La natura enigmatica e l’insondabile uomo.

Giulio Gasperini
ROMA – Più enigmatico di Bashō e, in un certo senso, più metafisico fu Buson. Nelle sue “Poesie” (Acquaviva, 2004) gli eventi naturali, gli scorci e gli spaccati di spontaneità colta, non sono così chiari, non son soggetti a una facile lettura. Ogni volta paiono caricarsi di valori altri, più oscuri e profondi di quanto non potrebbero accidentalmente parere: “La tenebra è così fonda / che si può persino sentire la neve / sfaldarsi”. In questa cornice, l’uomo diventa anch’esso più enigmatico e problematico, mai chiaro né semplice da risolvere e la natura finisce per diventare un mero espediente, privandosi della sua carica propulsiva: “Mi diverto a dipingere / un ventaglio da niente / con la linfa dell’erba”. Ma la natura sa essere anche protagonista, in un doppio ruolo che in Buson si fa addirittura stridente, per l’ampio potere di cui è dotata; la natura, infatti, sa anche nobilitare e soggiogare coi suoi incantesimi irresistibili: “Che luna meravigliosa, / il ladro si ferma / e canta”. È una natura che sa tracimare, che sa invadere tutti gli ambiti dell’uomo, regalando la sua magia dovunque, comunque, a chiunque: “Le rondini, / sotto le grondaie dei castelli, / sotto i tetti dei tuguri”. Sa persino la natura, in qualche caso, costituirsi panteismo inscindibile: “Pioggia d’autunno, / anche l’anima dell’uomo / se ne diventa una goccia d’acqua”.
Buson fu pittore eccellente e la continua e multipla sollecitazione sensoriale si fa evidente nei suoi haiku, che si materializzano come leste pennellate di colore, di corposa tinta: “Cadono i fiori di ciliegio / sulle acque delle risaie, / stelle in una notte senza luna”. Gli attimi si cristallizzano con una potenza sensoriale che forse mai prima di lui in queste schegge di componimenti era stata raggiunta: “Vento di primavera, / gli alberi di pesco / fremono di gemme”. Qualche astrattismo (“Il pesco d’inverno, / sembra uno spettro / arrabbiato”) e surrealismo (“Vorrei avere in mano / una farfalla, / come in un sogno”) poetico e pittorico anima la sua visione della natura e del mondo, in un connubio artistico che in lui manifesta pienamente i possibili punti di tangenza. Il viaggio anche per Buson è una condizione d’esistenza imprescindibile, irrinunciabile, che si può caricare di valenze complesse, fin anche opposte: “Guardo il fiume d’estate, / con i sandali in mano / son felice”.
Più dolente la poesie di Buson, più consapevolezza del tempo che passa e che passando priva l’uomo di opportunità, confinandolo nelle effimere consolazioni della memoria e del ricordo: “Ieri è già andato / oggi se ne va, / s’incammina via pure la primavera”. Più dolente la nota della solitudine, che si connota di riflessi quasi amari, come di un abbandono che non sia ricercato ma imposto, soprattutto quando si ricordano i vecchi affetti trascorsi: “Nella mia camera / calpesto il pettine che fu una volta / di mia moglie, un morso affonda nella mia carne”. E mentre l’attesa si fa vana, il rimpianto può avvelenare l’animo: “Sento lontano i rumori dei passi / sulle foglie morte / di chi sto aspettando”.

Ascoltate quel che le vagine dicono!

Giulio Gasperini

AOSTA – Anche se si frequentan poco, o per nulla, bisognerebbe sempre conoscere quel che dicono le vagine. In definitiva, perché tutti veniamo da costì, da quell’antro da sibilla. E perché, inoltre, le vagine son una cosa seria, che ha a che vedere con la femminilità, l’integrità della donna: un mondo, in definitiva, potente e saturo di significato; sia per le donna ma anche per gli uomini. E perché, ancora, la violazione della vagina è uno dei crimini più atroci e terrificanti, in una sopraffazione dove non c’è amore, ma solo violenza: e una violenza non è mai giustificabile. Né, a mio parere, perdonabile. Eve Ensler cominciò a raccontare questi “Monologhi della vagina” sul palcoscenico di un minuscolo teatro di New York: era il 1996 e a quei tempi parlare di vagine e di donne alle prese con il loro sesso non era certamente usuale, né facile. La Ensler aveva scritto questa pièce teatrale basandosi su alcune interviste rilasciate da donne di ogni età, di ogni etnia, di vissuti estremamente diversi e distanti. Sono donne che si scoprono, per la prima volta, magari in tarda età; sono donne che parlano della loro esperienza di violazione, delle loro pretese mai soddisfatte, del loro desiderio di essere felici senza rinunciare alla loro femminilità più pura, più istintiva. Sono donne che osano pronunciare la parola, “vagina”: perché è la parola che dà carne, che crea materialità, “è la parola che ci spinge avanti e ci rende libere”.
Eve Ensler ha dimostrato l’importanza e la potenza dell’arte: dai primi “Monologhi della vagina” si è sviluppato un movimento mondiale, il V-Day, che ogni anno viene celebrato in ogni angolo di mondo, anche in quei lembi di terra che son considerati più arretrati: proprio lì dove, in effetti, ci sarebbe più bisogno di ascoltarle, le vagine, e di seguire il loro volere. “L’arte ha reso l’attivismo più creativo e audace, l’attivismo ha reso l’arte più mirata, più concreta, più pericolosa” ha scritto Eve Ensler. L’arte si è dimostrata in grado di poter svolgere un ruolo da protagonista in campo sociale; ha il potere di cambiare la cultura, perché è la cultura che deve cambiare, “le credenze, la storia e il comportamento che stanno alla base della cultura” devono cambiare, perché “non abbiamo ancora svelato o decostruito i fondamenti cultuali e le cause della violenza”; l’arte ha il potere di far conoscere e, facendo conoscere, ha il potere di far maturare le coscienze. Ecco, allora, gli strazianti monologhi delle donne di Bosnia, rinchiuse nei “campi di stupro” durante la guerra in Jugoslavia, e quelle di Ciudad Juarez, in Messico, dove ogni anno decine di donne spariscono e vengono ritrovate nel deserto, stuprate, coi seni tagliati, violate in ogni aspetto della loro femminilità: perché “ovunque succedono cose terribili alle vagine”.
Sicché ben vengano codeste vagine parlanti, che ci fanno riflettere su quali sono le vere proporzioni e le vere prospettive alle quali dovremmo attenerci per non correre il rischio di mancare una definizione di umanità indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza, per la nostra stessa dignità. Brave le vagine che parlano! E che tante altre cose fanno…

E se l’uomo non fosse nient’altro che natura?

Giulio Gasperini
ROMA – La magia dell’haiku non è quantificabile nella sua semplice definizione. Un componimento breve, che parte da uno spunto naturale, e si configura in diciassette sillabe suddivise in tre versi: prima cinque poi sette poi cinque. La magia dell’haiku è data dal suo genuino potere di cogliere la scintilla, di cristallizzare il momento dell’energia e concretarlo lì, sulla carta, imprigionandolo nelle sillabe e modellando un ricordo che sia valido a discapito del luogo e dello scorrere del tempo. Bashō fu forse il più grande scrittore di haiku: la storia lo racconta e lo certifica la critica. Fu quello più legato alla natura e ai suoi impulsi poetici. Nelle sue “Poesie”, pubblicate nel 2003 dalla coraggiosa casa editrice pugliese Acquaviva, gli animali e le piante sono l’elemento imprescindibile della provocazione sensoriale, e diventano vettore trainante dell’intima scoperta umana: “È in fiore / il ciliegio centenario. / Il vecchio ricorda”.
La natura diventa anche il setting privilegiato per la scoperta, che avviene nella quotidianità più estrema ma che narra una storia più universale: “Mangiando ai piedi dell’albero / sulla minestra e sul piatto di pesce / cadono i petali di ciliegio”. La comunione tra uomo e natura è totale e non ammette deroghe né torti: “Io sono un uomo / che mangia il suo riso / in mezzo alle campanule”. Ma la natura trasmette soltanto calma e quiete, dolcezza e tranquillità. La natura è anche il luogo del dolore, che trova però sempre il modo di esser sublimato e, in un certo senso, arricchito di possibilità, di alternative: “In morte di un mio amico poeta // Scuotiti, tomba. / Il vento d’autunno / è la voce del mio lamento”. Perché la poesia Basho la ricerca nella vita quotidiana, appunto. La ritrova voltando lo sguardo, cogliendo gli aspetti della vita più semplice e pura: “Ah, come sto bene! / Ieri mi è passato ogni malore / dopo una zuppa di pesce palla”. E la ritrova, soprattutto, là dove la creatività umana e la potenza della natura si incontrano e, incontrandosi, riescono a unirsi e far gemmare qualcosa di speciale, di genuino: “L’inizio dell’arte: / la profondità della campagna / e una canzone piantando il riso”. Nella natura Bashō ritrova tutti i componenti dell’uomo, trova la possibilità d’una continua sorpresa, la promessa dell’inaspettato: “Sono stanco / e entro in una bettola. / Ci trovo fiori di glicine”. Trova persino una traccia perduta dell’amore, un desiderio rimasto incompiuto e chissà se mai avverabile: “Verrà quest’anno / la neve / che contemplai con te?”.
Sa bene, Bashō, che la poesia nacque con l’uomo, e che l’uomo con la poesia crebbe fino a superare sé stesso nelle sue previsioni, nei suoi intenti. Sa bene, Bashō, che la vita è una ricerca, un continuo esplorare per cambiare, nel tentativo ultimo di migliorare: “L’anno se ne va / mentre anch’io mi metto il cappello / e mi calzo le ciabatte di paglia”. Sa però ugualmente bene, Bashō, che la ricerca è solitudine, e che in solitudine si compie il viaggio: “Grande luna! / Ho vagato intorno allo stagno / per tutta la notte”. Ecco allora che gli ultimi suoi versi mai composti sono il suo testamento, la teorizzazione suprema di tutta la sua eterna ricerca, poetica e umana: “Ammalato nel mio viaggio / il mio sogno se ne va da solo / per le pianure desolate”.

Chi sono gli “Assassini” dei nuovi anni Dieci?

Giulio Gasperini
ROMA – C’è una fabbrica che inquina, nel romanzo di Philippe Djian; c’è un paese, Hénochville, che vive grazie a codest’industria; c’è un ispettore che sta per decidere di chiudere la fabbrica; ci sono alcuni operai che non vogliono che sia chiusa; ci sono delle mazzette che vengono versate e c’è una donna pagata per convincere l’ispettore. C’è anche un fiume – ovviamente inquinato – che sta per tracimare; c’è una donna, una ragazza, che ignara di tutto si trasferisce in città e prende in affitto un appartamento; c’è il protagonista, Patrick Sheahan che ha una relazione con una donna sposata; e c’è il marito che fa finta di ignorare. Il copione di “Assassini”, romanzo edito nel 2012 dalla romana Voland, è quello che anche alcuni recenti fatti, di questi primi anni Dieci, hanno portato alla ribalta delle cronache. Da una parte la produzione, la creazione di ricchezza; dall’altra il disastro ambientale e umano: quale dei due poli pesi di più e sia più importante è difficile a dirsi, perché l’assunzione di responsabilità della risposta tira in ballo situazioni imbarazzanti e un’accusa di omertà pesante da giustificare.
Il protagonista è perentorio, fin dall’inizio: “Lavoravo per un assassino. Lavoravo per un assassino come molti in città, ma nessuno diceva niente”. Tutti i personaggi corrono su un doppio binario: quello delle proprie vite personali e quello delle proprie vite “pubbliche”, legate indissolubilmente all’andamento della fabbrica e alla sua capacità produttiva. Gli amici si ritrovano tutti assieme, in un piccolo chalet di montagna, assediati dalla pioggia e da una frana che si fa sempre più incombente, fino a quando tutto è travolto e si offre la possibilità di voltare pagina, di affrancarsi dai dolori del passato e di cominciare una nuova vita da qualche altra parte: “La ricerca della felicità è faccenda piuttosto complessa e quasi sempre votata al fallimento, eppure tutti ci provano. Ci vuole tempo, poi, per imboccare un’altra strada”. Il ricatto sentimentale del protagonista, il suo volontario e sadico ostaggio della sua storia e della sua vicenda personale, lo allontanano dalla possibilità di redenzione, che appare preclusa in una città soffocata e oppressa, dall’industria e dalla natura; i suoi tentativi di evadere sono stanchi rimedi inutili, iniziative fallite ancora prima di approdare all’epilogo: su tutto grava un cielo scuro e un annuncio di giudizio universale. Su tutti incombe l’ombra di un fato arcigno e di una casualità ostile. Tutta l’umanità è pareggiata, sullo stesso palcoscenico d’eventi, e tutta l’umanità, al di là di ogni proprio impulso e patimento, si scopre sofferente e sanguinante.
Nello scorrere degli eventi, nell’avanzare impetuoso e inarrestabile della trama, di fronte alle esigenze intime e individuali, quelle della collettività passano in secondo piano, si opacizzano e assumono, sempre più, una dimensione inquietante e carnivora. Non c’è vita che possa essere sprecata, ma ci sono disastri che posson tramutarsi in risorse. Il finale è prevedibile e scontato, persino sdolcinato, ma lascia un’ombra inquieta e inquietante: in tutta questa trita umanità non si capisce bene chi siano i peggiori assassini.

I sopravvissuti “Canti d’amore dell’antico Egitto”.

Giulio Gasperini
ROMA – Alla parola “Egiziani” non sono le poesie d’amore le prime immagini che si presentano alla mente. Subito compaiono piramidi, sfingi, monumentali tombe e raffigurazioni di un oltretomba tanto certo quanto misterico. Ma dell’epoca di Ramesse II, il periodo di maggior fioritura dell’Egitto antico, ci rimangono alcune testimonianze scritte di notevole valore e importanza, che la Salerno Editrice ha pubblicato nel 2005, con la cura di Emanuele M. Ciampini: i “Canti d’amore dell’antico Egitto” costituiscono una miniera sorprendente di parole e immagini che riguardano l’amore. È sorprendente stupirsi di fronte ai toni coi quali in Egitto si poetava di questo sentimento, perché è facile ritrovare topoi e immagini concordi con quelle di altre popolazioni del tempo, soprattutto nell’ambito sapienziale (“egli allora magnificherà il mio nome”), a conferma di come il serbatoio poetico e la memoria collettiva sia comune al di là delle etnie e degli orizzonti che si occupavano. Risultano ancora più sorprendenti queste testimonianze vista l’estrema frammentarietà a cui è stata condannata la scrittura egiziana, codificata su supporti troppo fragili per potersi conservare massicciamente e a lungo: “Oh, possa tu venire in fretta da (tua) sorella / come una gazzella che corre per il deserto”.
Questi componimenti paiono sorprendere soprattutto per un aspetto: dopo la parentesi amarniana, con la riforma religiosa e sociale di Akhenaton, il predecessore di Tutankhaton/Tutankhamon, la coscienza egiziana si rende più “umanistica”, più focalizzata sull’interiorità e su un rapporto esclusivo tra uomo e mondo: in questo modo si potenzia il sentire, anche poetico, dell’individuo e la poesia può effettivamente librarsi al di là degli orpelli e dei limiti retorici e celebrativi: “Il tuo amore si è fuso col mio corpo / come [vino] con l’acqua / come una medicina alla quale si mischia della resina”. La nuova e maturanda coscienza di sé porta anche a un cambiamento epocale nella società egiziana: la sempre maggior presa di coscienza del ceto medio-alto egiziano, che comincia a conquistarsi spazi e prospettive all’interno della rigida società piramidale: “Fratello, mio amato, il mio cuore segue il tuo amore, / e tutto ciò che è stato creato per te io te lo racconterò”.
I temi delle poesie son quelli affrontati, classicamente, nei componimenti dall’origine della poeticità: l’amore visto come dolore, come sofferenza, ma anche, all’opposto, un amore concepito come sentimento universale, come potenza sovra-umana che sa conquistare l’uomo e persino cambiarlo (“La mia salute dipende dal suo arrivo / perché al solo vederla io sto bene”). È un amore che anche la Natura appoggia, che soddisfa e sostiene, e nella quale l’amante si ritrova, trasformato e sublimato: “Il melograno ha aperto la sua bocca / […] e rimango verde in ogni stagione / […] e comincio a dispiegare la mia fioritura”. È un amore inesauribile, che non smette mai di ricercare situazione di incontro, convergenze e tangenze: “È un giorno felice quando posso contemplarti. / Fratello, è un canto grandioso vederti!”. È un amore fortemente erotico, nella sollecitazione di tutti i sensi, accesi e stimolati al suo adempimento: “Tu potrai inebriare i loro sensi, / e li soddisferai nella sua notte. / E allora lei dirà: – prendimi tra le tue braccia / e al sorgere del sole noi staremo ancora così”. Spesso l’amore è osteggiato, spesso gli amanti sono costretti a separarsi, divisi dal destino e dagli antagonisti, ma spesso la loro riconquista reciproca sancisce la fine della sofferenza e il ristabilimento di una situazione che viene perseguito come il compimento più perfetto della vita di ognuno: “Oh notte, tu mi apparterrai in eterno, / da quando la signora è venuta da me!”.

“Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli?”

Giulio Gasperini
ROMA – La domanda chiunque di noi se la sarà fatta, almeno una volta nella vita. E la risposta non è mai troppo scontata. Nel caso di Erma Bombeck, però, diventa lo spunto per una divertente disamina della propria condizione esistenziale. Giornalista di costume e sensazionale osservatrice degli attimi, Erma Bombeck ha per anni divertito l’America e il mondo raccontando la saggezza mietuta nelle sue lunghe giornate di casalinghitudine, quando il lavoro è titanico ma mai riconosciuto. Erma approdò tardi alla parola scritta, dopo una vita dedicata alla famiglia e alla casa: “Abbassare il coperchio della tazza del cesso dieci volte al giorno non basta a realizzarmi”; divenne così una delle penne più ricercate e pagate del giornalismo americano, scrivendo centinaia – forse più di 4000 – di articoli di costume, nei quali la housewife divenne la protagonista assoluta, imponendo la sua presenza e decretando la sua importanza nella società statunitense, senza rinnegare la sua importanza e il suo lavoro di profonda devozione.
“Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli?” (Longanesi & Co. 1980) è un’indagine sfiziosa e sagace della vita di una casalinga, la “Fata Turchina”, che diventa exemplum condiviso da milioni di altre casalinghe sparse per il mondo, nella quale tutte si ritrovano e possono, scherzando, crearsi comunità e condividere la sorte: “Ecco di cosa tratta questo libro. Della sopravvivenza”. Lo stile della Bombeck è accattivante, con improvvisi lampi e folgorazioni sagaci, intelligenti, mai volgari né banali; con coraggiosi cambi di prospettiva e di punti di vista, che accrescono l’ironia e mortificano il grottesco. Come nel caso dell’incontro/scontro tra uomini e donne, tra Venere e Marte: “Una donna può girare per il Louvre, a Parigi, e vedere cinquemila quadri da togliere il fiato appesi alle pareti. Un uomo può girare per il Louvre, a Parigi, e vedere cinquemila chiodi infissi in quelle stesse pareti. È questa la differenza fondamentale”.
La realtà è la sua materia, che poi plasma per approdare là dove pareva troppo scontato approdare, ma dove effettivamente si nascondono le verità più vere e profonde. Non c’è mai un racconto fuori posto, un’esperienza eccessiva e inutile, un affondo inopportuno. Non c’è mai una valutazione stridente, o un concetto che non possa dirsi condivisibile. Gli aneddoti e le esperienze sono deliziose, golose, nutrienti, sane nel senso più pieno e completo della parola. Ed è la stessa famiglia della Bombeck il campionario di infiniti teoremi e postulati, una sorgente naturale di inesauribile vita: i figli e il marito diventano quasi dei casi da studiare, da analizzare con uno sguardo tagliente come bisturi, ma mai freddo, asettico: “Nessuno sa che cosa aspettarsi della vita! Ma io ho il terrore di lasciare questo mondo senza che nessun altro membro della mia famiglia sappia sistemare un rotolo nuovo di carta igienica sull’apposito sostegno”. Perché al di là di tutto, l’amore e la dedizione della donna-moglie-casalinga tracima e perdona. Non dimentica, ma perdona, sublimando l’evento e creandolo vita sempre migliore; vita per migliorare: “Ma soprattutto ti ho amato abbastanza da continuare a dire ‘No’ anche sapendo che mi avresti odiato. È stata questa la decisione più difficile”.
Avrà, insomma, pur sempre parlato della tazza del cesso, Erma Bombeck; ma ne ha parlato sempre col massimo rispetto!

La “Spedizione notturna nella mia stanza” e le possibilità del viaggio.

Giulio Gasperini
ROMA –
Difficile è credere che i migliori viaggi si facciano soltanto con la fantasia, senza spostarsi dalla propria stanza e senza mettersi in viaggio, senza sporcarsi di polvere i sandali. Difficile è concepire il cammino senza la prospettiva di un fisico sentiero, di uno spostamento da qui a lì, da qua a là. François-Xavier de Maistre, scrittore sabaudo dall’avventurosa vita, pare contraddire codesta affermazione, con due viaggi compiuti nella sua stanza, delimitata da quattro pareti, un soffitto e un pavimento ma che, di fronte ai suoi occhi e alla sua mente fantasiosa, si espande e si scontorna, abbattendo gli a-priori di ogni uomini e plasmandosi non-luogo fisico. La “Spedizione notturna nella mia stanza”, di cui esiste un’edizione del 1832, pubblicata da Annesio Nobili, stampatore di Pesaro, tradotta dal francese da Paolina Leopardi, è la cronaca di un’avventura un po’ anomala ma non assurda. Quella di un ragazzo che, pur di non soccombere alla noia della solitudine, riesce a squadernarsi il limitato spazio che possiede e a farlo diventare una terra di conquista senza fine, dove gli unici limiti son quelli che lui si impone: “Il tempo mi sembra una cosa talmente inconcepibile da farmi credere che non esista realmente e che quanto chiamiamo tempo sia soltanto una condanna del pensiero”. Tutto il giovane trova il coraggio di superare, tutti i rischi si assume pur di sollevarsi e trovare nuovi spazi da battezzare, pur nel limite dei confini: “Ogni attimo della nostra vita è una creazione nuova, un atto dell’onnipotente volontà”.
La grande lezione di de Maistre è che non c’è mai fine al pensiero umano, non c’è mai un limite alla fantasia dell’uomo, non c’è mai potere più inesauribile del suo desiderio di spingersi oltre. La curiosità è il motore umano, il desiderio incessante di arricchire l’orizzonte, la visione prospettica, il contenuto empirico: “Gli avvenimenti della nostra vita non possono avere un’origine diversa, e sarebbe il massimo della follia attribuirli al caso”. Tutto questo accompagnato da un’ironia, da una sagacia, da un amore pel grottesco che rendono più lieve anche la più profonda e pesante delle verità, la più ingombrante delle ricerche. “Ricorda che l’ironia ti salverà la vita” canta Fiorella Mannoia e François-Xavier pare averlo saputo già molti lustri prima, quando la penna poteva farsi spada, e la spada ferire senza scorrimento di sangue ma ugualmente pungente e dolorosa.
C’è anche spazio per l’amore, in questa breve fuga dal mondo; un amore declinato nella condizione, per lo scrittore, la più possibile pura e perfetta, quella del silenzio, quando non c’è bisogno di nessuna conferma, di nessuna sillaba fuori posto né luogo, di nessun assenso per essere autorizzata: “La giornata è sempre troppo breve quando la si passa accanto alla persona amata; e il silenzio è interessante quanto la conversazione”. C’è posto per ogni scheggi dell’uomo, in questa breve spedizione. Breve di lunghezza ma non di respiro, perché de Maistre riesce a condensarci tutto l’uomo, a mantenerlo integro nella costruzione della sua memoria, scandito dai suoi tempi e dagli innegabili suoi momenti: “il ricordo del passato, il sentimento del presente e la previsione dell’avvenire s’annullarono in me”, squadernando un uomo che fosse umanità e un’umanità che potesse identificarsi in un singolo uomo.
François-Xavier de Maistre monta in sella alla finestra, la cavalca come fosse cavallo bianco di principe, e parte alla conquista del mondo che non scorge, di quello che dorme nell’oscurità della notte. Ma che, per questo, è ancor più nostro; perché là possiamo essere quel che più vogliamo.

“I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta” e le vite graffiate sui muri.

Giulio Gasperini
ROMA – Non è così innovativa la mania pei graffiti, quella voglia che i writers hanno di colorare i muri delle città e narrare storie, lasciare tracce, far gemmare d’un segno il corso del tempo. Si è sempre scritto, si è sempre incisa la pietra. E paradossalmente il lavoro di Omar Borettaz, su “I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta”, ci mostra come quel gesto, che oggi è maleducazione, sia un’importante fonte di informazioni su la vita che fu e le persone che, quella vita, popolarono. Il libro, edito da Priuli & Verlucca nel 1995, tratteggia un viaggio senza tempo attraverso le idee, le scritture, le espressioni di persone anonime che hanno cristallizzato un attimo della loro vita su una parete e che ci raccontano un passato appassionante.
Molti sono anonimi, i poeti di Issogne: in pochi hanno reso personale la propria materialità, proprio perché non era prerogativa del tempo pensare all’unicità della persona, o perché, magari, come ai giorni nostri, l’anonimato dava coraggio e una voce più potente. Il più antico è del 1489, quando Giorgio di Challant cominciò a trasformare l’antico maniero di famiglia in una residenza signorile, con il posizionamento della celebre fontana del melograno, in ferro battuto. Chiunque sia passato, viandante o soldato, ha approfittato dello spazio, conquistandosi il suo posto tra i graffiti. C’è tutta la vita possibile, sui muri di Issogne, che pare guidato da un estraneo progetto: c’è l’amore e la saggezza, c’è l’irrisione e l’ironia, c’è la morte e la risurrezione, c’è il coraggio e la paura, c’è il luogo e ogni altro altrove. Non si tratta comunque di affreschi deturpati ma di potente vita che affiora e si converte in arte; in quella di ogni giorno, per la quale tutti possiamo diventare poeti.
C’è chi parla del proprio viaggio, di quello che magari lo ha condotto a Issogne (adi 3 iunio arivai qua / più morto di vivo, un tale Barbero, nel 1568), o di quello che, a breve, lo allontanerà (Quando io penso al partir / io penso al morir). C’è chi usa antiche saggezze per dare forza e coraggio (Omnia vincit amor, di virgiliana memoria), e altri che usano il muro come unico modo per sfogare i loro dolori, per sapersi in un certo modo ascoltati e non traditi (1577 / Per non monstrar ill moi duolore / tal volta rido che crepe ill cuore / Thoma di Druenvaldtd / von Nuremberg). C’è anche chi non può rinunciare a battute e immagini scurrili e chi si diverte a importunare gli altri, chiunque siano (W Marqantoine et ces gros couillon). Ci sono anche iscrizioni moraleggianti, che tentano di educare chi, per caso o per destino, poserà gli occhi: Dum tempus habemus / operemus bonum; altre, invece, esortano all’opposto, prospettando valori ben diversi: Homo sine pecunia / est corpus sine anima. Qualcheduno si lamenta delle delusioni della sua vita (Maledictus homo qui confidit in homine), altri giocano e scherzano con le sillabe, lasciando trapelare tutta la loro triste esperienza, in una sentenza che pare non aver appelli: S’offrir faict souffrir 1607. E poi c’è anche chi si diverte a sbeffeggiare tutto il mondo, secondo modalità che sono ancora oggi concretamente utilizzate: Omne animal habet culum / tu qui legis pone nasum.

“Il diritto alla pigrizia” nei nuovi anni Dieci.

Giulio Gasperini
ROMA – Potrebbe sembrare un affronto in questi tempi di crisi riproporre un saggio che esorta alla pigrizia; che condanna il lavoro e la sua feroce ricerca. Paul Lafargue fu scrittore e teorico d’economia sfrontato e coraggioso, senza remore né timori di brandire le sue estreme convinzioni e di farle bandiera di un presunto progresso. “Il diritto alla pigrizia”, che la toscana Piano B edizioni ci ha riproposto nel 2009, è un saggio acuto ma scomodo, che tira in ballo paure e inquietudini che finiscono per paralizzare e terrorizzare.
Paul Lafargue, nato a Cuba e formatosi in Francia, abbracciò fin da subito le idee socialiste di Proudhon e sposò Laura, la figlia di Karl Marx, insieme alla quale si suicidò, in una fredda compostezza borghese, annunciando l’ineluttabilità della sua decisione: “Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza”. Inderogabile nelle sue decisione, Lafargue; implacabile e senza concedersi appelli. Come è il suo saggio, pubblicato sui giornali, articolo dopo articolo, a partire dal 1880. Già la frase di apertura, sulla quale si basa tutto lo svolgimento della sua ipotesi, è agghiacciante e spiazzante: “Una strana follia si è impossessata dei lavoratori delle nazioni in cui domina la cultura capitalistica. […] Questa follia è l’amore per il lavoro – è la moribonda passione per il lavoro – spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie”. Non c’è appello a questo: il lavoro è dannoso, perché allontana gli uomini dalla Natura, dalla condizione di Buon Selvaggio che, teorizzata da Rousseau, pareva essere la sua declinazione migliore, la più perfetta e compiuta. “Anche gli antichi greci non provavano che disprezzo per il lavoro”. L’ammonimento di Lafargue è apocalittico, catastrofico: “Introducete il lavoro di fabbrica, e addio gioia, salute, libertà: addio a tutto ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta”. Perché il lavoro produce merce, e la merce finisce per restare invenduta, producendo una stagnazione economica che si tramuta in povertà umana, perché l’uomo, inserito in un vortice senza possibilità di uscita, è costretto a dover produrre sempre più. La soluzione, per non fermare la vorace ansia dell’uomo lavoratore, sarebbe quella di “obbligarli a consumare le merci che producono”.
L’otium sarebbe la panacea, la più perfetta delle condizioni. Ma l’otium, nella contemporaneità, non ha più possibilità di affermarsi, di diventare una possibile condizione umana, come nell’antichità greco-romana. L’età contemporanea, ormai, è corrotta e contaminata. “Ogni miseria individuale e sociale proviene dalla sua passione per il lavoro”: più perentorio di così.

“Storia delle Olimpiadi”: storie di uomini e donne.

Giulio Gasperini
ROMA – Significherà pur qualcosa se uno studioso di Dante, autore di un commento della Commedia diventato caposaldo della critica letteraria, si è imbarcato nell’avventura di raccontare imprese sportive. E non imprese sportive in generale, ma l’evento sportivo per eccellenza, già fondante dell’antichità classica per più di un secolo, che fu riesumato e riproposto alla fine del XIX secolo dal barone francese Pierre De Coubertin: i Giochi Olimpici. Stefano Jacomuzzi compilò questa “Storia delle Olimpiadi” per Einaudi nel 1976 dopo l’insanguinata edizione dei giochi di Monaco 1972 che parvero pietra tombale dello spirito olimpico. Questa storia è stata completata, fino alle olimpiadi di Pechino 2008, dalla coppia di fratelli giornalisti Giorgio e Paolo Viberti e pubblicata nel 2011 da SEI Frontiere.
Jacomuzzi principia a raccontare dai prodromi delle Olimpiadi, da quel primo desiderio concretato in un progetto mondiale: dalla lungimiranza del barone De Coubertin, dalla potenzialità del suo sguardo e del geniale intuito che ebbe nel rievocare e nel riportare in vita una competizione che, col passare degli anni, non fu soltanto sportiva ma divenne sociale e persino politica, dall’edizione di Berlino 1936, “irta di svastiche” in piena affermazione di Hitler, alle edizioni dei boicottaggi incrociati di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, dalle Olimpiadi del centenario di Atlanta 1996, interamente sponsorizzate dalla Coca-Cola, fino all’Olimpiadi di Pechino 2008 che decretarono e sancirono la potenza mondiale della Cina. Jacomuzzi racconta con ironica leggerezza gli episodi più potenti che hanno definito le Olimpiadi e le hanno significate: dalla celeberrima maratona di Dorando Pietri a Londra 1908, alla triste vicenda del giovane Fabio Casartelli, oro nel ciclismo a Barcellona 1992, dal primo oro olimpico conquistato dall’Uganda con John Akii Bua a Monaco 1972 al dramma umano ed esistenziale di John Thorpe “Sentiero lucente”, atleta pellerossa che vinse pentathlon e decathlon a Stoccolma 1912 e si vide togliere le medaglie per una futile diatriba tra professionisti e dilettanti.
Stefano Jacomuzzi non trascura il suo essere letterato, non abdica al ruolo di scrittore forbito e consapevole della lingua, tanto da creare quello che i suoi figli, Ulisse e Vincenzo, definiscono nella presentazione “Al lettore” del volume come “il suo romanzo più bello”. E di romanzo effettivamente si tratta perché Jacomuzzi non presta tanto attenzione ai risultati ottenuti, ai tempi della corsa, ai record dei lanci, alla potenza delle falcate con cui si vince l’oro, ma porge la sua – e veicola la nostra – attenzione sulle storie, sui drammi, sulle felicità, sulle casualità e le tragedie di persone che vincono per un giorno, in un attimo, e diventano immortali per sempre. Ogni uomo e ogni donna sono infatti pura narratività e ogni loro racconto, ogni loro evento o impresa, può diventare letteratura. Di quella più genuina.