Da Ponte e Vienna: quando la cultura era più che politica.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il 1790 fu anno cruciale, per l’Austria e il suo impero. Morì Giuseppe II, sovrano “illuminato” e attento alla cultura come manifestazione di prestigio e di potere. Leopoldo II ne prese il posto, deludendo le attese: al potere imperiale non riuscì a esser così liberale come durante il suo granducato in Toscana (per primo nel mondo, abolì la pena di morte nel 1786). Il sospetto, l’ansia, la fobia delle rivolte corrompono non soltanto il sistema politico, ma investono anche la cultura e i suoi rappresentanti; in particolare, coloro che della libertà di espressione e di seduzione han fatto le loro bandiere. Lorenzo Da Ponte è l’emblema di come la cultura, in ogni luogo e in ogni tempo, sia sempre stata vista con diffidenza da chi detiene il potere e sa (generalmente) che è pericolosa, perché fa sapere troppo. Ma veramente soltanto questi sono i motivi della caduta in disgrazia di Da Ponte, scelto da Giuseppe II come poeta di corte? Può esser stata fatale a Da Ponte solamente la scelta di libretti arditi e di tematiche scottanti? Può essergli costata la tranquilla e rispettata vita viennese solamente la sua liberalità, la lungimiranza e il suo spirito libertino? Rossana Caira Lumetti, nel suo testo “Da Ponte esiliato da Vienna” (Aracne editrice, 1996), getta una luce importante nella vicenda, presentando anche dei documenti inediti in italiano, tra cui un pamphlet, “Anti – Da Ponte”, nel quale si descrive un immaginario processo contro il canonico trevigiano, reo, tra le altre accuse, di aver copiato numerose opere di suoi colleghi.
La studiosa sottolinea come le motivazioni dell’allontanamento di Da Ponte da Vienna, che fecero cominciare i suoi peregrinaggi in tutta Europa per poi concludersi nei neonati Stati Uniti (dove fondò la cattedra di letteratura italiana alla Columbia University), furono ben più numerose e varie. Alla base, persino un odio personale: Da Ponte dimostrò subito le sue spiccate capacità imprenditoriali, entrando in contrasto con personalità di spicco della cultura viennese, tra i quali il Rosenberg e l’Orsini; ma anche con i grandi poeti della corte, in particolare con Casti. Da Ponte fuggì le unità aristoteliche, rinnegandole come materia gretta e inutile; mise in scena personaggi libertini e spregiudicati, quasi prendendo a modello i grandi personaggi del ‘700 europeo, che per l’ultima volta furono italiani (sé stesso, Casanova, Cagliostro); cercò un coinvolgimento del pubblico anche a livello metanarrativo e musicale, attraverso continue allocuzioni e apostrofi al pubblico in sala. Fatale fu per Da Ponte il nuovo senso di maggior disinvoltura e spregiudicatezza nell’arte e nei suoi allestimenti che stava cominciando ad affermarsi negli intellettuali di fine ‘700, in un’epoca che traghettò alla fine del mecenatismo e della commissione, e attestò la nascita della cultura come mestiere autonomo e indipendente.

Le tracce di Alfonsina “por la blanda arena que lame el mar”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Anche una canzone è stata composta per ricordarla; per ricordare proprio il momento in cui si arrese alla solitudine e cercò una pace duratura nelle acque del Mar de la Plata. Alfonsina Storni nacque nel 1892 in Svizzera, nel cantone italiano, e la sua prima lingua fu l’italiano; poi, seguendo i genitori, approdò ancora inconsapevole a Rosario, nell’Argentina, paese al quale legò il suo destino e la sua cultura ma anche la sua sofferenza (“Perché fra le tue strade, unte come il tuo fiume, / che è velato, brumoso, è cupo e desolante, / quando giravo a lungo, io ero già sepolta” scrisse in onore di Buenos Aires). Alfonsina Storni fu donna coraggiosa e tenace, amante dell’arte in tante declinazioni: fu attrice, maestra “rurale”, scrittrice, corrispondente, organizzatrice delle biblioteche socialiste. Fu madre senza marito né compagno, viaggiatrice curiosa di conoscere, più che di contatto umano, verso il quale fu sempre diffidente e sospetta, schiva in difesa del suo anonimato personale, della consapevolezza inderogabile di quanto ognuno di noi sia nullità: “Il giorno che io muoio, la notizia / deve seguire pratiche usuali / e di ufficio in ufficio nei registri / al punto suo io sarò rintracciata. // Molto lontano, là, in un paesino, che al sole su nella montagna dorme, / in un vecchio registro, sul mio nome, / mano che ignoro tirerà una riga”.
La sua poesia fu spietatamente autobiografica (“La penna ha catturato momenti della vita, / momenti della vita che fuggirono presto / momenti con impressa la violenza del fuoco / o più leggeri furono che boccoli di spuma”), fiera della sua condizione femminile anche se non femminista (“Non sono pietra / non sono montagna. / Sono solo una donna: / che volete ce faccia?”). La fragilità umana fu un suo tratto distintivo che pervadeva ogni sua parola poetica, ogni sua composizione lirica: “In verità a morir, da quando è nato, / questo buon cuore si va allenando, / prove di dramma non assimilato; / così vive, cadendo e rialzandosi”; ma Alfonsina non rifiutò mai la lotta, l’adesione a un ideale che fosse anche vita attiva, comportamento pratico e pragmatico, in un secolo accelerato di violenze e accadimenti: “Per andar dietro al ritmo delle cose, / di un secolo nervoso a volte volli / pensiero e lotta, vita di quel che vivo, / essere al mondo breve vite in più”. Il fare fu vocazione, fu istinto e imperativo: “Sì, io mi muovo, vivo, nell’equivoco / acqua che corre e si tramescola sento / vertigine feroce il movimento: / fiuto le selve, a nuove terre arrivo”; ma il bisogno di solitudine fu incontrastabile, insaziabile: “Lasciami sola: odi, i germogli rompono… / ti culla di lassù piede celeste / e un passero ti segna alcuni accordi // perché dimentichi… Grazie. Una preghiera: / se al telefono chiama un’altra volta / digli che non insista, non ci sono…”.
La destinazione privilegiata di Alfonsina fu al di là di tutto quella dell’amore: “Ma prigioniera a un sogno seduttore, / del mio istinto tornai al pozzo oscuro, / così, insetto qualsiasi, accidioso / e vorace, io sono nata per l’amore”. La tensione allo spasimo, il desiderio che non pretendeva concessioni: “E passava l’inverno e non veniva, / e passava così la primavera, / e l’estate di nuovo non moriva, / l’autunno mi avvolgeva con l’attesa”. Ma al termine dell’orizzonte, dove lo sguardo si riusciva a spingere per tornarne colmo di colori e suoni (“mirando i grandi uccelli che migran senza un dove”), c’era sempre l’ombra della fine: “È l’arte di morire cosa dura: / si prova molto e non si impara bene”.
La sua piccola orma – “su pequeña huella” – non tornerà più, dalla candida spiaggia; ma le sue impronte vere sono altre, quelle più indelebili e incancellabili: “Nei miei versi, o viandante, sono assente ed esisto, / perciò mi puoi trovare se col libro procedi / lasciando sulla soglia i tuoi pesi e bilance: / chiedono i miei giardini pietà di giardiniere”.

Le poesie sono tratte da “Alfonsina. 13 poesie e 53 disegni di Gabriella Verna”, Dadò, Locarno 1985

Il passato deformato in “Che fine ha fatto Baby Jane?”

Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1962 quando due grandi rivali del grande schermo si ritrovarono a condividere una sceneggiatura. Soltanto un film come “What ever happened to Baby Jane?” poteva avere la suggestione e la potenza di riunire Bette Davis e Joan Crawford in un capolavoro del genere macabro, un capolavoro inquietante e sconvolgente, una metafora ben elaborata di come la solitudine umana possa diventare terrore e di come la gelosia sappia trasformarsi in persecuzione. In una stagione cinematografica in cui i film, molto spesso, radicalizzavano gli ambienti (i loro vizi e le loro virtù) della grande industria hollywoodiana (celebre il noir “Sunset Blvd.” con la grande Gloria Swanson che pone la pietra tombale, finanche grottesca, alla grande stagione del muto), “Che fine ha fatto Baby Jane?” porta all’estremo il fenomeno delle piccole enfant prodige alla Shirley Temple, condannate a una carriere brillante e sfolgorante quanto a un oblio lungo e drammatico. E nel crollo psico-fisico, la piccola Baby Jane trascina anche la sorella, la stella hollywoodiana Blanche Hudson, coinvolgendola in una spirale di tensione psichica che ben presto assume i connotati di una vera e propria patologia. Il film, che ottenne un successo sincero e meritato, fors’anche reso ancor più evidente da una reale antipatia tra le due grandi dive del cinema, era basato sul romanzo di Henry Farrell, edito nel 1960. Le differenze tra i due prodotti sono evidenti e significative: l’escalation alla violenza viene dipanata nello stesso modo, a partire da una proiezione di vecchi film per celebrare la diva Blanche; e le violenze della sorella Jane si scatenano, accelerate dall’omicidio e alimentate dalle fobie, dalle illusioni e dagli inganni di una mente sconvolta e non più salutare. Tutto si consuma all’interno delle mura gelide di una casa antica, simbolo di un passato che non può essere recuperato, che ricorda ancora – per entrambe – i giorni delle felicità più estreme, pieno di reliquie e di rimasugli polverosi e infranti di sogni e avvenire sfioriti. È una casa che imprigiona, che impedisce contatti, che segrega mentre tutto il mondo, fuori, si chiede cosa accada dentro; ma mentre nel libro è dal mondo esterno che parte il moto di rivolta e la chiave di svolta, nel film la solitudine delle due donne si fa sempre più asfissiante, più claustrofobico, mentre il mondo riesce soltanto a sospettare un disagio sorprendente.
Jane tenta di recuperare un passato nel quale era lei la stella brillante, la più luminosa; rasenta il ridicolo cercando di trasformarsi di nuovo in un enfant prodige, riesumando le sue sdolcinate canzoni e riprovandosi gli antichi costumi di scena. Ma inconsapevolmente era stata proprio lei l’anima tiranneggiata e sopraffatta dalla sorella, la cui vendetta era stata più lunga e silenziosa ma fors’anche più crudele e meschina.

“È più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo”: ChronicaLibri intervista Nicola Montenz.

Giulio Gasperini
AOSTA – L’esperienza di Montenz dimostra chiaramente come la musica sia cultura e come la cultura sia interrelazione di soggetti creanti e ammiranti. La sua storia del rapporto tra Ludwig di Baviera e Wagner è un intenso reportage letterario, che si anima a partire dalla fisicità della scrittura e dalla concretezza dell’oggetto veicolare. Su ChronicaLibri è già stato recensito il testo, “Parsifal e l’Incantatore” (Archinto); adesso non possiamo che lasciare la parola all’autore.

 

Mi avvicino a te e al tuo lavoro con un disagio profondo. È il disagio di chi sa di non sapere. La Baviera, Ludwig, Wagner soprattutto, sono nomi e situazioni, opere e maschere, che mi sono, sinceramente, remote. Farò delle domande che nascono, come dire, dalle mie impressioni più genuine, più dirette. Dal tuo racconto, ad esempio, si potrebbe evincere che Ludwig e Wagner siano stati due uomini in fuga dalla realtà. Ma è proprio così? Fuggirono veramente la realtà contingente e finirono per cadere intrappolati in una non-realtà?
Certamente la sensazione è giusta: entrambi, per ragioni molto diverse, furono esseri umani in fuga dal mondo circostante. Wagner fuggiva da un’Europa che non lo riconosceva nei termini in cui lui avrebbe voluto essere riconosciuto: ossia come il più grande compositore e pensatore della sua epoca; per giunta, la fuga divenne, a partire almeno dal 1849, la dimensione reale della sua vita, in quanto il compositore, vuoi per ragioni politiche, vuoi – molto più spesso – per motivi finanziari, ebbe, fino almeno al 1872, molti nemici e moltri spettri da cui fuggire. Per Ludwig il problema fu diverso: egli era un disadattato; dapprima, cercò di costruirsi mondi immaginari – operistici, per esempio, o libreschi – in cui nascondere il proprio malessere esistenziale e il proprio orrore per ciò che gli stava intorno; in seguito, in modo sistematico e patologico, prese a fuggire non soltanto la realtà che lo circondava, e in cui non si riconosceva, ma persino i più normali rapporti umani (per esempio quelli con la famiglia, o con la servitù), invertendo, negli ultimi anni di vita, addirittura la notte e il giorno, in modo da poter vivere nelle tenebre, rassicuranti perché nascondevano ciò che non voleva vedere.

 

Due personalità, io le ho definite prendendo in prestito (forse in maniera impropria), borderline. Entrambi avevano qualcosa di sé stessi da nascondere, o da fuggire; o da ignorare, appunto. Noi plasmiamo questi personaggi attraverso la lettura della tua narrazione, ma tu li hai “tradotti”, ovvero tratti-fuori, dalle testimonianze che loro stessi ci hanno lasciato, da un sottile filo d’inchiostro che, in tempi remoti, monitorava l’intimo umano e ne lasciava una traccia indelebile, perdurante. Cosa significa studiare le persone dalle lettere, ovvero dalle tracce che, loro stessi, consapevoli o meno, hanno seminato e disperso?
Certamente si tratta di due personalità borderline, per ragioni diverse: l’uno, Ludwig, schiacciato da complessi di inferiorità tramutatisi, con il tempo, nel loro contrario e in una nutrita serie di disturbi psichici; l’altro, Wagner, abbacinato da un complesso di superiorità talmente esagerato da sfociare, non di rado, nel grottesco, nel tirannismo familiare, nella propensione verso un pangermanesimo ossessivo e follemente antisemita, da cui si avrebbero tratto linfa vitale, più tardi, Chamberlain, Rosenberg e Hitler. Il lavoro di studio e analisi dei carteggi e dei diari di entrambi ha significato per me, in qualche modo, mettere alla prova in forma diversa le competenze e l’attitudine alla ricerca che, in un altro campo, quello della filologia classica, esercito tutti i giorni; d’altro canto, un simile lavoro mi ha portato necessariamente a toccare con mano il fatto che ogni idolo, ogni leggenda, ogni mito che popola la nostra mente alterna attimi di grandezza suprema a lunghe ore, giornate e anche anni di pochezza, di ombra, di miseria, di malvagità o di follia; e questo è naturale, perché dell’idolo noi siamo abituati a vedere solo il lato su cui si proietta la luce – ed è quello che lui vuole mostrarci -; tuttavia, avere il coraggio di sprofondare in esso, fino a coglierne le più minute brutture, può costituire anche un utile esercizio critico: qualcosa di cui oggi si sente la disperata mancanza, abituati come siamo a rimuovere le sfumature, a gridare perennemente al miracolo, a idolatrare senza mai trovare la forza (o il coraggio?) di interrogarci.

 

Sarebbe anche il modo per calibrare meglio gli animi umani e poter capire che, al di là del genio, c’è solo l’uomo a costituire l’impalcatura. E il tuo testo è denso di umanità, nella declinazione più terrena: dispetti, ripicche, sotterfugi, ricatti. Tutti atti (e atteggiamenti) che ben poco penseremmo adattabili all’arte ma che sono invece costituenti dell’umano. Quanto c’è di arte, in questo tuo libro? E quanto c’è di narrazione dell’umano? Il prodotto finale è stato un tuo mirato proposito o te lo sei visto fiorire sotto le mani, scoperta dopo scoperta?
Il fatto è che, quando pensiamo all’arte, spesso dimentichiamo che a crearla sono appunto esseri umani, il cui talento, la cui tecnica e le cui sensibilità professionali possono senz’altro essere straordinari, ma non implicano per forza una corrispondente grandezza morale. Il rigore e la dirittura di un Mahler, tanto per fare un esempio, possono a buon diritto essere considerati eccezioni, in un campo, come quello della musica, in cui spesso è la vanità ad avere il sopravvento, e la grettezza non è un sentimento così lontano dagli animi quanto si vorrebbe credere. Per questo anche il nostro giudizio deve farsi sfumato, ed evitare sia l’idolatria acritica, sia il facile atteggiamento del censore; mi pare invece più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo che tale arte ha prodotto. Il caso di Wagner, al riguardo, rappresenta in qualche modo un’anomalia, nel senso che la discrepanza tra genio artistico e pochezza umana appare davvero ai limiti dell’umanamente concepibile; pure, questo non deve impedirci di credere che anche in lui si nascondesse un mondo interiore di estrema profondità: come spiegare, altrimenti, la bellezza – talora inarrivabile – della sua musica? Pura applicazione di tecniche acquisite? Naturalmente no – anche perché la sua formazione fu desultoria e certamente lontana dalla completezza accademica. È invece più ragionevole pensare che la musica fosse – insieme al complesso e ristretto groviglio dei suoi veri legami affettivi – la dimensione privilegiata in cui il suo intimo sapeva esprimersi appieno, libero dalle costrizioni della verbalizzazione del pensiero e della dialettica, e momentaneamente separato dalle quotidiane necessità di confronto con gli altri esseri umani. Per rispondere alla seconda parte della domanda, direi che il mio libro cerca di porre in luce i legami tra la vita e l’arte senza insistere con eccessiva minuzia sul secondo aspetto, che è di pertinenza dei musicologi, e sul quale molto (troppo?) è già stato scritto; il mio scopo, del resto, era quello di scrivere un saggio biografico, e se pure la produzione artistica vi svolge un ruolo fondamentale, è altrettanto vero che l’aspetto preponderante di un tale genere letterario è la vita stessa dei soggetti. La forma finale del testo è l’esito di una pianificazione preliminare che segue in modo fedele l’andamento diacronico dell’amicizia tra Wagner e Ludwig, che, nel complesso dei suoi colpi di teatro, scandali, litigi e fughe fu straordinariamente lineare. Il lavoro sui documenti, che è stato lungo, ma anche assai stimolante, mi ha permesso di ricostruire nel dettaglio vicende magari sfumate dalle biografie ufficiali, di approfondire i ruoli svolti da alcuni personaggi, e di fornire, in qualche modo, la mia versione del “romanzo”, cercando sempre di non perdere di vista lo scopo del mio lavoro… ma anche il divertimento per certi episodi, in genere oscurati, per i quali soltanto il sostegno documentario certifica che non sono il frutto di una fantasia malata!

 

E quali sono alcuni di questi “episodi oscurati” che ti hanno particolarmente colpito? Che tipo di influenza possono aver avuto in un rapporto che – correggimi se sbaglio – potremmo definire un ultimo esempio di mecenatismo cortigiano, un po’ anomalo, forse, in una società nella quale oramai tale atteggiamento culturale era oramai inattuabile e sepolto?
Molti sono gli episodi “dimenticati” dai biografi ufficiali di Wagner, che almeno fino agli anni ’60 del XX secolo hanno cercato di evitare lo spinoso argomento della disinvoltura con cui il compositore di comportò nei confronti della moglie: solo per fare un esempio, quando ella morì, Wagner affermò di non poter assistere al funerale a causa di un’infiammazione a un dito! Salvo poi svenire, di lì a poco, quando venne a sapere della morte del cane Pohl. L’intrigo con Malvina Schnorr e il fantasma di suo marito, poi, è talmente incredibile da sembrare inventato di sana pianta, eppure la documentazione che lo sostiene è abbondante e inequivocabile. E persino le furenti schermaglie con il re, a proposito delle anteprime monacensi dell’Oro del Reno e della Walkyria sono state fatte passare come esiti dei capricci di Ludwig, mentre in realtà sono il frutto della prepotenza di Wagner – il quale aveva ovviamente le proprie ragioni, ma cercò di farle valere, nel peggiore dei modi, contro il legittimo proprietario delle due opere.
Il loro esito ultimo, nell’economia dell’amicizia tra i due, fu senz’altro disastroso. Intendo dire: sul piano umano, poiché determinarono il progressivo allontanarsi del re e del compositore, fino al punto di tramutare il loro rapporto in una vera e propria finzione epistolare. Dal punto di vista pratico, non mi sentirei di affermare che il mutamento sia stato radicale, ché Wagner continuò a percepire i denari del re fino all’ultimo giorno della sua vita (compresi i vertiginosi donativi fuori ordinanza che permisero l’edificazione del Festspielhaus).

 

Il tuo nuovo lavoro ha di nuovo a che fare con la Germania, anche se di un’epoca relativamente differente. Il titolo è estremamente suggestivo e anche un poco presago: “L’armonia delle tenebre” tratta dei rapporti tra la musica e il regime nazista. Potresti presentarcelo più dettagliatamente?
L’armonia delle tenebre affronta un capitolo complesso della storia e della cultura del XX secolo, ossia il ruolo svolto dalla musica nella politica culturale del nazismo. L’ultimo capitolo di Parsifal e l’Incantatore toccava, pur se fuggevolmente, il problema dell’intreccio dei concetti di “musica” e “razza”; un problema che la mente di Wagner, per certi versi distruttiva, aveva ponderato in più di un’occasione. Di qui, la curiosità di capire fino in fondo gli esiti di simili derive dell’intelligenza umana.
È nata così l’idea di ricostruire un quadro della cultura musicale in Germania negli anni compresi tra il 1933 e il 1945, partendo dalle premesse teoriche – e in parte, dunque, da Wagner – per arrivare al punto finale: la musica nei campi di concentramento. In sette capitoli, ho cercato di rendere comprensibile al lettore italiano la catabasi del genio musicale tedesco, illustrandone le diverse tappe: le premesse teoriche, cui accennavo prima, e la costituzione di un organismo centralizzato di controllo; le epurazioni; l’apporto di musicologi e critici “militanti” alla causa del regime; il rapporto tra Winifred Wagner e Hitler; la stretta del regime sui suoi artisti; il tentativo di ricostruzione di un moderno (e allineato) panorama musicale tedesco; infine, l’esperienza musicale nel sistema concentrazionario.

 

Tutte ottime premesse per un’ennesima appassionante lettura…

Nei “Racconti di Odessa” la vita di Bàbel’.

Giulio Gasperini
AOSTA – Innegabile come la vita personale possa diventare materia di racconto. Per gli scrittori tutti codesta è la fonte prima di ispirazione: il lievito madre da cui plasmare storie, vicende da architettare e dipanare. Isaàk Èmmanuìlovič Bàbel’ rappresenta forse una delle massime applicazioni di tale concetto e uno degli esempi più palesi. Nato nel quartiere di Moldavanka, a Odessa, fu perseguitato aspramente e violentemente dal regime di Stalin; fucilato nel 1940, tutti i suoi manoscritti erano stati in precedenza sequestrati e distrutti. Ciò che resta di Babel’, come i “Racconti di Odessa”, pubblicati da Voland nel 2012 con la traduzione di Bruno Osimo, hanno piuttosto come argomento e tematiche gli anni della sua adolescenza, trascorsa nella più totale libertà del quartiere ebraico della Moldavanka, palcoscenico privilegiato di trame e vicende che, già di per sé stesse, costituivano dei copioni narrativi irresistibili per chi, come Bàbel’, possedeva la vocazione alla scrittura.
L’umanità che prende vita negli intensi racconti è quella dei bassifondi, dei trafficanti, dei contrabbandieri che tramano, fanno e disfano per la pura gioia dell’evasione, dell’effrazione della legge, della sua indipendenza. Tra tutte, si erge la figura del giovane Benja Krik, non a caso chiamato “Il Re” per la sua tracotanza e la sua intraprendenza di comando. Nei racconti di Babel’ tutto il quartiere partecipa all’azione, in un esempio di sociabilità che trascende qualsiasi modello di perfetto socialismo ideale e “sociale” (se il bisticcio non fosse troppo pretenzioso). La condivisione, prima di tutto. Ma non solo condivisione; anche co-azione e co-operazione. Non c’è mondo che esista, per Bàbel’, se non c’è l’unità delle sue parti: un’unità, ovviamente, che non può essere imposta né totalmente e inappellabilmente paritaria, ma un’unità che sia a livello di azioni; che situi, insomma, tutti i partecipanti in una coralità ricca ed esuberante.
E proprio l’esuberanza è la chiave, anche stilistica, di questi racconti. La scrittura di Bàbel’ non è cristallina, né limpida. È una continua ricerca di iperboli, di collegamenti che si espandono all’infinito, un incessante rincorrersi di sottrazioni da cui dedurre il risultato finale. La ricerca non è mai semplice, è sempre un continuo mettersi alla prova, sentendosi guidati e condotti da un burattinaio che ci deride col suo stile ricco di tranelli e preziosità difficili da masticare. Perché spesso è il paradosso l’unico elemento che riusciamo chiaramente a distinguere: e ogni paradosso nasconde persino un fondo di realtà che, nel contesto narrativo e stilistico di Bàbel’, pare quasi diventare l’elemento meno importante.

Dove si sente cantare “il suono del suo nome”.

Giulio Gasperini
AOSTA – La luce, il tempo, la pietra: sono queste le dimensioni privilegiate per le quali Cees Nooteboom parte alla scoperta del mondo islamico, durante vari anni. “Il suono del suo nome”, edito da Ponte alle Grazie nel 2012, è un collage di racconti e incantevoli poesie che sorprendono e cristallizzano istanti, attimi, momenti sorpresi in ogni istante del giorno e della notte. Mai realmente turista, Nooteboom ha saputo trasformare l’esplorazione e il viaggio in una vera e propria arte, in una declinazione di pura narratività. E sicché accade che i nomi – Marrakech, Atlante, Tangeri, Isfahan – scontornino i loro bordi, i limiti della loro realtà e concretezza, e si profumino di spezie, si squadernino di spazi indefiniti, si allunghino di dolci ombre: i nomi perdono la loro importanza geografica, si estraniano da una carta, e si giustifichino non in virtù del loro aspetto ma per la società che li popola e che, in loro, costruisce un confronto e un’unione.
Le piccole, intense incursioni di Nooteboom nel mondo islamico diventano squarci di anima, indagini affilate e potenti delle tante sfaccettature dell’intimo. La ricerca diventa ancora più efficace, in tale contesto, perché “è un paesaggio senza distrazioni, senza decorazioni”; un paesaggio essenziale, dove “il cielo è freddo e brilla di stelle”. La consapevolezza dell’essere umano trova molte strade, nelle descrizioni di Nooteboom; la realtà tangibile, l’abilità degli artigiani, la perizia dei loro mestieri, la sacralità delle tradizioni si filtrano attraverso la coscienza di un uomo che non è semplicemente viaggiatore ma peregrino in ogni terra, dalla Spagna all’India, alla ricerca del significato più vero, quello più genuino, quello che si smarchi dai luoghi comuni e dai pregiudizi dilaganti. E il percorso, senza la pretesa di giungere a una verità suprema, a una descrizione che sia anche racconto metafisico e univoco, comincia a svelare le bellezze e il rischio di fraintenderle. Si scopre, così, che l’aridità della pietra è necessaria per comprendere la bellezza, la sua unicità se nasce in un luogo dove nessuno l’attenderebbe e dove accoglierla è un atto di ribellione; e si scopre che la bellezza inevitabilmente consente di accettare la durezza, la ruvidezza, l’aridità, ovvero una parte innegabile dell’esistenza umana: “Dopo la pietra capisci la rosa, dopo la rosa sopporti la pietra”. È proprio il deserto la dimensione che più riduce l’uomo e lo ridimensiona nei suoi fragili e ridotti confini, che lo lascia esterrefatto al cospetto della sua nullità, della leggerezza del suo respiro, della permeabilità della sua ombra: “E quando ci giriamo, vediamo quello stesso vento cancellare subito i nostri passi insignificanti. Non siamo mai stati qui”.
L’avventura di Nooteboom, però, intenzionalmente non mira ad arrivare a una soluzione, non aspira consapevolmente a descrivere oggettivamente quello che si vede, quello che si tocca, si sente, si odora: “Io preferisco la sensazione del mistero alla certezza della soluzione”.

“Un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Saper raccontare storie è un dono; un’abilità che, come le Mille e una notte insegnano, può persino salvare la vita. E sicuramente offre un’opportunità inestimabile di non perdersi ed esser ricordati. Karen Blixen sapeva raccontare storie. Sapeva costruire personaggi. Sapeva calibrare dialoghi, ricchi ma essenziali, dove neppure una parola – neanche una virgola – era fuori posto, né superflua. E uno dei massimi capolavori della sua arte di tessitrice di storie è senza dubbio “Il pranzo di Babette”, scritto nel 1958.
Babette è una misteriosa donna francese che, fuggita dalla Parigi dove era fallita la scommessa rivoluzionaria della Comune del 1871, si rifugia in un fiordo della Norvegia, assente anche dalle carte geografiche; lì, indirizzata da un suo conoscente francese, il noto cantante d’opera Achille Papin, va a cercare aiuto da Martina e Filippa, due anziane signore, figlie di un famoso decano protestante che, negli anni addietro, aveva fondato un movimento religioso di grande successo.
La vita di Babette si cristallizza così, per più di dieci anni. Mai un evento a rompere la quiete sonnolenta del borgo, mai un incontro, una parola che non fosse strettamente necessaria, mai un ricordo della sua patria, la Francia lontana, dove aveva perso tutti i suoi cari e il suo misterioso lavoro. Ma ben presto arriverà il momento, anche per Babette, di tornare a brillare, anche solo per un istante.
La storia di Babette è una deliziosa metafora della vita dell’artista, declinata – come non avrebbe potuto fare altrimenti – nella figura di una donna. Babette è cuoca: a Parigi era stata chef, caso quanto mai raro a quei tempi, e lavorava nel ristorante più rinomato della città. La sua creatività, il suo estro culinario (che si confonde con quello artistico) le avevano persino fatto creare dei piatti nuovi, assolutamente unici, inconfondibili. E sono quegli stessi che il generale Lowenhielm – l’unico a portare un po’ di colore ed emozione alla riunione dei puritani – riconosce e attraverso i quali si smarrisce ricordando il suo passato di giovanotto, quando i piaceri terreni erano i soli a esser ricercati ma anche quando la speranza per il futuro era la premessa della felicità.
Spenderà tutti i soldi vinti in una lotteria, Babette. Li spenderà perché è l’unico modo, quello, per poter tornare a essere la grande artista che era, un tempo; quella che riusciva a rendere felici gli uomini con i suoi pranzi; quella che, costretta all’esilio, non smette di essere un’artista ma sente sempre il bisogno, quasi un imperativo morale, di poter dare sempre il massimo; perché “un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

Negli “African graffiti” l’unicità d’un continente.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non si può raccontare l’Africa se si prescinde dalle persone. Forse nessun altro continente, come l’Africa, affida ancora la sua storia a quelle singole degli individui: lì non esiste, almeno fin adesso, l’idea del destino comune, della meccanizzazione dei destini, dell’inviolabilità del futuro. Forse perché in Africa il futuro ha ben poca importanza in confronto all’adesso, a quello che sta accadendo nell’attimo in cui si parla. E anche perché le incognite, le variabili, non sono preventivate: l’uomo non può immaginarsi ogni casualità, ogni possibile futuro; perché allora doversene preoccupare?
“African graffiti”, la raccolta di storie di Marco Aime, edita da Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri (2012), è tutto questo: una galleria di volti, di persone, di nomi precisi, di gesti identificabili. Marco Aime, nei suoi lunghi anni di studio come antropologo delle terre africane, sa che non si può parlare di futuro, per l’Africa, in termini universali, generici. È troppo grande, l’Africa; è troppo composita, varia, multiforme. L’unico modo per capire l’Africa è cercare di capirne i singoli frammenti, i tanti tasselli che la formano. L’Africa ancora non è collettività anonima, industriale, riconducibile a calcoli matematici ed economici. L’Africa è ancora un intreccio e un collegamento di comunità, di nuclei umani. Sicché l’umanità è qualcosa da cui non si può prescindere per descriverla e per capirla.
A cominciare dall’unicità dei cartelloni pubblicitari e delle insegne commerciali: “Sono dipinte a mano, ognuna con un suo stile, colori suoi. Al contrario delle nostre insegne standardizzate, che rimandano a marchi industriali, queste sono dei veri non-loghi, perché sono estremamente personalizzate. Non ce ne sono due uguali”. L’Africa è così, proprio come le sue insegna: è la terra per eccellenza del no-logo, della personalizzazione, dell’esclusività. È una terra dove ancora alcuni valori riescono a sopravvivere, dove ancora si ascolta e dove ancora l’uomo non è soggiogato al tempo incalzante e prepotente.
E la galleria di ritratti che Marco Aime ha messo diligentemente insieme ci conferma tale sensazione. Lui stesso è consapevole di quanto il suo lavoro possa apparire inutile e sterile, di quanto corrompa il pensiero e di quanto si rischi, insistendo, di perdere la meraviglia dagli occhi e dalla mente, non lasciandosi più sorprendere da nulla e attendendosi già tutto. Ma è anche consapevole, Marco Aime, che l’Africa sa sempre come riprendersi la rivincita e come offrire sempre un nuovo motivo, un nuovo gesto, un nuovo sguardo, per far sorprendere, per rimanere ancora una volta senza fiato, e chiedersi qual è quel potere che incatena l’uomo. Che fa stancare dell’Africa il secondo giorno che vi si sbarca ma che la fa mancare, perdutamente, già al secondo giorno del rientro in Italia.

“Verdi colline d’Africa”: vanità di vanità.

Giulio Gasperini
AOSTA – A Hemingway, si sa, garbavano i fucili; a tal punto da usarne uno per spararsi e decidere di morire, nel 1961. Fino a qualche anno prima li aveva usati soprattutto per l’altra sua grande passione: la caccia, quella grossa. E in “Verdi colline d’Africa”, del 1935, codeste sue passioni sono esaltate come in nessun’altra sua opera.
Piuttosto anomala nel panorama della sua produzione, “Verdi colline d’Africa” è la descrizione del primo safari a cui lo scrittore partecipò, nel 1933, nella regione del Lago Manyara, ora Tanzania. Ernest amò l’Africa; quella stessa così magistralmente narrata da Karen Blixen, alla quale pare proprio il vecchio Hemingway aver soffiato il premio Nobel, nel 1954 (e alla quale il cavaliere Ernest si sentì in dovere di riconoscerne, almeno idealmente, il merito). L’Africa fu ispiratrice anche di altri testi hemingwayani, soprattutto racconti brevi, ma questo “Verdi colline d’Africa”, nonostante continue stroncature da parte di critici e altri scrittori, è degno di menzione, perché appare subito diverso, nel risultato, da quelli che sarebbero potuti essere gli intenti. Non è, infatti, un resoconto: ben poco ha di cronaca e di narrazione diaristica; pare piuttosto un’esercizio di analisi, quasi psicoterapico, dove ogni ritratto che ne è tratteggiato risente delle intermittenze del cuore e dove ogni episodio, ogni singolo avvenimento, rappresenta ben più della pura e semplice comprensione letterale.
Il buon vecchio Ernest si sente frustrato perché gli altri caccian bestie più grosse delle sue; perché l’amico (o presunto tale) porta al campo delle corna che son più grosse di quelle sue. Ebbene, Freud si sarebbe divertito da pazzi leggendo questo resoconto di battute di caccia grossa, esplorando il non-detto, il sottaciuto e le pretese palesi dell’irrazionale. E finanche noi un po’ ci divertiamo; e ne (sor)ridiamo, persino un tantino compassionevoli. Perché il buon vecchio Ernest ci credeva davvero, in quel che faceva: nell’energia che spendeva a furia di far meglio dell’altro, di cacciare qualcosa di meglio, di sparare proprio nel punto giusto. E che terribile giorno fu quello nel quale perse la bestia già colpita ma più lesta o semplicemente più furba, che sparì e non si fece più ritrovare, preferendo magari morire nella dignità della solitudine.
Sarebbe troppo facile dire ‘povere bestie’! No, qua c’è molto ma molto di più. C’è la confessione d’un uomo che, novello Sant’Agostino, non trova di meglio, per, appunto, confessarsi, che sterminare una buona porzione di fauna africana. Eran tempi in cui si poteva fare. E adesso se ne pagan le conseguenze; sicché le colline in Africa saran pure verdi, però dopo che c’è passato Hemingway son sicuramente un po’ più disabitate.

Una donna “Nel paese dei briganti gentiluomini”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il suo è uno di quei nomi che riempiono la fantasia e che garba palleggiare in bocca, far esplodere in fondo alla gola: Alexandra David-Néel. Il suo è il nome di una donna che rappresenta l’avventura, prima ancora di un’emancipazione femminile che non conobbe forse esempio migliore. Alexandra fu golosa di strada; il richiamo del cammino, degli orizzonti sempre nuovi, delle terre da scoprire e battezzare fu un canto irresistibile, un imperativo improrogabile. Mai nascose i suoi bisogni dietro imposizioni altrui, né opinioni o pregiudizi: quando, nel 1911, partì per l’Oriente, lasciò il marito con una semplice lettera. Voland ha riproposto, recentemente, “Nel paese dei briganti gentiluomini”, che racconta il primo tentativo di Alexandra di raggiungere Lhasa e viaggiare attraverso il Tibet, dove ancora nel 1920 nessun occidentale aveva mai messo piede; tantomeno una donna.
La descrizione che Alexandra fa dei luoghi attraversati e la narrazione della sua avventura trasmettono prepotentemente tutta la sua passione per l’oriente, per codeste terre avvolte nel mistero, dove lo spirito d’adattamento deve primeggiare e nei quali l’arditezza e il coraggio non erano mai troppe. Puntuale in ogni dettaglio, attenta a spiegare ogni nuovo concetto e ogni parola mai pronunciata dagli occidentali, Alexandra si palesa anche come abile insegnante e come puntuale divulgatrice. Non c’è sguardo imparziale, nella sua visuale; c’è il punto di vista di una donna uguale a nessun’altra che sa, conosce e quel che ignora lo vuole presto imparare, così da non sentirsi mai impreparata di fronte a nulla che le possa accadere. Il cammino della pellegrina Alexandra attraverso le terre inesplorate e avverse è descritto e significato soprattutto attraverso gli incontri, le tangenze di persone, le frasi e le parole scambiate: la lungimiranza della sua visione umana e cosmopolita, in una sorta di pacifica globalizzazione culturale e sociale, sorprende e fors’anche un po’ spiazza. Ma la saggezza che si distilla da questo racconto è il tratto distintivo di una donna la cui vita stessa è un racconto appassionante di avventura. Dal 1914 al 1916, ad esempio, mentre il mondo sprofondava nel delirio e nella furia della prima guerra mondiale, Alexandra praticò esercizi spirituali in una caverna in Sikkim e nel 1921, all’età di cinquantatré anni, riuscì a entrare a Lhasa, travestita da pellegrino tibetano.
Desiderosa di vita vagabonda, Alexandra viaggiò, studiò, scrisse. Seppe come dar senso alla vita, come far gemmare una passione, come trasformare il viaggio in una forma sorprendete e superiore di cultura. E, per concludere l’epica, visse fino a cent’anni.