire questo adolescente: Bill, il professore, lo sprona a diventare protagonista della propria vita e della vita sociale e gli affida compiti extra che consistono nella lettura di libri. “Sulla strada” di Kerouac, “Di qua dal paradiso” di Fitzgerald, “Il buio oltre la siepe” di Lee, “Amleto” di Shakespeare, “Il giovane Holden” di Salinger, “La fonte meravigliosa” di Ayn dovrebbero aiutarlo a rendersi conto di quanto sia intelligente e speciale; peccato, però, che Charlie non se ne renda conto. Accetta passivamente questi lavori, assimila altrettanto passivamente gli insegnamenti di questi libri senza ragionarci e rifletterci, come vorrebbe il professore. Sam, invece, la ragazza che Charlie ama, che gli dice di non pensare a lei come ragazza da poter amare, e che alla fine dell’anno scolastico rivela a Charlie il significato di quella frase: non era un rifiuto, bensì voleva essere un aiuto a vivere la propria vita, ad agire per assecondare quell’istinto, a fare ciò che crede sia giusto senza pensare a cosa vogliono le persone intorno a lui. Solamente nelle ultime due lettere, però, il lettore comprende quale grande macigno sia dentro Charlie: le molestie sessuali di una zia defunta. Ecco che cosa blocca Charlie nei rapporti con le ragazze, ecco il suo amore verso la zia morta che non era un amore di nipote verso la zia, ma un amore disturbato, distorto e, forse, imposto. Da qui Charlie ricomincerà la sua nuova vita: il romanzo, infatti, si chiude con il suo primo giorno del secondo anno di liceo. Questa volta, però, Charlie non ha più paura di affrontarlo, anzi: a testa alta si appresta a questa nuova avventura, circondato dalle persone che ama e che lo fanno sentire amato.
Oggi ci sono i social network che rendono i ragazzi più aperti; riescono, nascondendosi dietro a un profilo virtuale, a dire ciò che sentono, ciò che vedono, attraverso link, chat, tweet. Fino a qualche anno fa era diverso, tutto era più personale, solitario, ma sicuramente era vissuto in maniera più forte e sconvolgente e si capiva, si cresceva consapevoli di cosa fosse la vita vera.

Quando l’arte è espressione dei bisogni della società

Michael Dialley
AOSTA – Ci sono tantissimi stili e movimenti artistici nella storia dell’arte. Si è sempre incasellato tutto in rigidi schemi, non chiedendosi, però, se sia davvero giusto definire un’opera d’arte, un artista, a seconda delle somiglianze e dei contributi di un movimento culturale. Può valere, questo, per alcuni artisti, soprattutto se molto legati a circoli culturali; ma per alcuni non si può fare, basti pensare a Rubens, a Caravaggio, a Mirò. E anche ad Alberto Giacometti. Originario della Svizzera italiana, nato nel 1901, Giacometti ha una concezione dell’arte che deriva solamente dalla sua visione del mondo, da come concepisce la realtà nella quale vive.
Ives Bonnefoy ci fa conoscere l’uomo-artista Giacometti grazie al saggio “Alberto Giacometti”, edito da Abscondita nel 2004, nel quale si può toccare con mano quanto la produzione artistica dell’artista sia profondamente legata ed influenzata dalla sua visione del mondo.
Si ripercorre tutta la vita dell’artista svizzero, toccando gli episodi della sua quotidianità, dai primi studi all’Accademia di Ginevra, all’adesione al gruppo surrealista della Parigi degli anni ’20, arrivando poi alla sua produzione matura, quando raggiunge una maggiore consapevolezza di sé stesso e della propria arte.
Quello che emerge è il ritratto di un artista profondamente angosciato, che si preoccupa di voler concretare la presenza, la vita in quanto essenza, che abita il corpo umano; argomento, questo, che attirerà nel suo piccolo atelier parigino molti intellettuali e letterati, tra i quali Sartre, non a caso il più grande esponente dell’esistenzialismo.
A Giacometti non interessa la figura da un punto di vista estetico, della forma, bensì vuole dare alle sue sculture la vita che alberga in ogni uomo. Per raggiungere questo obiettivo inizia rappresentando dal vero le figure che incontra; a un certo punto, però, le immagini gli appaiono distorte e utilizza la memoria, ricorda ciò che ha visto nella sua infanzia, nella sua adolescenza, avvicinandosi, così, alla componente più irrazionale e istintiva propria del circolo surrealista. Questo non è che una tappa, che porta l’artista a realizzare l’inafferrabilità della sua arte.
Ecco che inizia il suo grande lavoro, interiore ed artistico, di comprensione della vita, della condizione umana, della componente esistenziale: osserva il viso, lo sguardo delle persone, l’unico elemento che meglio di tutti coglie l’interiorità, l’intimità più profonda di ogni uomo. E, una volta trovato il punto focale, l’uomo cammina, procede, avanza, ma verso che cosa? Questo Giacometti non lo esprime, lui semplicemente vede l’uomo che va sempre oltre, che cerca sempre qualcosa, che nonostante le due grandi Guerre mondiali è riuscito ad andare avanti, a rialzarsi.
Questo ciò che ci racconta Bonnefoy e che raccontano, in maniera straordinaria, anche i due racconti scritti da Giacometti stesso, che sono riportati in appendice al saggio, “Il sogno, lo Sphinx e la morte di T.” e “Lettera a Pierre Matisse”.
Un artista da conoscere, che ci comunica qualcosa, che ci pone delle domande grazie alle sue opere, ma che non ci dà risposte, ma che anzi, invita ognuno di noi a giungere alle proprie conclusioni, in quanto crede che ognuno, dentro di sé, abbia le risposte o le potenzialità per trovarle.

Hans Adam von dzu Liechtenstein e i suoi privati tesori.

Michael Dialley
AOSTA – “I Tesori del Principe” si propone come un viaggio nella più grande collezione privata di opere d’arte presente al mondo, l’ultima appartenente ad una casata asburgica.
Le 80 opere sono una minima parte rispetto alle 1500 che compongono questo patrimonio artistico della casata dei Principi del Liechtenstein: la famiglia ha sempre avuto la passione per l’arte classica, tant’è che la collezione nasce nei primi anni del 1600 e prosegue ancora oggi, sempre seguendo lo stesso filone artistico, in quanto l’arte moderna è immagine di un secolo buio, come afferma Hans Adam von dzu Liechtenstein.
Edito da Forte di Bard e curato da Johann Kraftner e Gabriele Accornero, il catalogo, dell’omonima mostra, si propone come un importante strumento per chi ama e studia l’arte, corredato di immagini grandi, nonché di testi introduttivi, didascalie che raccontano i soggetti e danno le informazioni necessarie per un’infarinatura generale sull’autore. 7 sezioni che fanno scoprire i più grandi maestri olandesi, fiamminghi ed italiani che hanno profondamente segnato la storia dell’arte dal XV al XVIII secolo: da Lukas Cranach Il Vecchio ad artisti del calibro di Hayez.
Un viaggio tra opere a carattere religioso, come il “Compianto di Cristo” di Rubens, scene mitologiche, come il “Ratto di Europa” di Van Balen piuttosto che “Apollo e Diana uccidono Pitone” di Francheschini, ma anche ritratti, di artisti come Van Dyck e Hals, fino ad arrivare a pezzi molto particolari come il “Cabinet” di Baumgartner, un mobile con piccoli cassetti interamente decorato con pietre preziose e marmo toscano.
Un insieme di opere ricche di cromatismo, movimento, emotività tipiche dell’arte e dei dipinti di un secolo controverso, ma fortunatamente molto rivalutato negli ultimi anni: il Barocco.
Un viaggio suggestivo nelle sale che erano le cannoniere dell’opera Carlo Alberto del Forte di Bard, in Valle d’Aosta, e che adesso può essere intrapreso anche attraverso il catalogo di questa mostra.