Marianna Abbate
ROMA – Come avrete capito dalla mia entusiasta recensione, che potete leggere qui, Antonio Di Costanzo è un tipo simpatico. E, nonostante le nostre divergenze filologiche sulla questione del qual (che lui vede come un troncamento, mentre io sostengo essere un’elisione) l’intervista che segue vi dimostrerà quanto accennato in precedenza. Tra orari di lavoro impossibili e impegni imprescindibili, ha trovato il tempo per raccontare ai lettori di Chronicalibri un po di sé.
Da giornalista a scrittore, o da scrittore a giornalista: qual è il mestiere che ti senti cucito addosso?
“Entrambi. Dipende dai giorni e, soprattutto, dall’umore. Ma forse la mia è solo un’illusione”.
Scrivere: quali sono i sacrifici e le soddisfazioni di questo mestiere?
“Chi fa il giornalista sacrifica famiglia e amicizie. Lavora il primo dell’anno, il 26 dicembre, alla Befana e a Pasquetta. Ha orari folli e una vita poco regolare. Ma tutto questo forse, a pensarci bene, non è un sacrificio è una scelta. Scrivere libri, invece, per me sono brevi momenti di follia che si accendono e spengono a intermittenza”.
Perché scrivere un giallo? In cosa si differenzia il tuo libro dai gialli classici?
“Ho scritto romanzi perché quando ho deciso di farlo mi sembrava un’idea intelligente. Il tempo mi dirà se avevo torto o ragione. Il mio dovrebbe essere un giallo-comico, ma sono contrario alle etichette. Posso dire che è incentrato sul protagonista, un uomo scorretto, un cronista beone pieno di difetti e socialmente sconveniente. Jacopo è la tipica persona che una ragazza non potrebbe mai portare a casa per presentarlo come fidanzato ai propri genitori. Dicono che è molto divertente”.
Quanto di te c’è in Jacopo Fernandez, il protagonista dei tuoi romanzi? Cosa ti accomuna a lui, quanto vorresti ti accomunasse e cosa odi di lui?
“Bho, posso dire solo che i miei non sono libri autobiografici. Quando però invento un personaggio saccheggio nella mia vita, in quella di amici e parenti e di tutti quelli che ho incontrato. Adoro Jacopo Fernandez, è quello che vorrei essere anche se so che non accadrà mai”.
Cosa significa essere un giornalista eroe? E’ un valore che si raggiunge per merito o un’etichetta mediatica?
“Ah dovresti chiederlo ai giornalisti eroi, non di certo a me. Comunque posso dire che questa è la tipica etichetta che qualcuno appiccica addosso a certi cronisti che magari hanno sacrificato la propria vita soltanto facendo il proprio lavoro. Gli stessi cronisti che quando erano sconosciuti, magari erano vessati, tenuti a distanza e infangati da chi poi li esalta per specularci sopra”.
Esistono ancora giornalisti eroi? Potresti citare qualche esempio?
“No non ho esempi da fare, anche perché il termine eroe non mi piace e secondo me non è corretto. Ci sono cronisti bravi e meno bravi. Gli eroi lasciamoli stare, anche perché storicamente fanno una brutta fine”.
Che cos’è l’ispirazione?
“Non ne ho idea. Io mi metto al computer e scrivo romanzi quando non riesco a prendere sonno la notte. Forse l’ispirazione si chiama insonnia”.
Chronicalibri si occupa di mostrare il volto della piccola e media editoria italiana: com’è il tuo rapporto con Cento Autori?
“Ecco. Ripensandoci, un uomo che si avvicina al prototipo dell’eroe l’ho conosciuto: si chiama Pietro Valente ed è il fondatore della mia casa editrice: Centoautori. Di professione fa il farmacista, ma quello che guadagna l’investe nella casa editrice per diffondere la cultura a Napoli e provincia. Ha avuto anche il coraggio di pubblicare libri scomodi come il Casalese e lo fa soltanto per spirito di servizio e per migliorare la sua terra, rimettendoci tempo e soldi. E poi è una persona corretta. Mandai il primo libro in casa editrice, mi contattarono dopo qualche mese e mi offrirono un contratto per pubblicarlo. Senza tante chiacchiere e false promesse. Una vera rarità”.
Che consiglio potresti dare a chi vorrebbe approcciarsi alla scrittura? Cosa deve fare un aspirante scrittore?
“Non ascoltare i consigli degli altri aspiranti scrittori. Sono ideologicamente contrario a dare consigli”.