Giulio Gasperini
AOSTA – La poesia ha un ruolo civile e sociale che le appartiene nel profondo. La cultura è politica, perché si occupa anche del “bene comune” e della società, della sua costituzione e anche della sua formazione. Le poesie di Arben Dedja, contenute nella raccolta “La manutenzione delle maschere” (Kolibris edizioni), rispondono a queste esigenze profonde. La poesia fiorisce da un’interiorizzazione e da una prospettiva di soggettività, che però si carica di un valore di testimonianza, di confessione e persino di resistenza di fronte alla tragicità di un mondo dove fingere pare diventata la legge fondante. Le maschere di Dedja sono tutti i travestimenti che le persone continuano a indossare, per svariate ragioni; e le stesse maschere hanno comunque bisogno, periodicamente, di una messa a punto, di un’aggiustatina: per non finire per apparire palesemente maschere, ma per continuare a illudere che la società sia effettivamente quella caricatura che invece si intuisce. Il poeta, in tutta questa situazione, è l’elemento “eversivo”, il disturbo, la pietra dello scandalo che fa aprire gli occhi e osservare con beffardo distacco e malcelato scontento: “Mentre il cittadino R. s’incamminava verso il patibolo / con un bianco foulard intorno alla testa / legato sotto il mento come / le nonne di Tirana” (“Maximilien Robenspierre”).
La poesia di Arben Dedja affonda le sue radici in un atteggiamento ironico e caustico, che prende come primo riferimento la quotidianità (nella società). Ma una quotidianità tutt’altro che scontata, banale; è quotidianità che ferisce, che fa male, che declina la violenza più subdola e ambigua: quella, ovvero, degli oggetti, delle situazioni che dovrebbero farti sentire al sicuro e al riparo e che invece infieriscono e imperversano feroci: “Lo trovarono nel bagno tutto muffa / in quel 25 aprile 1911 / suicida in una specie di harakiri con il rasoio da barba / […] / perché proprio così vince la quotidiana banalità del radersi” (“Emilio Salgari”).
La quotidianità spesso è anche l’arma che scardina e demolisce la storia (particolarmente, quella albanese, come nel brevissimo racconto “Aquila bicipite”) e i suoi miti, in una grottesca presentazione della politica e dei suoi meccanismi deliranti di onnipotenza: “”Quando nel mezzo / di una lunga frase fece una pausa / e respirò profondamente si sentì / il tic-tac / dei tagliaunghie (invenzione cinese)” (“Il disorso del Leader”).
La lingua di Dedja è affilata, come la lama del bisturi che utilizza per la sua professione di chirurgo. È una lingua di cui lui si è appropriato venendo da un’altra lingua materna (“Ma non ci capivamo bene: lui nel suo dialetto / io con la mia lingua letteraria” in “Ispezione chirurhica”). E attraverso questo veicolo, che si dimostra qui più che altrove potente, Dedja costruisce una poesia che sa disaminare e analizzare, scomporre e anatomizzare un’individualità e una società che altrimenti parrebbere semplici errori di funzionamento (“Nuda sopra il tavolo della cucina / freddo il sesso / senza peluria sotto le ascelle. / I seni appena sbocciati / non grossi come quelli della nonna” in “Autopsia di una bambola”): perché sul freddo tavolo del chirurgo ciascun essere umano è uguale all’altro.
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