Giulio Gasperini
AOSTA – Rebecca West ha opinioni chiare e forti: “Continuo a pensare al matrimonio con grande paura e orrore. Non è che non mi piacciano gli uomini. Mi piacciono molto. […] Eppure sento che il matrimonio, l’ingresso in un sodalizio con un uomo, permanente, pubblico e favorito dallo Stato, sia l’atto più sconsiderato che esista”. La dose è rincarata: “Quando sento che una mia amica sta per sposarsi, provo per lei un dispiacere sincero. Quando un uomo mi chiede di sposarlo, mi sento ferita e imbarazzata. È come se mi avesse presentato qualcosa di simile a un’ingiunzione fiscale – un espediente ufficiale per ridurmi in miseria”. Le parole bastano a spiegare e autogiustificarsi: “Non è che non mi piacciano gli uomini”, curato da Francesca Frigerio e edito dalla Mattioli 1885, raccoglie un racconto lungo e un saggio nei quali la scrittrice britannica discetta su matrimonio e sue conseguenze. Per questa istituzione borghese la West non ha certamente parole dolci: “”Il pregiudizio che ho iniziato a nutrire da giovanissima verso il matrimonio mi impedisce di accettarli senza opporre una disperata resistenza”. Pregiudizio, ammette lei stessa; ma non si può certo dire che le ragioni, le motivazioni attraverso cui il suo attacco procede non siano né motivati né verosimili. La West sa quello che dice e, prima ancora di tutto il resto, lo sa comunicare in maniera cristallina e disarmante.
Nel racconto che apre il volume di Mattioli 1885, “Matrimonio indissolubile”, va in scena la rappresentazione grottesca di un’avventura matrimoniale: c’è un marito che odia la moglie, che odia il loro vivere borghese, che detesta il susseguirsi monotono e vuoto di giorni scanditi dalla routine del quotidiano; e inoltre pensa che lei lo tradisca, come nelle migliori favole coniugale; ma lei non lo sa, o forse preferisce ignorarlo. E l’unico modo che il marito trova per liberarsi della compagnia ingombrante della moglie è quello di ucciderla. La scena assume subito contorni onirici, una specie di visione che conserva, però, un’inquietudine e un morboso accesso voyeuristico di violenza. L’accelerazione è aggressiva; la descrizione dell’omicidio ossessiva. Ma la sorpresa è che tutto accade in sogno, in un’accelerazione all’odio e alla fissazione che scardina l’amore e il mutuo soccorso coniugale. Il risveglio è nel letto, nella culla della quotidianità matrimoniale, dove le coppie finiscono maggiormente per ignorarsi, ma dove si salva almeno il concetto di sponsale.
Nel saggio, invece, Rebecca West offre la chiave interpretativa per capire la sua vita e per comprendere l’ostilità profonda al vincolo coniugale. Nella sua avventura argomentativa si serve anche del Vangelo e prende in esame l’episodio della Samaritana: “Avevo capito che quando Gesù aveva incontrato la samaritana, si era addolorato perché aveva avuto cinque mariti, ma non mi era mai venuto in mente che il motivo del Suo dolore fosse il fatto che la donna aveva condotto una vita dissoluta […]. Pensavo che fosse arrabbiato perché la donna aveva gettato via la felicità prendendo un marito, il che ovviamente significava che era diventata povera, aveva dovuto fare dei lavori che le rovinavano le belle mani, indossare abiti brutti e distruggere se stessa, e perché poi non aveva capito quale fortuna le fosse capitata quando il marito era morto o se n’era andato, e se n’era addirittura preso un altro”. La sua conclusione è drastica, parole che non potrebbero esser più chiare con nessun commento: “Era come andare in bancarotta per cinque volte o finire in prigione per cinque volte per un crimine che si poteva tranquillamente evitare di commettere: una caparbia ricaduta nello squallore”.
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“Senza rete” per affrontare le nuove epoche.
Giulio Gasperini
AOSTA – La parola poetica è un grimaldello: forza le serrature e apre nuovi orizzonti. Nella silloge di Fiorella Carcereri questo compito è evidente: seppur con significanti quotidiani, semplici e piani (“La mia parola è chiara / ma il tuo cuore la rifiuta”), si cerca di far perno sul significato per scardinare quello che altrimenti rimarrebbe serrato. In “Senza rete”, edito da Edizioni Ensemble, palese è il tentativo di dare importanza e vigore alle parole, anche tramite figure retoriche di ripetizione e ridondanza, soprattutto anafore (“Angelo”), ma anche tramite un continuo confrontarsi di piani temporali diversi e consecutivi (“Ieri, oggi e domani”) e la contrapposizione di opposti aspetti che sottolineano lo stridore e innestano il dubbio: “Decelerazione, / accelerazione, / decelerazione, / accelerazione…”.
Le due parti in cui è divisa la silloge danno l’immediata cifra interpretativa dell’esperienza della Carcereri: “Tu ed io” e “Io e il resto”, in un chiasmo a distanza, stabiliscono il punto centrale della sua ricerca – l’Io – (come in ogni tradizionale ispirazione poetica), mentre i due poli opposti ma complementari rimangono “l’altro”, un interlocutore col quale sempre ci si rapporta e ci si confronta, e “il resto”, dalle varie e complesse accezioni e declinazioni.
Il rapporto col “tu” è altalenante, fatto di avvicinamenti e di allontanamenti, di richiami e di separazioni: “Sembrava un altro addio, / sembrava l’ennesimo addio, / ma le nostre due anime / sono legate / da un moto perpetuo / di andata e ritorno, / di alta e bassa marea”. Il tu esiste, quasi carnale nella sua prospettiva di futuro, nella sua analisi del presente, nel suo ricordo del passato, (“Dimmi come riusciremo / a non essere / uno di questi amori sbagliati”) ma spesso si allontana, se non addirittura fugge, disertando il campo di battaglia e scomparendo nella latitanza: “Ora so che alcuni ricordi / sbiadiscono / o scompaiono del tutto.. / Penso sempre a te, / per saperti con me”. E il poeta rimane in bilico tra rimpianti, rimorsi e la sicurezza di aver ben agito, in ogni caso: “Basta / un’incomprensione / a farci capire / cosa sarebbe la vita / senza di lui. // Fiamma mai spenta. / Solo sopita”.
Il confronto con “l’altro”, invece, nell’esperienza della Carcereri, sancisce l’opportunità di dar vita a una poesia sociale che, com’è evidente negli ultimi tempi, ha oramai perso la sua identità e non riesce più a trovare una chiave espressiva valida e importante. Nel prevalente ripiegamento erotico-amoroso della poesia contemporanea, la carica sociale della poesia si riscopre, in questa silloge, ancora interessata a emergere. Sicché ecco comparire poesie dalle immagini rassicuranti e conosciute, come “Armadio di vita” o “Fari e lucciole”, che si caricano soprattutto di una tensione umana e universalistica: “E poi compro tre calle ad una bancarella, / ne osservo incantata / l’assurdo candore / e mi chiedo / come sia possibile / tanta bellezza / in altrettanta semplicità”.
Non sempre è agevole, né esaustivo, il tentativo di perforare la superficie e di approdare al “porto sepolto” di ungarettiana memoria: il movimento discendente è la somma aspirazione di tutti coloro che con la parola poetica si confrontano e giocano anche se non tutti raggiungono il punto estremo, l’approdo definitivo. La Carcereri sceglie la via della parola piana, dell’immagine rassicurante: quasi una forma di contrappasso per il nostro mondo frenetico e inquietante.
“I nipoti di Scanderbeg”, verso l’Italia, alla ricerca dell’America.
Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1991. A marzo ne giunsero 27.000. Ad agosto 20.000 tutti su una sola nave partita da Durazzo. In quei pochi mesi la Puglia, e Bari in primo luogo, furono il teatro di uno sbarco di massa. Tanti albanesi, soprattutto giovani uomini, fuggivano dalla loro patria, perseguitati dalla mancanza di libertà, dal bisogno di un lavoro, dalla povertà asfisiante prodotta da anni di repressione di Enver Hoxha e del suo regime. Artur Spanjolli si trovava su quella nave, la Vlora, conquistata nel porto di Durazzo, che rappresentava una breccia inattesa per partire dalla disastrata Albania con nei pensieri soltanto l’Italia, l’Europa, la libertà e la ricchezza. In “I nipoti di Scanderbeg”, edito dalla coraggiosa casa editrice Salento Books, Artur Spanjolli ricostruisce quel lontano giorno d’estate, quando si trovava con gli amici in spiaggia, in pantaloncini e ciabattine, ignaro del destino che avrebbe provato a forzare, intraprendendo una rotta difficile e nemica.
L’Italia, per molti anni, dall’altra parte dell’Adriatico, era stata immaginata come l’America. Il luogo dove tutti i sogni si realizzano; dove si mangia; dove si diventa ricchi; dove si può pensare a un domani migliore. Dove poter fuggire un destino avverso e crudele. La televisione, i programmi con Pippo Baudo, le ostentazioni di merci e prodotti: chi potrebbe resistere a insistenti canti di sirene? A perfette e sfacciate fate morgane? Quelle che nel deserto allettano (e ingannano) gli assetati. In tanti partono, sfidando prima di tutto l’esercito albanese, poi le loro ansie, le paure; abbandonando gli affetti, la sicurezza dei parenti, la familiarità del suolo natio. L’esilio è il destino di tanti: decisione sofferta e dolorosa, frustrante e selvaggia. L’incredulità ferisce, però, quando il tentativo non riesce e dall’altra parte c’è il rifiuto, il respingimento.
Perché così accadde in Italia, in quei lontani giorni assolati. E così minutamente lo descrive Artur Spanjolli nel suo romanzo che è crudele e amara autobiografia. L’Italia non li volle; il Governo, in ritiro estivo a Cortina (premier era Andreotti, tanto per cambiare), non seppe darsi coraggio e preferì contravvenire alle regole del diritto d’asilo: tutti imbarcati su un aereo, a turno, e riportati al loro paese, dalla geografia così vicina ma dalla vita sì remota. E non importava se tra i tanti albanesi ci fossero perseguitati politici, ragazzi in pericolo di vita, disperati senza nessuna prospettiva. Tutti dentro il ventre di un aereo e tutti di nuovo indietro. “I nipoti di Scanderbeg” fa riflettere su uno dei drammi più evidenti dello scorso secolo; instilla in noi il dubbio di cosa sia un’accoglienza vera, di quali siano i bisogni dell’uomo, di cosa si possa fare per rispondere. Artur Spanjolli non ha parole di condanna, per l’Italia. Quanto, piuttosto, di incredulità. Dov’è l’Europa? Dove la libertà? Dove i diritti? Dove la dignità umana? Dove la sicurezza, la protezione, il rispetto della vita? Accanto ai tanti gesti di umanità, a cui lui stesso assistette e ne fu il beneficiario, si schiera un campionario di assurdità: non ci si stupisce, però, che questi ultimi siano esclusivamente riferiti ai responsabili e ai detentori del potere. Politico, in primis.
“Le cose brutte non esistono”: i punti di vista che frantumano lo specchio.
Giulio Gasperini
AOSTA – Ci guardiamo allo specchio e siamo sicuri dell’immagine che ci rimanda. Ci siamo noi: coi nostri inattesi capelli bianchi; con le nostre occhiaie; coi nostri dubbi. E poi capita che guardiamo gli altri riflessi allo specchio e, si sa, che tutto cambia. Tanti ne hanno scritto, tanti ne hanno discettato, tanti ci han speculato. Ognuno di noi ha la sua prospettiva e difficilmente due ritratti indiretti arrivano a combaciare. Anche solo di qualche dettaglio. Riccardo Romani scrive un delizioso romanzo, “Le cose brutte non esistono”, pubblicato in un’edizione raffinata – ne rendiamo merito – dalla 66thand2nd nel 2013, incentrato sul tentativo compiuto da un ragazzo mediocre – detto, anni fa, inetto – nel tentativo di smarcarsi dall’ombra incombente di un padre incomprensibile e ingombrante. Ma la sua ricerca si scontra con l’evidente risultato di un fraintendimento enorme, colossale: il padre è un eroe. Un imperfetto eroe.
Quell’uomo che portava a casa ragazze sempre diverse, che arrivava e ripartiva accompagnato da un uomo altrettanto misterioso ma più comunicativo di nome Alfonso Duro, che ignorava la moglie con una precisione maniacale, che evitava ogni affettuoso approccio col figlio e, anzi, lo puniva anche fisicamente, accusandolo di essere gay, per la sua timidezza e ansia da prestazione. Quell’uomo che in ogni immagine si figura tiranno e dominatore un giorno muore. E la sua morte spalanca un’urgenza di sapere, un bisogno di conoscere che porta il ragazzo a volare dall’altra parte del mondo, all’inseguimento di una ragazza dalle poche parole e dalla storia confusa. Era stata proprio la fuga con lei che aveva sancito la misura più alta di ribellione dal padre: lei, destinata a mandare avanti la tabaccheria di famiglia nel paesino dove vivevano, aveva subito esercitato sul ragazzo un’attrazione irresistibile, per qualche motivo apparentemente ignoto. La verità sarà ricercata in modo anche casuale, randomico, nello scenario degli Stati Uniti del Sud, assolati e aridi. Sarà un libretto del 1995 a fare un po’ di luce, di chiarezza, in una vicenda che è un continuo e altalenante allacciarsi di rapporti, di amicizie e di contrasti.
Il romanzo è tutto in sospensione e sottrazione; nulla è chiaro fino in fondo e non è dato capire appieno la direzione verso cui si sta andando. La luce della risoluzione del mistero è lasciata filtrare a gocce, lentamente, come sabbia in una clessidra. Ma lo sguardo non raggiunge mai l’insieme perché sono i dettagli a stabilire le giuste calibrature. E i dettagli ci suggerisco che, come per gli sguardi, possono sempre rappresentare troppi significati tutte assieme.
Vedi QUI il booktrailer de “Le cose brutte non esistono”
“A cuore aperto”: la confessione di un uomo tradito da sé stesso.
Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono delle volte in cui è il tuo stesso corpo a tradirti; come se si ribellasse al tuo volere; come se non avesse nessuna remora, nessun pudore di colpirti a tradimento, quando di situazioni ne hai affrontate di ben più gravi e pericolose. E ti senti forse anche più indifeso, in pericolo. Perché oltre alla vita rimetti in gioco la fedeltà a te stesso. Questo “A cuore aperto”, edito da Bompiani nella collana Grandi PasSaggi, è la storia di un uomo che scopre la paura di morire. E si sorprende. La storia di Elie Wiesel è nota: deportato ad Auschwitz e a Buchenwald, autore dello straordinario “La notte”, premiato con il Nobel per la pace nel 1986. Dopo una vita così, si potrebbe anche pretendere di sentirsi al sicuro, oramai, dai colpi della sorte e dalle coincidenze del caso. E invece no, perché a compromettere la sicurezza e la pace questa volta è una parte del proprio corpo: il cuore cede. Quasi d’improvviso; o comunque in maniera sorprendente. I guai si cercano altrove, in altri organi, e invece è la pompa che non funziona bene e che danneggia tutto il resto.
Sicché il ricovero in ospedale, un’operazione che tutti prospettano con una sicurezza chirurgica ma che si sa quanti rischi comporta (e dalla quale qualcheduno non si è mai più risvegliato), la dolorosa convalescenza sono i pretesti per rimettere tutto in discussione, come se i bilanci non fossero mai definitivi e ci fosse sempre qualcosa su cui riformulare il giudizio e ricalibrare il significato. Elie Wiesel passa così in rassegna tutti gli aspetti della sua vita, tutte le declinazioni del suo impegno, della sua ostilità all’indolenza e all’accidia, con la consapevolezza che “se Auschwitz non ha saputo guarire l’uomo dal razzismo, che cosa potrebbe riuscirci?”: l’insegnamento, che tanto ama e che deve lasciare interrotto; il suo impegno “contro la banalizzazione di Auschwitz”; la rassegna delle sue opere, da “L’oblio” a “Ani Maamin”; il tema della Bufera, chiamata così in montaliana memoria; il rapporto con Dio (“Troverò l’audacia di rimproverarGli il suo incomprensibile silenzio?”); il legame di profondo amore con la moglie e con il figlio che lo assistono indefessi al capezzale.
Elie Wiesel depone l’orgoglio, il pudore virile e affronta quest’ennesima avventura svelando tutte le sue debolezze, i suoi tremori, le sue angosce di avere a che fare con un nemico che lo spaventa, perché non dà certezze; ma soprattutto che disarma proprio perché nemico che proviene dall’interno del sé: “Ritenevo che la morte non mi spaventasse. Non ero vissuto con essa, e anche in essa? Perché temerla adesso?”. Non teme neppure di scadere nel patetico e nello sdolcinato, di virare verso una presunta saggezza strappalacrime. Perché Elie Wiesel è solo un uomo e questa volta deve combattere contro il suo stesso corpo.
“Madam Butterfly”: la donna che attende e poi decide.
Giulio Gasperini
AOSTA – La storia è quella nota dell’opera lirica di Giacomo Puccini, del 1904. L’aveva scelta perché affascinato dalla tragedia di David Belasco, vista a Londra. Fu la sua prima “opera esotica”, sulla scia di un entusiasmo per l’Oriente che stava contagiando tutte le arti della vecchia e stanca Europa. Fu nell’apoteosi del sacrificio femmineo dell’opera che la gloria di Madama Butterfly, ovvero la gheisa Cho-Cho-San, raggiunse l’acme della notorietà, la consacrazione nell’olimpo delle figure straordinarie delle arti. Ma forse in pochi sanno che l’origine dell’opera (e della tragedia) è una novella, di John Luther Long, edita nel 1898, che Avagliano editore ha ripubblicato nel 2009 nella collana “La straniera”. E forse in pochi sanno che la novella ha un finale agli antipodi della trasposizione operistica.
La novella di John Luther John ha degli aspetti che ancora la mantengono valida e preziosa, nonostante l’ipoteca di Puccini sulla storia e sulla figura della geisha lontana: il ritratto di Cho-Cho-San, nella novella, è fresco, leggero, soave. Fuori da complesse macchinazioni psicologiche, più facilmente riscontrabili nella tessitura di musica e parole, Long ha saputo in poche pagine plasmare un ritratto femminile di inaudita potenza e complessità, pur utilizzando sempre uno stile e un linguaggio semplici e diretti. Lo scarto tra la Cho-Cho-San di Long e la Madama Butterfly di Puccini si consuma tutto alla fine della vicenda, nel momento in cui i destini delle due trovano soluzioni diverse.
Cho-Cho-San si concreta come il paradigma della donna perennemente in attesa, della donna illusa, della donna rimasta bambina nel mito di un uomo che la possa amare, che la tratti come una regina, che la conservi al riparo dal mondo crudele che sta al di fuori delle mura domestiche. Come se codeste mura fossero il luogo più sicuro del mondo: ma già ai suoi tempi, nei suoi luoghi remoti ed “esotici”, le più atroci violenze si consumavano proprio all’interno della famiglia. Cho-Cho-San di famiglie ne avrebbe perse due: quella dei suoi familiari, della sua stirpe, della sua gente che la condanna per aver cercato di contravvenire a leggi ataviche e tradizionali. Si è innamorata di un uomo straniero, di un dominatore, di un invasore. Con lui ha concepito un bambino. Non si può meritare altro che l’abbandono, l’esilio. Ma Cho-Cho-San perde anche l’altra famiglia, perde il suo amore, proprio lui che l’ha allontanata dall’altra famiglia. Il destino di Cho-Cho-San pare segnato, pare dettato e condizionato dalla sofferenza, dalla colpa, dalla menzogna.
Ed è qui che John Luther Long rende Cho-Cho-San moderna, progressiva, orgogliosa e indipendente: si avvicina la decisione del suicidio, estrae la spada, “l’unico oggetto, fra tutti quelli appartenuti a suo padre, che i suoi parenti le avevano concesso di tenere”, si colpisce il petto, “il rivolo di sangue che le era sceso nel seno divenne di una tinta più scura e si arrestò”. Cho-Cho-San decide di vivere: decide di non concedersi al sacrificio per un uomo che invece di amarla l’aveva violata, insultata, offesa. Si salva grazie a suo figlio, si salva perché una scintilla in lei esplode e l’incendio divampa. Se non proprio simbolo di femminismo e di rivolta al maschilismo imperante, Cho-Cho-San è figura profetica, antesignana di sentimenti che a fine Ottocento eran forse prematuri ma proprio per questo sorprendenti in codesta novella. E così cantò, profetica, anche Fiorella Mannoia: “Ma scapperò via da qui / da questa casa galera / che mi fa prigioniera”.
La poesia che difende la natura. E la natura che nutre la poesia.
Giulio Gasperini
AOSTA – Una casualità, o forse no, una mossa premeditata, ha concesso al 21 marzo tre oneri che, al fin fine, paiono allacciati indissolubilmente: arriva la primavera (e chi non ricorda Zefiro torna e ‘l bel tempo rimena del grande poeta?), e si celebrano due giornate mondiali, quella della poesia e quella delle foreste. In difesa, di entrambe. Ed esiste una donna, una grande donna, che ha coniugato queste due passioni, e utilizza la poesia in difesa delle foreste, dei suoi equilibri naturali, della sua importanza imprescindibile, non tanto per il solo essere umano quanto per la sopravvivenza della Terra tutta. Marcia Theophilo ha individuato nella Foresta Amazzonica il punto focale della sua ricerca poetica, l’altrove migliore da difendere coi versi, col ruolo sociale che la poesia negli ultimi anni ha il terrore di ricoprire. La Foresta è il luogo del parto primigenio, è l’utero del mondo che qui si culla e si nutre, che qui si fa largo verso la luce e la vita, verso il calore e il colore: “Dal corpo contratto, dal pieno del ventre /
dalle viscere, sulle rive tra il fogliame /
sono i profumi della foresta e il sangue /
ad avvolgere il suo corpo: /
l’aiutano, le donne del villaggio /
la selva è una galassia che ascolta il suo vagito /
tra le braccia Kupaùba-albero”.
Ma la foresta è anche il luogo dove tutto muore e tutto torna alla vita, con dolcezza e devozione: “Fiore, tu illumini i miei rami / ai primi ritmi del mattino / canto d’uccelli e di grilli / lontani tamburi – poi cadi e muori / per dare vita al frutto: / la foresta spalanca la sua bocca / nell’umido terreno ti riceve”. La Natura è il luogo per eccellenza della vita, dalla forma più piccola (ma non misera) a quella più grande e complessa: “Non solo gli animali ma tutto in natura ha un’anima, / un’anima alata che lascia il mondo quando sogna. E / sogna sempre luoghi ignoti”.
L’immedesimazione del poeta nella natura diventa completa, un panteismo assoluto e sovrano, che fa del poeta un semplice tramite per i bisogni e le esigenze urlate dalla natura: “Noi alberi viviamo di piogge / di rugiade eterne e delle brume / dei fiumi e degli oceani / di mattutini vapori / e delicate nebbie”. Il poeta è vettore dell’angoscia della foresta; del dolore che troppo patisce a causa degli uomini, della loro fame di ricchezze, della loro bramosia del possedere. Irrispettosi delle esigenze della Terra, devastano e distruggono, estirpano e bruciano, perforano e succhiano: “Albero, da te ho preso il dolore selvaggio / quei lamenti nell’aria, nel fiume / fuggono gli animali dai tuoi rami-rifugio / […] / il tronco annerito dal fuoco cade / […] / Si accende un fuoco che abbaglia, acceca. /
Chi può togliere questa freccia senza punta? / Dove possiamo deporre questo male? / In tutti i luoghi della terra
suoni interferiscono, ricordi di morti. / Il cielo che oggi ti accompagna è senza stelle”. La foresta è anche la Madre Acqua, depositaria della più straordinaria ricchezza della Terra, l’acqua “più preziosa del diamante”; ma anche questa è minacciata, distrutta, devastata insensatamente, per un gioco al massacro che punirà solamente i carnefici: “La pioggia ha sapore amaro / sassi, foglie e nuvole / nuvole carnose / pioggia, perché non sei più dolce come prima?”.
Marcia Theophilo ci suggerisce che dovremmo maturare la coscienza dei nostri gesti, anche indiretti. Non tutti abbiamo le asce in mano, le picche strette tra le dita, i fiammiferi pronti nella tasca; ma siamo muti e omertosi complici di ogni ombra che non esisterà più, perché non ci sarà più nessun ramo. Marcia Theophilo ci mette spalle al muro e ci sprona a maturare la coscienza e la consapevolezza che la foresta è l’unico paradiso terrestre, l’unico vero luogo di riposo e di dolcezze: “Respira: è ancora qui la vita / ancora un poco, continua / respira non fermarti / respira, respira, continua / è ancora qui l’inizio della vita”.
“Destinazione Freetown”: il ritorno all’inizio dell’orizzonte.
Giulio Gasperini
AOSTA – Le persone si spostano, da ogni angolo di mondo sino al prescelto altrove. O anche ad uno casuale. Ma da secoli, da millenni, gli uomini e le donne si incamminano verso altri orizzonti, cercando di indovinare cosa la cura della Terra nasconda al loro sguardo; immaginando per sé stessi, per i propri figli, per le proprie famiglie, una possibilità di cambiare la propria condizione di vita, di migliorare la propria esistenza, di concedere un futuro meno feroce e crudele ai loro discendenti. In “Destinazione Freetown”, l’ennesima pubblicazione nella deliziosa collana “Quartieri” della Becco Giallo, Marta Gerardi e Raul Pantaleo, del progetto Tamassociti, disegnano e narrano la storia di un migrante, Khalid, che deluso dall’Italia, dalla mancanza di lavoro e di prospettive, da una società soffocante e razzista, decide di ripercorrere a ritroso il suo cammino, tornando nella sua terra, coltivando la fiducia e la speranza che soltanto con il lavoro e la presenza sia possibile migliorare una terra e le persone che la calpestano. Decide di affrontare di nuovo quel mare a cui miracolosamente era sopravvissuto, rotta che sempre più spesso, ai giorni nostri, tanti migranti stanno riprendendo, spinti da una crisi irrisolta e da una società che sempre più si rende sorda e cieca ai loro bisogni; decide di lasciare il Vecchio Continente, che sempre più invecchia, e di tornare in un’Africa che si sta svegliando e si sta scoprendo affamata di tutto, dalla cultura al cibo, dal futuro al suo eterno passato.
Ma il cammino di Khalid offre anche la possibilità di incrociare tante umanità eroiche, tanti uomini e tante donne che, nei semplici gesti del quotidiano, rivendicano (più o meno consapevolmente) il loro stato d’esistenza, il loro orgoglio di esser presenti e di poter comunicare qualcosa, di poter imporre un’idea, di poter imprimere una direzione, di poter pretendere di essere – almeno una volta, per un breve istante – ascoltati e considerati ben più del nulla. E nel suo cammino, ancora, Khalid ha modo di incontrare una realtà che riempie d’orgoglio l’Italia: Emergency, con i suoi ospedali, i suoi ambulatori, i suoi centri di alta chirurgia cardiaca in mezzo al deserto furioso e alla devastazione cieca. Khalid ce li spiega, uno per uno: dal Centro Pediatrico di Port Sudan al Centro di cardiochirurgia di Khartoum, dal Centro pediatrico di Nyala al Centro Pediatrico di Bangui al Centro chirurgico di Freetown; sono queste le pietre miliari che accompagnano il cammino contromano di Khalid, e in loro il ragazzo trova la speranza per continuare a sperare in una rinascita dell’Africa e degli africani. Una rinascita che non è assistenzialismo né pietà per assolvere le coscienze e concedere riposi tranquilli e sereni; è un primo passo nella maturazione e nella presa di coscienza di uno stato d’esistenza che nessuna guerra, nessuno sfruttamento, nessun esodo, nessun tiranno potranno mai soffocare. È sempre lì, fremente, palpitante: pronta a rialzare il capo, a risollevarsi e a tentare di rendere l’orizzonte sempre più vicino; così vicino da non sentir più la necessità di partire per non sfiorire.
La supposta modernità di Annie Vivanti.
Giulio Gasperini
AOSTA – Fu scrittrice notevole e famosa, ai suoi giorni. Nella sua figura Annie Vivanti concentrò aspetti diversi e mutevoli: si rese catalizzatrice e caleidoscopio allo stesso tempo di spinte femministe e globalizzanti. La sua storia fu già romanzo e lei se ne rese conto presto, trasformando ogni suo gesto e ogni suo scritto in una rivendicazione o in un manifesto. Fu prodotto di culture diverse, di lingue distanti, di geografie agli antipodi e con risolutezza si assunse la responsabilità di scelte coraggiose e anticonvenzionali, diventando ben più di altre acclamate femministe (un nome su tutti, Sibilla Aleramo), una figura di riferimento (e, per certi versi, di scherno) di chi timidamente stava cominciando a rivendicare un ruolo di maggior importanza e significato. Fu donna dalla scrittura asciutta e dal piglio sicuro, distante da certa enfasi dannunziana ma non completamente esente da ricadute nel sentimentalismo e nella liricità eccessiva d’una certa prosa d’inizio Novecento. Tanto che i generi dove il suo talento brilla con più chiarezza son la novella e il romanzo breve, mentre oramai pare tramontata la fiducia nei suoi versi, attraverso i quali si impose a fine Ottocento all’attenzione della società culturale. I racconti di “Perdonate Eglantina!” testimoniano in maniera paradigmatica i nuovi orizzonti verso i quali la fantasia e la disinvoltura narrativa della Vivanti si spinsero: compare una visione del mondo intercontinentale, con setting e comparse forse mai accolte prima in un testo italiano; si sente prepotente l’influenza della sua cultura britannica e inglese, anche a livello di lingua e utilizzo di lessico; non c’è timore, ma anzi orgoglio, di parlare di donne, descriverle in ogni loro declinazione, offrirle al lettore in vesti e situazioni diverse e complesse, senza mai svilirne l’importanza ma, all’opposto, offrendoci soluzioni alternative di considerazione.
Divertono anche le buffe confessioni di una signorina che si impegna all’inverosimile per “Trovar marito”; affascina e meraviglia lo scambio di identità di due donne che trascorrono le vacanze nel medesimo albergo di montagna in “Celebrità”; non si può che ammirare il coraggio, non sempre sostenuto dalla riuscita narrativa, di un racconto ferocemente autobiografico ambientato nelle desolate terre del West americano, dove Annie si era trasferita col marito John e la figlia Vivien; si nota un po’ d’iniziale satira di “Mrs. Dalloway” nel racconto “Impegni”, che però termina in una prospettica agli antipodi, chiudendosi con un richiamo all’Italia a non dimenticarsi dei suoi veterani residenti all’estero; si cimenta la Vivanti anche con un genere noir, dai risultati non esaltanti, in “Distinta famiglia cerca istitutrice”; interessanti e innovativi sono i racconti “Visita ad una penitente” dove la scrittrice racconta la sua visita a un carcere femminile, descrivendo la condizione delle detenute, e il racconto “Giosuè Carducci”, una rievocazione dolce e malinconica della sua amicizia col poeta, dal giorni in cui si conobbero all’ultimo loro incontro.
Scrittrice trascurata, se non proprio dimenticata; sottovalutata, deve pagare lo scotto di non aver forse mai pubblicato un’opera di estremo impatto ma una serie di contributi che la rendono una scrittrice certo importante alla storia della letteratura italiana. Adesso, un distico di Carducci suggella il suo risposo: “Batto alla chiusa imposta con un ramoscello di fiori / glauchi ed azzurri come i tuoi occhi, o Annie”.
Se, dovendo parlare di letteratura, lo scrittore non parla che del sé…
Giulio Gasperini
AOSTA – Ogni anno, qualcheduno lo deve pur vincere. E poco importa se i papabili e i meritevoli son più dell’unico posto in palio; e ancor meno importa se i pronostici non ci indovinano mai e se anche il Nobel per la letteratura è diventato oramai più un premio politico che di merito letterario. Hemingway non sbagliò quando mandò a dire all’Accademia di Svezia: “Lo scrittore che sappia quali altri grandi scrittori non abbiano ricevuto il Premio più solo apprestarsi a riceverlo con umiltà. Non serve elencarli”. Ma elencarli potrebbe anche servire, per capire come la miglior scrittura non si possa individuare soltanto in un personaggio scelto per ogni anno, tra la massa di scrittori e poeti che popolano il mondo. Pochi son stati coloro che l’han rifiutato, molti son stati coloro che l’hanno vinto a sorpresa, neppure con disinvolti meriti.
Ciascun premio Nobel è anche ‘obbligato’, nel ricevere il premio, a tenere un discorso “a commento dell’essenza della letteratura e della direzione che essa sta prendendo” (cito John Steinbeck nel 1962). Sorprende – ma non troppo – l’appassionata disinvoltura di alcuni premi Nobel nell’, invece, autoincensarsi, nel parlare referenzialmente di sé stessi e delle proprie opere, trascurando il generale e dedicandosi all’odioso (e castrante) particolare. TerrediMezzo editore ha raccolto in un bel volume, “I Nobel per la letteratura si raccontano”, i discorsi tenuti da alcuni dei premiati, da Pablo Neruda a Herta Muller, da J.M. Coetzee a Doris Lessing. Ed è divertente addentrarsi nei loro commenti a un premio che, inutile negarlo, dà prestigio letterario ma soprattutto dà tanto prestigio economico. Pamuk costruisce una storia di tradizione familiare, offrendo come correlativo oggettivo la valigia del suo babbo, carica e colma di fogli scritti e vicende abbozzate; Saramago si offre al lettore nelle vesti di un volenteroso apprendista, che scrive per dar sfogo agli impulsi nati in lui da una realtà feroce e carnivora; Faulkner si autoproclama attuatore di alti impegni morali: “Sento che questo premio non è stato conferito a me come persona, ma alla mia opera, il lavoro di una vita nel tormento e nella fatica dello spirito umano, non per la gloria e men che meno per il profitto, bensì per creare dal materiale dell’animo umano qualcosa che non esisteva prima. Pertanto, di questo premio sono solo l’amministratore fiduciario”. E via, ancora avanti con lo sproloquio. Le parole sane e utili di altri scrittori, come l’eccezionale apologia del “non-lo-so” della Szymborska o la profezia della Lessing sull’Africa, affamata di cultura, impallidiscono, ahimè, di fronte alla sicurezza erculea di altri scrittori nel conferirsi meriti e importanza, nel concedersi la prerogativa di aver inventato la scrittura; nel tributarsi l’assurda profezia di essere gli ultimi scrittori a poter calpestare la terra (e sfiorare il cielo) del nostro pallido pianeta.