“Ce l’ha un libro marrone?”: le poche idee (ma confuse) dei frequentatori di librerie.

ce_l_hai_un_libro_marroneGiulio Gasperini
AOSTA – Dà sempre un brivido di dispiacere il pensiero che la figura professionale del libraio stia scomparendo. Si intende, non quella del commesso che digita un titolo sul computer e va a scovarti il libro perso sugli scaffali della libreria vasta come un campo da calcio; si intende quel libraio che è, prima di tutto, un raffinato conoscitore della letteratura, che sa dare consigli e giudizi, e che è il primo critico del prodotto che si trova a vendere. Di questi librai ne sopravvivono pochissimi esemplari, spesso persi nei più remoti angoli di mondo, sempre in agguerrita lotta contro la comodità di internet e l’impersonalità delle grandi catene. Leonardo Oliva è uno di questi: a San Giovanni Valdarno gestisce un caffè letterario, il Fahrenheit 451 (un nome altisonante, che spesso viene equivocato: “Per via del profumo, immagino”), dove la letteratura è un punto di riferimento, prima che una voce di bilancio. E per Ouverture Edizioni ha pubblicato “Ce l’hai un libro marrone?”, un divertente campionario di strafalcioni e orrori quotidianamente pronunciati dai clienti della sua libreria. Il sottotitolo del volume riprende il fantastico romanzo di un altro toscano DOC, Luciano Bianciardi, non solo grande romanziere ma anche grande teorico del “lavoro culturale”: “L’agra vita di un librario”. Perché vivere a contatto con libri e pubblico non sempre è facile e può portare a fraintendimenti, crisi, arrabbiature e discussioni accese.
Come la signora che cercava l’11 settembre della Fallaci: “Con molta immaginazione c’è da credere che si trattasse de ‘La rabbia e l’orgoglio’, ma la signora è uscita stizzita perché del titolo era assolutamente certa”; o come chi cerca “un libro da 10 euro e 50” o uno “scritto da uno che si chiama Davide”. E c’è anche chi cerca i “libri bisex che vanno bene per tutti” o chi confonde la libreria per qualche altro negozio: “Avete un libro pressa per i fiori?”.
Al di là del campionario favolistico e persino grottesco delle richieste che il libraio si vede rivolte ogni giorno del suo lavoro, è gratificante – e persino un po’ tenera – l’immagine di un libraio che ancora dialoga coi suoi clienti, ne percepisce gli umori e ne dosa gli sfoghi convergendo sulla letteratura.

 

Non si tratta di ridicolizzare l’ignoranza o di prendere in giro l’incuria culturale: è un omaggio – un divertissement – per celebrare la libreria e le persone che ancora – è il caso di dirlo – hanno il coraggio e la costanza di frequentarle. E chi, soprattutto, ha il coraggio di resistere e cercare di tenerle aperte.

“Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”.

Oriana Fallaci e così siaGiulio Gasperini
AOSTA – La diffidenza della critica nei confronti di Oriana Fallaci è evidente. Sempre contesa tra giornalismo e letteratura, sono soprattutto gli ultimi anni della scrittrice ad averle attratto lo scetticismo di critici vari. E la sua strabiliante e stra-ordinaria carriera le ha, da sempre, attratto invidie e risentimenti. Nessuno se n’è ancora occupato in maniera sistematica e concreta, quasi a non voler correre il rischio di riconoscere i suoi meriti. Franco Zangrilli nel suo “Oriana Fallaci e così sia. Uno scrittore postmoderno”, edito nel 2013 da Felici Editore, è uno dei primi critici che con sistematicità offre la sua chiave di lettura dell’opera fallaciana, soffermandosi soprattutto sui cinque prodotti che secondo lui possono rientrare nel genere del romanzo, in particolare postmoderno, da “Penelope alla guerra” a “Un cappello pieno di ciliege”.
L’assunto di partenza è chiaro: i prodotti narrativi della Fallaci sono un chiaro (e sorprendete) esempio del romanzo postmoderno, in particolare di quella non-fiction novel che affonda le sue radici nel mutamento del giornalismo avvenuto intorno alla metà del ‘900, quando si affermò (anche un po’ disordinatamente) la corrente del New Journalism (quello, per intendersi, di Capote, Wolf, Talese). Sicché la Fallaci narratrice, sin dalle sue prime esperienze (con “Penelope alla guerra”), non sarebbe da rapportare alle esperienze italiane del neorealismo né della neo-avanguardia, ma più sicuramente ai tentativi del postmodernismo statunitense, rendendola in tal senso una grande sperimentatrice. Il merito della Fallaci è stato quello di saper rappresentare “con raffinato stile letterario la notizia giornalistica”: un lavoro sempre al confine, pertanto. Giornalismo e narrazione diventano due diversi comportamenti che la scrittrice utilizza quasi interscambiandoli, rendendo il giornalismo narrazione e la narrazione giornalismo.
Pochi sono gli esempi testuali che Zangrilli cita a sostegno delle sue tesi, e forse in alcuni punti le sue critiche alla Fallaci potrebbero essere rimodulate e ricalibrate, senza sconfinare nell’esagerazione. I “mezzi iterativi”, “le forzature, stonature e digressioni, divagazioni e deviazioni, elucubrazioni fluviali”, che Zangrilli individua come punto debole, potrebbero al contrario essere riconosciuti come una sua cifra distintiva peculiare, come un costrutto valido e potente, sempre incentrato sulla musicalità e il ritmo della frase, che mai cede né si fa vuota o zoppicante. Molto interessanti sono, all’opposto, i riferimenti meta-letterari e meta-narrativi che Zangrilli offre come strumenti per la decifrazione della Fallaci scrittore, dal confronto con gli esempi più luminosi di giornalismo femminile italiano fino a rimandi intertestuali con i grandi capolavori della letteratura italiana (“I Promessi sposi” sopra tutti). Il saggio di Zangrilli diventa uno strumento interessante per cominciare a realizzare come l’importanza della Fallaci sia comunque indiscutibile nel panorama letterario, se non italiano, sicuramente internazionale, in una prospettiva che la vede tra i pochi scrittori nostrani ad aver saputo cogliere un afflato e una potenza dal chiaro respiro extra-mediterraneo.

La “Fisica della malinconia” e l’empatia, questa sconosciuta.

Fisica della malinconiaGiulio Gasperini
AOSTA – È francamente sorprendete leggere un romanzo che comporta un uso sfrenato dell’empatia. Oltre che gradevolissimo escamotage narrativo, il romanzo “Fisica della malinconia” dello scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, edito da Voland nel 2013, fa riscoprire una parola che nel nostro vocabolario è sempre più bistrattata, se non addirittura ignorata, quando – ancora peggio – usata a sproposito. Perché empatia è una parola potentissima, che germoglia dal greco antico: en e pathos sono i due significati che la compongono e l’idea è quella di “sentire dentro”; ma un sentire in senso lato, una compartecipazione emotiva tra due o più entità umane. Anticamente si utilizza il termine per definire il rapporto emozionale stabilitosi tra poeta e pubblico, tra artista e spettatore. Al di là di queste mere riflessioni etimologiche – ma fondamentali per capire la portata e l’importanza del romanzo di Gospodinov – lo scrittore bulgaro ha un’idea folgorante: scrivere dal punto di vista di un bambino che riesce a calarsi nelle vite degli altri, tramite questa dote dell’empatia, e a rivivere le varie situazioni da angolature diverse, conquistando di volta in volta punti di vista diversi: “La tendenza all’empatia è più forte tra i 7 e i 12 anni. Le ultime ricerche riguardano i cosiddetti neuroni specchio, localizzati nella parte anteriore della corteccia insulare”.
L’avventura è un continuo sovrapporsi di situazioni, di eventi, di emozioni che devono essere ricostruite ma che si ricollocano nel piano temporale e logico con una facilità da fiaba. A fare da macrocornice il recupero del mito del Minotauro: un essere mostruoso, ma che forse è stato fin troppo punito dalla tradizione mitica per non provarne pietà e compassione (anche qua, nel senso più alto e tragico del termine). Ci si dimentica spesso della componente umana del Minotauro: era anche un uomo, è stato un bambino, è cresciuto ragazzo. Quale potrebbe esser stata la sua reazione al rifiuto genitoriale? Quale la sua sofferenza nell’esser chiuso in un labirinto senza uscita, senza amicizia, senza amore? “La storia di una stirpe può essere descritta attraverso gli abbandoni di alcuni bambini. Lo stesso vale per la storia del mondo”. Con l’età la tendenza all’empatia diminuisce, si scarnifica e cessa: ecco allora che è il bambino a creare e plasmare le storie e a teorizzare, prima che sia tardi, le grandi regole del racconto, del ricordo: dalla fisica della malinconia alla fisica del pulviscolo, che sedimenta e copre ogni racconto della storia.
E le storie dei protagonisti, soprattutto della famiglia del bambino, si dipanano attraverso guerre e sofferenze, toccando vari momenti della storia bulgara ed europea. Ma non soltanto le azioni sono i dati importanti; Gospodinov trasforma i suoi attanti in saggi, che distillano sapienza da ogni esperienza e che hanno come loro arma ultima la parola, con cui filtrare e comunicare le esperienze maturate e che spesso carica di un potente afflato lirico ogni aspetto del più insignificante quotidiano: “Ho imparato le lettere al cimitero di quella cittadina riarsa dal sole. Posso anche dire che la morte è stato il mio primo sillabario. I morti mi hanno insegnato a leggere. […] Non sapevo che sotto la lingua potesse covare tanta morte”.

20 giugno: la giornata mondiale del rifugiato

Tutti indietroGiulio Gasperini
AOSTA – Non tutte le persone che attraversano i confini sono alla ricerca esclusiva di un lavoro. Alcune di loro scappano dalle violenze, dalla fame, dalle guerre; molti di loro scappano per non essere uccisi, torturati, violati. E non tutti coloro che scappano possono essere rifugiati o asilanti. Ma potrebbero aver solo bisogno di una protezione umanitaria. Tutti statuti riconosciuti da una convenzione internazionale, quella di Ginevra, sottoscritta nel 1951 e ratificata da 147 nazioni. Laura Boldrini, nel suo libro “Tutti indietro” edito da Rizzoli nel 2010, fa chiarezza sulla terminologia, perché spesso l’incomprensione è l’origine di molte intolleranze: clandestino, profugo, irregolare, rifugiato, immigrato, extracomunitario, richiedente asilo sono termini che non possono essere utilizzati come sinonimi.
Concepito e nato a seguito della decisione presa dal Governo Berlusconi, nel 2009, di respingere i migranti che approdavano sulle coste italiane, soprattutto di Lampedusa, “Tutti indietro” è la narrazione appassionata di una donna che è stata, per tanti anni, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Italia. E in questa veste la Boldrini ha potuto conoscere storie e situazioni di grande sofferenza umana, di profondo dolore; storie – e testimonianze – di uomini in fuga da fame e carestie, ma anche dal pericolo di morte, di tortura; dalla mancanza assoluta di prospettive o di orizzonti più sicuri e definiti, stabili e sereni. Il testo della Boldrini, attraverso i tanti punti di vista, attraverso il racconto di assurdi contrasti diplomatici (ad esempio, tra Italia e Malta) e di inconcepibili lungaggini burocratiche (come il ritardato salvataggio dei migranti appesi alle reti dei tonni, nel 2008), diventa un vero e proprio j’accuse contro una politica governativa miope e discriminatoria, colpevole di violare i principi basilari della Convenzione di Ginevra del 1951, in particolar modo il principio cardine, quello del non respingimento: perché “richiedenti asilo e rifugiati sono portatori di diritti e in quanto tali devono essere trattati”.
La Boldrini, con un argomentare lucido ma agevole ricorda come lo status di rifugiato sia esistito fin dai primordi dell’umanità: “Già Edipo mostra come parallelamente all’esilio nacque l’asilo, cioè la protezione dello straniero perseguitato”. E di come anche Dante si lamentasse della sua condizione di esule, nel canto XVII del Purgatorio: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Il campionario presentato nel libro è vario, popolato di storie diverse ma sempre convergenti verso un’unica finalità: quello di approdare sani e salvi in un paese che accolga e dove si possa essere protetti, anche per consegnare e regalare un futuro migliore ai propri figli. E la Boldrini fa pratica di vita nel centro di accoglienza creato a Lampedusa: “Un centro di accoglienza rappresenta una miniera di storie, di situazioni estreme che rischiano di passare sottaciute se, nella frenesia delle cose da fare, non si ha il tempo o la curiosità di ascoltare”.
Il messaggio che la Boldrini intende diffondere è semplice, chiaro, senza possibilità di fraintendimenti: “I rifugiati non ambiscono a vivere di assistenzialismo ma vogliono rifarsi una vita, lavorare e condurre un’esistenza normale”. Al sicuro dalla fame, dalle guerre, dalle violenze.

“Figlie dell’Iran”: Parvin, Mina, Massoumeh e le altre donne resistenti.

Figlie dell'IranGiulio Gasperini
AOSTA – La penna ferisce più della spada. È detto comune che mantiene un fondo di verità. Ma il libro curato dall’artista iraniano Reza Olia, “Figlie dell’Iran”, edito dalla maremmana Ouverture Edizioni (2013), dimostra come anche l’azione sia indispensabile per tentare, almeno, di cambiare un mondo che non funziona. Reza Olia arrivò in Italia nel 1959, per studiare Belle Arti: è un artista che non ha mai smesso di combattere per l’indipendenza e la libertà della sua nazione e del suo popolo, prima contro lo Scià e poi contro il cieco regime di Khomeini. Lo ha sempre fatto soprattutto attraverso le sue sculture e i suoi dipinti: ritrae e modella spesso donne dai volti fieri e coraggiosi, quelle donne che in silenzio, da sempre, subiscono le regole feroci e brutali dei regimi ma che, con la stessa dignità, cercano di minarli alle fondamenta e farli cadere.
L’idea di questo libro venne al maestro Olia in una capitale europea: durante la presentazione del suo libro “Il bronzo e l’esilio” fu avvicinato da una giovane ragazza, di nome Parvin, che cominciò a dispiegare il filo della sua memoria, inanellando una serie di orrori, di soprusi, di sevizie, perpetrate dal regime semplicemente perché era studentessa universitaria. La galleria umana delle “Figlie dell’Iran” continua con testimonianze dirette, donne che hanno accolto l’invito di Reza Olia nel voler condividere con il mondo le loro storie terribili in difesa della propria libertà personale e di quella dei loro connazionali, e anche col ricordo indiretto di altre donne, che hanno testimoniato con altri mezzi e altre espressioni artistiche e che adesso non ci sono più, già punite e condannate dal regime a una morte crudele: tra queste la fotografa iraniano-canadese Zahra Kazemi, o la vicenda tristemente nota di Sakineh Sangsar e della sua (sventata) lapidazione. Alcune di queste donne sono, appunto, diventate tristemente famose, balzate agli orrori della cronaca per le loro storie crudeli, per le loro vite devastate, per le interminabili violenze patite. Alcune, invece, non hanno né età, né nome, né volte, rimasto celato dietro veli e vesti della tradizione; alcune non hanno potuto gridare, né testimoniare le sofferenze patite, i gesti di quotidiano coraggio che permettono ancora di sperare in un mutamento: “Per molte donne che si avvicinarono alla politica in quegli anni difficili, ad esempio, vi erano obiettivi che andavano al di là delle battaglie per l’uguaglianza tra uomini e donne; soprattutto per il raggiungimento della libertà, della giustizia e per il socialismo” racconta Ziant Mir Hashemi. Sono donne, queste, spesso senza cultura, ma che edificano il sapere, diventando loro stesse cultura. E i regimi, tutti i regimi, di qualunque natura e impostazione siano, hanno paura della cultura: “L’obiettivo del regime era e rimane quello di annientare la libera comunità artistica iraniana”, sottolinea Marjan Tarjome.
Come ci insegnano Reza Olia e le “donne iraniane ancora rinchiuse nelle medievali carceri del regime e tutte coloro che sono cadute per la libertà”, l’azione e l’impegno civile sono indispensabili al cambiamento, mentre la penna è indispensabile per ricordare e non perderne la memoria. Perché è la testimonianza, in primis, che può edificare la coscienza civile e morale d’un intero popolo e d’un’intera nazione.

“Nel fruscio feroce degli ulivi” la parola che conforta.

NelFruscioFeroceDegliUliviGiulio Gasperini
AOSTA – La ricerca poetica è ricerca spirituale: il fine della poesia di Angela Caccia è lampante e palese. Nella sua silloge “Nel fruscio feroce degli ulivi”, edito da Fara Editore nel 2013, la Caccia squaderna la potenza della sua parola poetica nella contemplazione del metafisico, nella ricerca di evidenti prove dell’esistenza d’un particolare (e specifico) altrove. Ma ogni prova, ogni dato d’evidenza, è coraggiosamente vagliato dalla ragione, che non perde mai il suo ruolo di referente ultimo: il pensiero è filo guida, anche quando le istanze profonde, i richiami più urgenti oltrepassano il sensoriale, l’empirismo, lo spiegabile e il comunicabile. E la parola ricerca lo spessore: “Parole parlanti le tue / parole scritte in fuga”; lo cerca sulla pagina bianca, sul campo d’arare della letteratura: “È campo di battaglia il foglio”; lo ricerca nella materia più terrestre, nella dimensione più terrena, quella che è più sincera e naturale: “Parole vere / le più terrose”. E lo cerca in relazione a un interlocutore, un tu che cambia spesso forma, come dune nel deserto: se spesso pare la poetessa rivolgersi a Dio, altre volte chiaramente l’interlocutore è più fisico, maschile, definito nella sua identità (“Ora sei altro da me / ora sei l’uomo che io sognavo / e tu non speravi. Ho spinto il tempo / e lui ti ha colmato di sé”).
Le immagini sono attinte, come capita sovente in questi anni, dalla realtà quotidiana; ma è una realtà particolare, per certi tratti remota, con pennellate di “sai di cielo e / di bucato sulle corde”. C’è il ricordo, la reminiscenza di interni intimi e caldi, profumati di umanità: “Terrò il / focolare sempre acceso e grappoli di cipolle / ed erbe secche ai muri”. Ma oltre la soglia c’è comunque il mondo; e il mondo è il luogo dove si concretano le scoperte; ma è anche il luogo della gioia, del benessere: “Nei rumori familiari della strada / una gioia sottile / rimbalza dai marciapiedi alle case”. È una ricerca di grande libertà, una spinta non all’evasione ma all’espansione: “Solo al vento / sarà dato scollinare le frontiere?”. La fiducia nell’estensione è totale, attraverso l’utilizzo delle parole e della comunicazione; si rifiuta il silenzio fine a sé stesso, un silenzio che non sia meditazione, ma come Giovanni si preferisce urlare nel deserto: “”Lancia in alto le sillabe / e ricadranno pietre / a frantumare i muri”.
La materia poetica è tratta in grande quantità dal Vangelo, dalle sue immagini e dalle sue parabole: “È chiarore di vita […] / è il chicco di grano che torna a cadere nel solco”. Ed esattamente come nel Vangelo, la portata di umanità travolge il mondo in ogni sua attesa e aspettativa, cercando soluzioni e continuità alla Storia umana più estesa: ecco che compaiono le poesie “I giorni sottili (pensando al terremoto in Emilia)”, “Lettera alla mafia (in memoria di Falcone e Borsellino)” e “A Giovanni Paolo II”. La Storia non intasa, non soffoca la continua ricerca, l’esplorazione oltre ogni gradino, ma la rende solo più feconda, più abbondante e nutriente; tutto si fonde in una sorta di “geografia spirituale” che alimenta la domanda e concede il tentativo di risposte: “E saprà ancora farsi primavera”. L’origine del tutto è una scintilla, che esplode “nella penombra di una grotta”, e la nostra crescita rappresenta la costante evoluzione verso un approdo ultimo, dove ci sia la certezza di aver compiuto un percorso di crescita intima e personale, ma che metta in rapporto anche con la società e l’alterità: “Qualcuno approda dove la coscienza si fa porto”.

“A piedi in Valle d’Aosta”: la montagna anche d’estate.

A piedi in Valle d'AostaGiulio Gasperini
AOSTA – La montagna ha due stagioni: l’inverno e l’estate. Se la mente naviga subito ai picchi e alle discese innevate, bisogna considerare che anche l’estate ha le sue ricchezze. Perché in estate la montagna è un luogo da esplorare camminando, percorrendo sentieri e raggiungendo rifugi. Le due guide, “A piedi in Valle d’Aosta”, scritte da Stefano Ardito e pubblicate da Iter Edizioni (nella collana “A piedi in Italia”) sono uno strumento dettagliato e funzionale per conoscere le vie e i cammini più suggestivi. I due volumi comprendono 116 itinerari dell’Alta Valle e 132 della Bassa Valle, comprendo interamente il territorio della piccola regione, immersa tra le vette più alte d’Europa, dal Monte Bianco al Cervino, dal Monte Rosa al Gran Paradiso. Vengono esplorate tutte le valli, nominati i laghi e i castelli medievali disseminati sul territorio. Le informazioni sono dettagliate e precise, ogni sentiero è accompagnato da una cartina utile per capire partenze e arrivi. Ciascun sentiero è inoltre dotato di una pratica scheda che ne traccia brevemente le caratteristiche e fornisce tutte le informazioni utili per intraprendere la camminata, dal tempo di percorrenza alla difficoltà del sentiero. Le due guide “A piedi in Valle d’Aosta” si rivelano uno strumento utile, addirittura fondamentale, per cominciare a vivere la montagna anche d’estate, scoprendo le tante possibilità offerte e il tanto divertimento che può offrire. Perché la montagna non significa soltanto Cervinia e Courmayeur, ma anche vie immerse nel verde e nel profondo del bosco, che offrono la possibilità di un relax a contatto con la natura: niente di più naturale per rilassarsi e ricaricarsi a vita nuova!

Le ricette declinate a letteratura in “Le relazioni culinarie”.

Le relazioni culinarieGiulio Gasperini
AOSTA – Niente è sensuale come il cibo, coi suoi colori i suoi sapori i suoi odori. In “Le relazioni culinarie”, sorprendente romanzo di Andreas Staikos, edito in Italia da Ponte alle Grazie nel 2001, sono proprio le ricette le assolute protagoniste, perché è intorno a loro che la trama si sviluppa. Due uomini che abitano uno di fianco all’altro coltivano due passioni in comune: una per la cucina e una per la stessa donna, che riesce a gestire e mantenere una relazione con entrambi.
La rivalità dei due uomini diventa però amicizia, che si costruisce man mano, si solidifica e si rafforza nella prospettiva dello stesso amore (per lei) ma principalmente nell’ottica della stessa passione (quella culinaria). Il disvelamento della situazione, la consapevolezza di amare la stessa persona, la sorpresa nello scoprirsi così simili son momenti, snodi della vicenda, sottolineati dagli odori, dai profumi, dalle intuizioni ai fornelli che si concretano attraverso finestre aperte e terrazze adiacenti, attraverso visioni immaginate di pentole sfrigolanti e di forni incandescenti. La cucina diventa il luogo perfetto, l’ambiente privilegiato per far accadere coincidenze.
Le ricette protagoniste sono quelle tipiche della cucina greca, dalla moussaka ai dolmades, dalla youvarlakia al patsàs. Sono tutte narrate nel romanzo, usate come suture tra quadri e situazioni diversi, fino ad arrivare a scandire le fasi della lotta tra i due uomini per il possesso della donna; ma lei mai sarà di nessun dei due, lasciando a entrambi l’illusione del loro potere e un futuro di rimpianti da gustare in compagnia. Le ricette diventano quasi pozioni, formule segrete che conservano, nonostante la spiegazione, degli elementi di mistero; sono piccoli ricami di sentimento che non vengono interamente svelati, ma conservano gelosamente zone d’ombra, nei tempi di cottura, nell’esatto tempo di marinatura, nelle proporzioni tra ingredienti. La storia, tutto sommato, fa da cornice ampia: tutta la vicenda ruota intorno all’abilità culinaria dei due, che pare l’unico elemento di interesse per la donna, una dispotica e viziata creatura che non conosce pentimento né vergogna. Gli ingredienti, i passaggi, le misure: sono un canto, un salmo incessante che piove sulle vite dei protagonisti della storia per renderle meno tristi e grigie, meno intrappolate in una quotidianità che, nonostante non sia propriamente modesta, diventa però carceriera.
In “Le relazioni culinarie” diventa letteratura anche la semplice ricetta, che si carica di aspettativa e di attese, di prospettive erotiche e amorose, mentre vengono snocciolate dalla donna come irresistibili preliminari, come vere e proprie serenate d’amore: “Sono coralli, coralli di riccio di mare annegati in un cucchiaio d’acqua dell’Egeo”.

“Due zebre sulla Trentesima Strada” sorprendono il mondo.

Due zebre sulla Trentesima StradaGiulio Gasperini
AOSTA – Due zebre che in realtà non sono zebre, ma proprio per questo riescono nel loro compito meglio che se lo fossero. Parrebbe un assurdo se non fosse che la storia è di cronaca; quella vera. Per sopperire alla morte dei due animali africani, tra le tante vittime dell’embargo, il direttore dello zoo di Gaza nel 2009 dipinse due asini. A strisce, nere. Tutti, ovviamente, si resero conto della mistificazione, ma la magia prodotta da un tale gesto bastò per convincere tutti a non smascherare la verità e a continuare nella finzione. Lo zoo è per antonomasia il luogo del divertimento soprattutto per i più piccoli, che lì dentro possono sognare e divertirsi alle prese con i tanti e strani animali: nessuno si assunse il compito di spezzare questo magico incantesimo in una delle zone più martoriate della Terra, di venire meno a un tacito accordo di pacifica omertà. Da questo spunto di cronaca parte il romanzo di Marc Michel-Amadry, la sua prima fatica letteraria edita in Italia da Elliot edizioni nel 2012: “Due zebre sulla Trentesima Strada”.
È un fotoreporter molto famoso quello che, per caso, si imbatte in una zebra che zebra non pare. La sua vita è in una fase critica, delicata. In uno di quei momenti che spesso accadono quando niente dà più un senso e quando tutto pare inutile, senza ragione. Quella zebra gli cambia la vita: capisce quanto basti poco per migliorare la condizione degli altri, e persino di sé stessi. E decide di assumersi una missione: fare in modo che lo zoo di Gaza possa avere tutti gli animali che occorrono per il benessere e la felicità dei bambini e di tutti gli altri abitanti. A questa storia se ne lega un’altra: quella di una coppia, che vive un momento di separazione consensuale. Ma entrambi hanno il pensiero rivolto all’altro, nella convinzione che, prima o poi, torneranno a stare insieme. Ed è proprio sulla Trentesima Strada di New York che il miracolo, originato da quelle due zebre che zebre non sono, avviene e scocca la scintila.
La trama del romanzo è l’architettura robusta alla quale si aggrappano le figure e i personaggi che popolano i tanti setting: Berlino, New York, Gaza. Ed è proprio la trama l’aspetto più solido e consistente, perché il romanzo si incentra sulla casualità degli avvenimenti che non è casualità ma definito destino; racconta le sorprese che l’uomo si può meritare, della speranza di poter trovare un orizzonte felice anche se potrebbe sembrare che la violenza sia eccessiva e la morte inevitabile. Il tono da commedia rosa stanca e alla lunga sfinisce: lo stridore tra il destino martoriato della Striscia di Gaza e il futuro radioso che, quasi senza meriti, i protagonisti si sorprendono a meritare è persino irritante. Resta comunque un piccolo ricamo, effettivamente una pausa rilassante in un contesto dove gli orizzonti sono meno placidi.

“Petit Bodiel” e l’importanza di raccontare.

Petit BodielGiulio Gasperini
AOSTA – La letteratura africana non è fatta di semplici favole. Anche se per decenni il patrimonio letterario del continente più antico si è basato sull’oralità, l’importanza della Parola e della trasmissione ereditaria è sempre stata un faro di civiltà: la cultura viene trasmessa, come regalata, in un impegno morale tra generazioni, senza per questo patire un’inferiorità di cultura e di sviluppo umano – “Il non aver avuto scrittura non ha mai privato l’Africa del suo passato, della sua storia e della sua cultura” (Hampâté Bâ). E fondamentale, in tal senso, è la figura del griot, il depositario dell’oralità e unico in grado di dare vigore e vita alle storie. In nessun’altra cultura, come in quella africana, questo legame tra racconto cultura e persone è ancora così vivo e potente. Amadou Hampâté Bâ si è sempre impegnato nella conservazione e nella trasmissione di questo immenso patrimonio culturale, facendo fiorire sulla carta le favole e le storie dell’arte subsahariana e in particolar modo del Mali, dove già nel XIV secolo esisteva un’intensa attività scrittoria, legate alla magnifica biblioteca di Timbuctu, incendiata alcune settimane fa da militanti islamici.
La Sinnos Editrice, nella sua collana ‘Zefiro. Racconti portati dal vento’, ha edito nel 1998 in formato bilingue e con i disegni di Claudia Melotti, una favola di Hampâté Bâ: “Petit Bodiel”, la storia di un giovane leprotto, pigro e vagabondo, che spronato dalla madre decide di raggiungere il Dio Padre Allawalam per chiedergli l’attitudine alla furbizia. Attraverso una serie di aiuti e di peripezie riesce nel suo intento e tornato sulla Terra si lascia sopraffare dall’avidità e dalla perfidia, ingannando e truffando gli altri animali e cercando di farsi nominare loro re.
La storia, come tutte le fiabe, ha un obiettivo educativo e didascalico: insegnare qualcosa era la finalità suprema per un cantore di fiabe il quale doveva tramandare i valori supremi del proprio bagaglio culturale. Infatti, “in Africa quando muore un anziano è una biblioteca che brucia” (Hampâté Bâ), secondo un concetto rilanciato anni fa dall’UNESCO, del quale Hampâté Bâ era stato, per lungo tempo, membro del Consiglio esecutivo. I personaggi della fiaba sono tutti animali, secondo i canoni letterari, ma ognuno si scontorna e viene antropomorfizzato, trascendendo il momento storico e la cornice africana ma diventando portatore di un messaggio universale. Tutto questo perché, come anche Hampâté Bâ ha scritto: “Il racconto è uno specchio. Ognuno deve specchiarsi e ritrovarsi. Bisogna guardare in sé stessi”.