Stefano Billi
ROMA – Cadono i governi, le crisi economiche vengono e vanno, ma il problema della pena e della detenzione è una tematica che, ciclicamente, viene all’attenzione della società tutta. Perché il male esiste, e tanto più esiste la possibilità di commettere errori, magari anche gravi. L’umanità ha conosciuto tanti modi di affrontare quelle situazioni in cui un consociato decideva di allontanarsi dal rispetto dei valori sociali per commettere azioni illecite. Nelle notti più buie della storia sono state erette forche e ghigliottine, nel nome di un ignobile contrappasso che non ha mai tenuto conto della dignità della persona – anche laddove commetta comportamenti turpi – e che, inevitabilmente, non ha mai risolto seriamente la “questione criminale”. Però da un po’ di tempo – secoli oramai – la maggior parte dei cittadini crede di dormire sonni tranquilli, perché grazie alle carceri i personaggi più pericolosi della società sono ben allontanati da qualsivoglia contesto civile. Insomma, “chi sbaglia deve pagare” – così come piace dire ad una certa borghesia – e tanto meglio se i criminali vengano rinchiusi lontano dal mondo. Questa logica, dove il recupero del detenuto è del tutto assente (in barba anche al dettato costituzionale!), deve essere combattuta, in una società che voglia dirsi rispettosa dei diritti umani e delle intime spettanze dell’individuo. E l’opera lungimirante di Marco Rizzonato “L’incontro tra la persona disabile e il detenuto” – Armando Editore – racconta di un’avventura riabilitativa che ha dell’incredibile. Infatti, il libro di Rizzonato offre numerosi spunti di riflessione su come il tempo che i detenuti debbano “scontare” in un penitenziario possa essere investito in maniera utile e formativa.
Al di là di utopistiche aspettative, Rizzonato regala ai lettori il resoconto di un’esperienza concreta avvenuta tra detenuti e disabili, che partita dalla casa circondariale di Torino ha poi toccato anche altri istituti di pena italiani. Cosa possono offrire le persone disabili ai carcerati? E, a loro volta, cosa possono offrire i carcerati alle persone affette da disabilità? In entrambi i casi non si tratta di una semplice esperienza di volontariato, ma piuttosto di un progetto che vuole trasformare due categorie di individui esclusi dalla società in uomini nuovi, dove sia riacquistata a pieno la consapevolezza dei valori sociali e l’importanza dell’altro. In fin dei conti, non serve a nulla scartare un uomo, renderlo un reietto, e poi ributtarlo nella società senza alcun investimento sulla sua personalità. Piuttosto, è l’impegno costante,la fiducia che gli altri ripongono in chi è scartato, che fanno di quest’ultimo un homo novus.
Attraverso il progetto descritto da Rizzonato, i disabili hanno potuto sperimentare cosa significhi essere d’aiuto al prossimo (ad esempio, insegnando ai reclusi il L.I.S. – linguaggio internazionale dei segni – e il Braille, ovvero l’alfabeto per i non vedenti). Dal canto loro, i carcerati hanno provato cosa significhi entrare in contatto con la purezza e il candore di cui i disabili sono portatori, e sopratutto quanto sia importante ricevere fiducia dagli altri. E così quelli che per tutti erano scarti, quelli che non rappresentavano nulla se non emarginazione, posso divenire o tornare ad essere “testate d’angolo”, come recita il Salmo 118 della Bibbia.
Pietre angolari per una nuova società, capace di reinserire gli esclusi e di vantare una profonda sensibilità verso l’individuo, e verso una seria rieducazione.