I tanti gusti (e sapori) del leggere…

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AOSTA – Sul cibo si scrivono sempre opere deliziose e gustose. E l’accoppiata cibo-letteratura ha sempre avuto dei rapporti stretti. Lo testimonia anche l’iniziativa dell’associazione Slow Food, che ha deciso di presentare una serie di brevi racconti di “cucina letteraria” in una “piccola biblioteca”, curata da Giovanni Nucci, che vede interventi, tra gli altri, di Simonetta Agnello Hornby, Nicola Lagioia, Massimo Carlotto, Moni Ovadia e Matteo Codignola. In ogni volume, oltre alla storia, sono “raccontate” una serie di ricette deliziose, da riproporre e assaporare in continuazione.
La “Metamorfosi” di Kafka è lo spunto da cui parte l’avventura raccontata da Moni Ovadia, che ci accompagna così in un dolcissimo viaggio tra i prodotti tipici dell’arte dolciaria ebraica. La storia è nota: un uomo si sveglia e non è più un uomo, ma qualche altra cosa; in “Il glicomane” l’uomo in questione si ritrova trasformato in un dolce; ma non perché abbia preso l’aspetto di un budino o di una ciambella; ha semplicemente troppo zucchero nel sangue per essere un uomo: dovrebbe essere già in coma, ma lui continua a vivere. La sua smodata passione per i dolci lo ha cambiato costituzionalmente: non c’è nessuna soluzione, perché il suo cambiamento è un “evento mistico”: la passione per i dolci ha “provocato un cortocircuito nelle relazioni biopsichiche” dell’organismo. Uno dei suoi dolci preferiti, una sorta di madeleine proustina, che lo riporta all’infanzia e lo fa cullare nei ricordi è la khalvà, il sui ingrediente principale è una pasta oleosa di sesamo detta tkhina, lavorata poi con zucchero, miele e aromatizzata alla vaniglia.
Massimo Carlotto racconta invece, in “L’arrosto argentino”, il rito sontuoso dell’asado: inseguendo la storia di Zorro, il protagonista del breve ma sapido racconto incontra a Buenos Aires un uomo di origine veneta, che di Zorro era stato assistente nel suo circo. Con questo sconosciuto, Vinicio Ortolan, si instaura un rapporto difficile e complesso, giocato su reticenze, omertà e rumorosi silenzi, gravidi di parole. Ogni incontro, ogni dialogo, è scandito dal rito del cibo: non solo della sua degustazione, della piacevolezza del gusto che esplode in bocca, ma anche della sua preparazione, dei sensi che lentamente sono accesi e funzionali, dell’arte nel saper dosare, poggiare, lasciare in cottura, girare e profumare. Il consumo dell’asado argentino ha una sua teoria, complessa ed elaborata, colma di una sua dignità estrema: il buon asado può essere jugoso, a punto, bien cocido, crocante. E l’asador è il sacerdote che supervisiona la perfetta e compiuta realizzazione dell’incantesimo. A fianco dell’asado, ci sono le salse, che spesso anticipano la cottura. E tutte le verdure che contornano e sublimano il gusto. L’asado è “un rito, una liturgia dedicata all’amicizia”: “Sono trascorsi molti anni e non ho mai smesso di arrostire, mescolando culture diverse, per celebrare il rito della conversada amistad”. Anche se l’asador, nel suo ruolo sacerdotale, è solitario e scostante, dedito alla carne e alla sua cottura; non sono ammesse deroghe né concessioni: “A volte accendo il fuoco solo per me stesso. El gran solitario può sognare. O semplicemente ricordare”.

Se Banana Yoshimoto venisse a cena…

124-In-cucina-con-Banana-YoshimotoGiulio Gasperini
AOSTA – Banana Yoshimoto è un nome oramai noto della letteratura mondiale. Il suo valore letterario è soggetto alle più disparate interpretazioni e critiche, ma i suoi romanzi sono tra i più letti e apprezzati, soprattutto un’Italia, paese dal quale la scrittrice ha sempre detto di essere stata più volte ispirata. Sono molti gli aspetti alla luce dei quali la Yoshimoto è stata vivisezionata ed esaminata: anche quello della cucina, come nel caso del saggio di Barbara Buganza, edito da Il Leone Verde edizioni nel 2003 nella collana “Leggere è un gusto!”, intitolato proprio “In cucina con Banana Yoshimoto. L’amore, l’amicizia, la morte, la solitudine nel cibo”. E proprio il sottotitolo sottolinea il grande valore e l’importanza che il cibo, ma anche i luoghi dove si consuma, sono degli aspetti fondanti dell’opera della scrittrice giapponese.
A cominciare dal suo primo racconto lungo, “Kitchen”; l’incipit è, infatti, uno dei più celebri della letteratura contemporanea: “Non c’è posto al mondo che ami più della cucina”. Non offre fraintendimenti, questa frase; non concede possibilità d’errore. La cucina è il centro delle case dei romanzi di Banana. Può essere frequentata, disabitata, fredda o calda, maltrattata o rispettata quasi sacralmente, ma è sempre uno dei luoghi di maggiore energia e introspezione. L’ambiente della cucina è pacato, tranquillo, persino ovattato. Spesso è il logo dove si sviscerano le esperienze del dolore e del disagio, ma anche dove si celebrano gli incontri, si suggellano le amicizie e dove si sublimano (o scordano) le angosce. È il luogo delle confessioni e delle confidenze, delle scoperte e delle illuminazioni. E spesso nelle cucine della Yoshimoto ribollono cibi e pietanze che spandono il loro odore e contribuiscono all’epifania dei sensi e della vita. Soprattutto i primi libri (perché poi, proseguendo la sua esperienza narrativa, cambierà un po’ il loro utilizzo narrativo) sono ricchi e densi di piatti e di portate, chiamate coi loro nomi, e anche delle descrizioni delle loro preparazioni culinarie. Spesso, infatti, i personaggi vengono descritti dalla Yoshimoto mentre stanno lavando o tagliuzzando verdure, o cuocendo pesce: si mangia di tutto, nei libri della Yoshimoto, dalla minestra di riso con le uova al tofu in brodo con miso, dai ramen con verdure alla tenpura, dai tortelli cinesi al riso al curry, dai nigiri sushi ai takoyaki (ovvero i bocconcini di polpo), dal wasabizuke con uova di aringa agli okonomiyaki, ovvero una pasta simile alla pizza guarnita di quel che si vuole. Barbara Buganza, accompagnandoci nell’analisi di alcuni testi in particolare (“Kitchen” e “Honeymoon” in primis) ci accompagna anche alla scoperta di questi piatti della cucina tipica giapponese, dando dei preziosi suggerimenti su come cuocerli e offrirli ai commensali. Se mai Banana Yoshimoto venisse a cena…

“Le più belle fortezze delle Alpi occidentali”: le montagne mozzafiato.

le-più-belle-fortezze-delle-alpi-occidentaliGiulio Gasperini
AOSTA – La guida di Diego Vaschetto, edita da Edizioni del Capricorno (2013), è un’opportunità unica. Al pensiero delle montagne, l’immaginazione corre subito a piste da sci, pascoli e prati sterminati, malghe e odore di natura. Ma le montagne sono state anche dei luoghi di importanza strategica e commerciale fondamentale. Prima dei trafori, e prima ancora degli aerei, le strade sfruttavano le valli e i valloni, e i confini tra gli stati si segnavano sul discrimine delle creste. In “Le più belle fortezze delle Alpi occidentali” Diego Vaschetto ci accompagna in interessanti itinerari escursionistici dalle Alpi liguri alla zona della Savoia, presentandoci sedici forti e fortezze, dal colle di Nava ai forti di Tournoux, da Fenestrelle alle fortificazioni del Moncenisio per terminare con la batteria di Machaby e i forti di Bourg-Saint-Maurice.
I sedici itinerari ci conducono alla scoperta di veri e propri capolavori dell’architettura montana. Le pendenze, i fianchi scoscesi dei monti, le arditezze naturali vengono sfidate e piegate ai voleri dell’umana intenzione, senza però violare troppo la natura (come nelle opere moderne e contemporanee) ma cercando di armonizzarsi al contesto e cercando di lasciare inalterate le linee naturali. Sono costruzioni mastodontiche ma che si appoggiano come in una culla, come su un nido, sfruttando tutto l’esistente e non alterando eccessivamente il contesto in cui si trovano.
Passeggiando tra queste fortezze, si comprende meglio l’importanza dell’ambiente alpino e il ruolo che la montagna ha sempre avuto nella storia dell’uomo e nei suoi sviluppi, prima che si potesse anche solo ventilare l’opportunità di bucare i monti e di scavarlo. Particolarmente interessanti, ovviamente, le costruzioni nel versante italiano delle Alpi, dai forti del Colle di Nava, che costituiscono una sicura difesa sulla via da e per il mare, al Campo trincerato del Colle di Tenda, che controlla spettacolari valloni; dalla piazza fortificata di Vinadio e le fortificazioni della Sarziera all’immenso Forte Mutin di Fenestrelle, cantato anche da Edmondo de Amicis, la cui visita completa può richiedere fino a sette ore; dal forte di Exilles alle fortificazioni del Moncenisio, che corona o il delizioso omonimo lago; per finire alle grandi fortezze della Valle d’Aosta, dal Forte di Bard, che nel 1800 rallentò la discesa di Napoleone Bonaparte verso l’Italia al Forte di Machaby, ad Arnad, oggi riconvetito in un ostello per giovani.
Il volume, accompagnato da molte bellissime fotografie, è corredato da schede di approfondimento e focus interessanti, che analizzano i vari aspetti caratteristici delle fortezze e il loro ruolo stesso, che in alcuni casi ha subito dei cambiamenti anche consistenti e rivoluzionari. Per accompagnarci, inoltre, alla scoperta di questi tesori architettonici e storici, ci sono anche le schede delle passeggiate naturalistiche. Arte, natura e sport: un abbinamento che rende le nostre terre deliziose e il nostro futuro un ricco tesoro.

“Scrittori brutta razza”: lo scrittore che definisce sé stesso.

Scrittori brutta razzaGiulio Gasperini
AOSTA – Chi è lo scrittore? Tutti – soprattutto gli scrittori – si sono posti tale domanda. Come se la scrittura fosse stata inventata soltanto per far capire agli scrittori chi fossero in realtà: una sorta di tentativo continuo di risolvere la perenne crisi d’identità. Il problema, effettivamente, è che nessuno probabilmente ha mai trovato una risposta soddisfacente. E anche Luigi Saccomanno, con il suo caratteristico stile in sottrazione, fratto e frammentato, crivellato di punteggiatura, tenta di azzardare la sua definizione: e lo fa tratteggiando la figura molto particolare dello scrittore che scrive l’opera stessa, “Scrittori brutta razza”, edito da Lupo Editore nel 2013 nella collana InBox.
Definire romanzo il testo di Luigi Saccomanno è un’audacia. E anche ipotizzare una “prosa poetica” diventa anacronia. Si tratta piuttosto di un diario fluido, una registrazione completamente filtrata dall’interiorità del narratore, di una storia viva, vegeta, pulsante ma che mantiene i tratti di una visione onirica, di un viaggio in profondità nella coscienza scoperta e dolorante dei due personaggi principali, lui e lei. Entrambi poco umani e poco reali ma molto simbolici, portatori di valori che sono ben più profondi e consistenti.
Forte e severa la polemica con quegli scrittori che si tradiscono per vendere, che inficiano sé stessi e le loro opere per una firma su un contratto, per la vanità di avere pile di volumi all’entrata delle librerie e file ininterrotte di ragazze a chiederne incostanti un autografo. E nella società letteraria del nostro tempo ne potremmo individuare molti; impuniti. Lo scrittore compie un percorso di dolorosa ma necessaria catarsi: la violenza della separazione, la presunta colpa di una morte, la delusione professionale sono tutti moventi che lo porteranno, a distanza di anni, in un calendario quasi sacrale, a compiere il gesto di supremo annientamento, costringendosi e obbligandosi nella condizione più utile e irrinunciabile per il pensiero; e per cominciare quel serio percorso di teorizzazione che comunque sarà sempre mancante di qualche elemento, di qualche dettaglio. Le colpe che lo scrittore si attribuisce sono inflessibili, le tecniche svelate, i dolori denunciati; i trucchi, in definitiva, svelati, come se si trattasse di uno scarso prestigiatore, di un illusionista sfiancato e stanco. Ma, in realtà, il fatto stesso di scrivere è già un trucco che ne prevede altri, senza mai arrivare a un disvelamento completo e totale.

La vicenda narrata nel romanzo diventa un vero e proprio espediente narrativo. Le figure che compaiono, poche, pochissime, sono dei vettori, degli acceleranti per le ultime pagine del romanzo, quelle dove più che in altri luoghi si riflette e si teorizza su chi (e cosa) sia realmente e concretamente uno scrittore. Domande alle quali, come si evince anche dall’opera di Saccomanno, non è per nulla facile rispondere.

“Morte di un autore”: un Dracula narrativo.

Morte di un autoreGiulio Gasperini
AOSTA – Quando uscì nel 1897 il “Dracula” di Bram Stoker divenne un caso editoriale. Non soltanto per la storia agghiacciante ma seducente che narrava, ma anche per la modalità narrativa in cui era stato composto: un sommarsi e sovrapporsi di lettere e pagine di diari che consentivano di aggiungere un tassello alla volta nella ricostruzione del quadro complessivo, tanti sapidi punti di vista che edificavano una narrazione non scontata e mai banale, sempre in attesa. Nessuno era il narratore principale ma tutti i personaggi, in una coralità sinfonica, co-partecipavano alla narrazione stessa.
Marija Elifërova, in “Morte di un autore”, edito da Voland nel 2013, ha deciso di prendere il capolavoro di Stoker come modello per consegnarci una storia fluida e appassionante su un novello vampiro, il misterioso personaggio, Miroslav Eminovič. Di questa storia, magistralmente narrata, non si può svelare troppo; pena, la perdita di gran parte del piacere della letteratura. Uno dei meriti principali della Elifërova è senza dubbio quello di aver creato un romanzo in frammenti, sfruttando un divertissement narrativo di notevole e indubbio impatto emotivo. Non ci sono soltanto lettere, tra le fonti della Elifërova: ci sono anche ritagli di giornale, di cronaca, di cultura, di critica; ci sono le improbabili pagine della grande Virginia Woolf; c’è la seduzione del cinema e la vanità degli attori; ci sono le pagine intelligente di una studentessa tedesca; ci sono le pagine dettagliate e poetiche di una donna che finirà pazza. Ci sono tante angolazioni, squadernati con sapienza e maestria da una narratrice che sa orchestrare e dirigere i molteplici e distanti punti di vista.
La storia forse è in parte prevedibile, in qualche momento anche scontata. Ma non è l’interesse principale di chi scrive. L’autrice si intuisce come voglia tenere tesa e vibrante l’attenzione del lettore rivelando poco alla volta, centellinando le confessioni e i dettagli, svelando emozioni e misteri con una perizia più che giornalistica. La storia di Miroslav Eminovič incuriosisce e stupisce: e fondamentale, in tal senso, è l’importanza che la Elifërova, nella sua veste di autrice, attribuisce all’importanza dello studio, della filologia, dei tomi alti e polverosi che infestano, per molte persone, le biblioteche, ma che invece le popolano di vita e saggezza. Il più svettante dei meriti, però, la Elifërova l’ha squadernato nella costruzione del rapporto tra autore (fittizio), protagonista (e modello) e riproduttore del protagonista (l’attore): le tre figure, di Alistair Mopper, di Miroslav Eminovič edi Imre Mikesz, rappresentano un capolavoro di sintesi del rapporto tra chi la storia la scrive (che lentamente si spegne di mancata fantasia), di chi ne è protagonista (e che pare vivere solo in funzione della narrazione) e di chi la riproduce (che diventa folle e non conserva più individualità). Il consueto gioco di specchi tra finzione e realtà, che in tanti hanno provato a teorizzare ma che mai nessuno è riuscito – con sapienza eterna e compiuta – a risolvere.

Le tante “Corde” delle nostre vite.

cordeGiulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.

“Milano women-friendly”, la guida in tacchi a spillo.

Milano women-friendlyGiulio Gasperini
AOSTA – Una città si affronta in tanti modi, secondo diverse prospettive. Le guide Permesola della Morellini Editore ne offrono uno tutto particolare ed esclusivo: quello delle donne. Perché le donne hanno esigenze, interessi, passioni uniche; o, almeno, così parrebbe. Anna di Cagno, giornalista professionista per anche “Cosmopolitan”, conduce lettori e lettrici in un viaggio allettante nella capitale per eccellenza del fashion-style e delle notti-da-bere. La teorizzazione della Milanesity è d’obbligo in apertura di volume: capire cosa significhi essere milanese, abitare a Milano, vivere Milano ha delle regole precise, degli obblighi, dei doveri che bisogno tassativamente imparare e applicare; pena, il fallimento. O il fraintendimento.
La guida, accompagnata e impreziosita dalle foto di Monica Cappato e Anna Toscano, offre tutti i dettagli e le informazioni utili per affrontare la giungla urbana: quando partire, secondo anche un calendario di eventi e manifestazioni (e non soltanto seguendo i capricci e i dettami della meteo!), a cosa mettere in valigia, dando poi una serie di avvertimenti per tutte le donne che viaggiano sole. E poi si passano in rassegna, descritti con brevi e sapide pennellate, i luoghi più interessanti e suggestivi, dal Cenacolo vinciano alla Pinacoteca di Brera, dai Navigli all’Orto botanico, passando per le gallerie d’arte, i vari musei e persino Casa Sozzani.
guide women-friendlyDettagliate le sezioni su dove dormire e dove mangiare, mentre non poteva mancare (al di là degli stereotipi) mancare una parte dedicata alla “Milano con i bambini”. E non può neanche mancare una lunga lista di luoghi per gli “ape”, così tanto moderni e persino più sofisticati di ricche cene. Capitoli ricchi anche per lo shopping, in quella che è considerata, a ragione, una delle principali città modaiole: vestiti, gioielli e “the best vintage”, per le amanti dello stile retro ma sempre elegante e raffinato. Senza dimenticarsi, ovviamente, del wellness e del benessere personale: anche a Milano, infatti, ci sono luoghi dove potersi rilassare, tutti ben illustrati in “angoli di relax”.
Oramai le guide possono sembrare superate: è possibile scovare una app per i nostri smartphone su ogni aspetto del viaggiare. Dalle linee della metropolitane alle informazioni sui musei tutto scorre in internet, tutto scivola sugli schermi cinematografici dei nostri telefonini, sotto le nostre dita. Ma il piacere che dà la lettura di un punto di vista, di opinioni e suggerimenti è difficilmente scovabile, persino nelle migliaia e migliaia di deliranti valutazioni e commenti di TripAdvisor e simili.
Ovvio, comunque, che ogni città è unica e irripetibile proprio perché la varietà la nutre e l’alimenta. Pertanto, regole e teorizzazioni a parte, una città basta lasciarsela scorrere sottopelle. E buona Milano a tutt*!

I “Sogni di sabbia” e il paese dell’uomo bianco.

Sogni di sabbiaGiulio Gasperini
AOSTA – A Lampedusa non si è ancora chiusa la contabilità dei morti dell’ultimo incidente. Il naufragio del 3 ottobre scorso ha riacceso i riflettori sulla problematicità delle traversate dall’Africa all’Europa, ridestando le coscienze e sorprendendo ipocrisie e omertà. Ma le morti delle persone che partono dalle coste africane per raggiungere l’Europa, per fuggire guerre e torture, per salvare sé stessi e le proprie famiglie, per poter almeno sperare in un orizzonte migliore, sono silenziose, non fanno né rumore né notizia, non sgomentano coscienze né scuotono dubbi. E dietro ogni rotta, dietro ogni partenza, ci sono volti, ci sono storie, ci sono ragioni e motivazioni diverse. “Sogni di sabbia”, il libro fotografico edito dalla Infinito Edizioni nella collana GrandAngolo, è una sorta di Spoon River migrante (e “clandestina”). Le foto rigorosamente in bianco e nero di Kays Djilali raccontano alcune persone candidate a essere “aspiranti clandestini”, ovvero migranti in partenza che, una volta approdati in terra europea, avranno scarsissime possibilità di mettersi in regola con le severe leggi europee sull’immigrazione. Sono gli harraga, coloro che “bruciano la frontiera”, che partono pur non potendo, sperando di arrivare.
Le fotografie, questi occhi e questi volti, questi sorrisi e questi sguardi, sono stati colti in vari luoghi, nel 2006: da Algeri a Madrid. Ovvero, tra coloro che ancora attendono (e sperano) una partenza a chi invece è riuscito ad attraversare il “mare di mezzo” e a stabilirsi, in qualche maniera. Ad accompagnare le immagini, ci sono le testimonianze. C’è la storia del calzolaio Youssouf, ivoriano, che lavora in Algeria per mantenere la famiglia, ma che ha chiaro come il concetto di “frontiera” sia solo un palliativo: “Laddove il destino ti porta, è lì che rimani”. C’è la storia di Mehdi, un marocchino arrestato in Libia mentre tentava di raggiungere l’Italia: “Conosco dei marocchini che sono morti. È l’angoscia che li ha uccisi. E la tortura”. C’è la storia di A., un camerunense che vive in un ghetto al Algeri: “Ho visto gente diventare pazza. Non hanno più niente per andare avanti né per tornare indietro”, imprigionati in un deserto che non conosce resurrezioni. E c’è la storia di Chaibi Mohamed che cerca suo figlio, Benchaa, scomparso il 13 febbraio 2006: “Vorrei sistemare una stanza speciale per mio figlio e metterci tutte le sue foto e le sue cose e chiuderla”. E c’è la storia di C., un altro camerunense che racconta l’attraversamento verso le coste mediterranee: “Seppelliamo i nostri fratelli nel deserto”. E la traversata del Sahara la ricorda anche Haddane Koné, ivoriano: “Mi ricordo, durante il cammino, di aver portato i miei amici sul dorso, gli ho dato da bere, ho dato loro il mio respiro”. Tutti coloro che partono sono uomini, sono donne, spesso sono bambini. Non sono clandestini; sono solo persone in movimento che cercano la libertà, il benessere, la rivincita. Spesso, pensando esclusivamente alle proprie famiglie. Ma, per tutti, “il paese dell’uomo bianco è lontano, / non ci si può andare in treno. // Il paese dell’uomo bianco è difficile”.

“Senza paura verso il divenire meticcio!”. ChronicaLibri intervista Andrea Staid.

Le nostre bracciaGiulio Gasperini
AOSTA – La globalizzazione l’abbiamo voluta. Il libero scambio, l’euforia di internet, la sensazione desiderata di sentirsi parte di un immenso “villaggio globale” dove le distanze si annullassero e le particolarità di annichilissero. La globalizzazione, però, porta con sé anche alcuni obblighi, che per tanti, adesso, sono diventati indesiderati. La libera circolazione umana, inarrestabile, improcrastinabile, rimette in gioco l’identità, attiva dei meccanismi di ri-definizione, di ri-valutazione. Non possiamo ancora farci resistenti all’idea, all’inevitabile futuro di incontri e tangenze. Di tutto questo, e anche di molto altro, ne abbiamo parlato con Andrea Staid, giovane storico e antropologo, che ha pubblicato per AgenziaX il saggio “Le nostre braccia”, dove si analizza il processo del meticciato e dove si teorizzano le nuove schiavitù, quelle che alimentano e sostengono le leggi sull’immigrazione, soprattutto extra-comunitaria.

 

Per questa nostra chiacchierata partirei dal concetto di “meticciato” perché la parola stessa (affascinante di per sé) ha subito, negli ultimi tempi, una sorta di riabilitazione semantica. Se fino a qualche tempo fa il lemma “meticcio” veniva utilizzato con un’ombra denigratoria e infamante, anche grazie al tuo saggio è evidente come le prospettive si siano ampliate e aggiornate. Persino sul piano della narrativa ha trovato spazio il grande esperimento di Wu Ming 2, con il ridefinito “romanzo meticcio”, ovvero un romanzo costruito tramite testimonianze, materiali d’archivio, memorie, interviste, fotografie, e anche creazione narrativa. Cosa si intende, oggi, per “meticciato” e come lo si può vivere e sperimentare concretamente?
Il meticcio è l’incontro, l’ibridazione tra culture diverse, ma non dobbiamo malintendere questo concetto, perché come ci ricorda Laplantine, non esistono individui originariamente puri, il meticciato si oppone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità. Non è una fusione, coesione o una specie di osmosi è un confronto tra le tante alterità culturali è quello che manca nelle nostre politiche sociali cioè il DIALOGO. In più non dobbiamo dimenticarci che la storia del Mediterraneo, dell’Europa è fatta da un vero e proprio crogiuolo culturale, di migrazioni continue, avvolte sotto forme di invasioni, conquiste, scontri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche dei popoli. Il meticcio è al di fuori di tutte le argomentazioni politicaly correct, è un mosaico polimorfo, decostruisce i muri identitari nazionali e sovranazionali. Cosa dobbiamo fare per viverlo e sperimentarlo? Smettere di avere paura, scavalcare i falsi confini del “noi” “loro” in modo da rielaborare i nostri modelli dei rapporti sociali e risistemare le coordinate del mondo vissuto perché le forme della società sono la sostanza della cultura.

 

E pare proprio la paura il sentimento costante dei nostri Anni Zero e Dieci. Talmente tanta la paura da aver elaborato delle leggi a regolare l’immigrazione che sono dei veri e propri bunker, anche se pieni di falle e di maglie deboli. C’è chi ha parlato di “Fortress Europe”, una vera e propria fortezza, fatta di frontiere rinforzate e di assurde leggi migratorie. Tu definisci il migrante una “non persona estremamente ricattabile”: perché i migranti fanno paura? Quali sono i nostri timori? Cosa immaginiamo a rischio ipotizzando l’arrivo di altre persone?
L’Europa infatti è una vera fortezza, fatta di confini sorvegliati da eserciti e polizie internazionali, fatta di persone con diritti e di persone uguali a queste ma di serie b, quelle che nel mio libro e prima di me Alessandro Dal Lago ha chiamato “non persone”. “Non persone” perché anche se camminano, mangiano e dormono come noi il fatto che non hanno il permesso di soggiorno che è solamente un pezzo di carta con un timbro sopra, li fa diventare immediatamente delle persone senza nessun diritto, ovvero non persone estremamente utili per il nostro sistema capitalista che necessita di lavoratori altamente ricattabili senza nessuna possibilità di rivendicare i propri diritti. I “nostri” timori sono dettati dalla paura del diverso, dal confronto con l’alterità perché troppo spesso tendiamo a rinchiuderci in una falsa e monolitica identità culturale. Come scrive Marco Aime nel suo “Macchia della razza, storie di ordinaria discriminazione” ormai siamo come quei tifosi che non inneggiano più alla loro squadra, ma passano novanta minuti a insultare gli avversari, tifosi che hanno fatto dei colori di una maglia una terra di appartenenza per cui vale la pena combattere, fare male, persino uccidere. Una terra non da amare, ma utile a odiare gli altri.

 

E per dominare le nostre paure, per illuderci di essere più sicuri nelle nostre vite, ci siamo inventati una legge sull’immigrazione che, come tu sostieni nel tuo saggio, incentiva la clandestinità e favorisce lo sfruttamento. Tu scrivi una cosa significativa nel tuo testo: “l’irregolarità non è un tratto ontologico del migrante, ma è determinata da un dato sistema giuridico”. Sicché è lo stato, paradossalmente (ma non troppo), che crea e favorisce la clandestinità, definita però al tempo stesso come reato. Quali sono i meccanismi per cui lo stato esercita questa sua ambivalente funzione? In nome di cosa si dispone di altre vite con una pratica burocratica alienante?
La legge italiana è particolarmente ridicola per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori. Praticamente è una legge che produce clandestinità. Un migrante una volta arrivato in Italia se non ha già un datore di lavoro non ha nessuna possibilità di essere regolarizzato. L’unica possibilità che trova davanti a sé è quella di lavorare in nero super sfruttato, senza nessun tipo di diritto. Il problema non riguarda poi solo il mondo del lavoro ma anche quello della casa: senza documenti trovare una casa è un odissea, e molti italiani se ne approfittano chiedendo affitti allucinanti per piccoli appartamenti o singole stanze da condividere. Ma non è finita qua senza documenti i migranti si vedono negare anche uno dei diritti più fondamentali cioè quello della libertà di movimento, si muovono il meno possibile e sempre con la paura di essere fermati e rinchiusi in un CIE o in un carcere senza aver commesso nessun reato. La seconda domanda invece contiene anche la risposta, la burocrazia è alienante e crea per dirla come David Graeber spazi morti nell’immaginazione degli esseri umani. Più semplicemente tramite cavilli burocratici, leggi sempre più restrittive si crea disuguaglianza, sofferenza e si condannano migliaia di esseri umani alla nuova schiavitù.

 

Ed è forse ancora più agghiacciante pensare che al giorno d’oggi si siano ripristinate, con la complicità e l’omertà dello stato, nuove forme di schiavitù. Una schiavitù che non soltanto condanna all’estrema precarietà i migranti ma che condiziona spesso i rapporti anche tra di loro, come tu scrivi in un paragrafo del tuo libro. In particolar modo tu analizzi un caso specifico, quello delle badanti. Noi siamo oramai abituati a queste figure che son diventate essenziali per la nostra esistenza, ma difficilmente immaginiamo – o abbiamo la pazienza di immaginarci – le dure condizioni nelle quali vivono e lavorano. Perché questo fenomeno è interessante all’interno della tua lettura etnografica? Quali considerazioni permette di elaborare?
Il capitolo sulle badanti analizza proprio un caso specifico, perché oltre allo sfruttamento la maggior parte di queste donne vivono una situazione di segregazione, di vero dominio e controllo da parte del datore di lavoro. In più analizzando bene le conversazioni che ho avuto con le badanti esce fuori un altro aspetto centrale che è quello di sentirsi trattate come delle macchine tappa buchi. Da non sottovalutare poi che sono le precarie per eccellenza nel mondo del lavoro nero perché la durata del loro impiego è strettamente legata alla vita del loro assistito. Per le considerazioni che permette di elaborare invece lascio la parola a una donna che lavora in Italia come badante che molto meglio di me sa esprimere ed elaborare quello che è la condizione di queste giovani donne: “Mio amato marito, emigrate diveniamo immortali. Mai nate, non siamo state cresciute, non invecchiamo, non ci stanchiamo, non moriamo. Un’unica funzione: lavorare. Immortali poiché continuamente interscambiabili. Esisterà la fine del lavoro, ma non c’è limite alle forme del servire”.

 

Sicché quali sono le possibili prospettive? Quali le avverabili soluzioni? Quali possono essere le decisioni coraggiose da prendere per trasformare la migrazione da ancestrale (e irrazionale) paura a effettivo momento di scambio e crescita, di compiuto meticciato?
Per smettere di avere paura bisogna accettare una interazione egualitaria con gli altri, dobbiamo saper costruire identità dai confini aperti e pronti al cambiamento. L’identità può avere una valenza positiva e riconoscersi negli altri e una negativa nella quale scoprirsi e definirsi in base a ciò che ci differenzia dagli altri. La valenza positiva porta verso il pensiero meticcio che contrasta il falso universalismo e il mito della purezza, questo avviene tramite un processo dinamico di scambi reciproci, di accettazioni e di rifiuti, di rinunce e di appropriazioni. Dobbiamo essere consapevoli dei tanti possibili errori, delle difficoltà, degli incontri e degli scontri, ma anche essere forti della necessità di accettare la complessità del reale, perché la complessità deve diventare il fondamento della nostra identità. Quindi senza paura verso il divenire meticcio!

“Guerra alla Cina”, l’inaudita invasione secondo Jack London.

Guerra alla CinaGiulio Gasperini
AOSTA – Nel 1904 Jack London seguirà la guerra russo-giapponese: sarà uno dei primi corrispondenti a sporcarsi di guerra, a pedinarla, a seguirla direttamente sui campi dove la guerra si svolgeva, dove lasciava morti e cadaveri. La Cina era balzata agli onori delle cronache e all’interesse del mondo in particolar modo con la Rivolta dei Boxer, la ribellione anticolonialista e xenofoba esplosa gli ultimi giorni del XIX secolo e i primi del XX e repressa nel sangue. Ma Jack London fu tra i primi a conoscerla empiricamente, a traghettare in occidente un’immagine particolare del grande “impero celeste”. “The Unparalleled Invasion” (edito in Italia dalla ObarraO Edizioni con il titolo di “Guerra alla Cina”) uscì nel 1910 e suscitò grande interesse nell’opinione pubblica. Alla fine dell’800 i tanti cinesi degli States erano stati assunti a capri espiatori della disoccupazione galoppante e della crisi che imperversava furiosa: si parlava niente meno che di Yellow Peril, di pericolo giallo.
Lo spettro della Cina, di questo immenso capitale umano, veniva agitato in molte sedi e in altrettante occasioni. “Il risveglio del dragone” preoccupava, angosciava principalmente perché nessuno conosceva i veri numeri, le potenzialità, la reale potenza di quello che era un immenso continente ignoto. Poco avevano a che fare col razzismo, tutte queste ansie. Il problema fondamentale non era tanto la provenienza etnica (né l’appartenenza religiosa) quanto lo spettro di un rivale che fosse ancora più potente, di uno scontro che avesse come destino finale quello della sopraffazione e della sconfitta del ricco Occidente. Angosce che comparvero anche nella letteratura, attraverso la quale si cercava finanche una qualche forma di sublimazione, di catarsi mentale, di antidoto.
London partorì questo breve scritto di difficile definizione: da pamphlet a brevissimo racconto fantapolitico, tutte le nomenclature stanno strette perché mettono in luce alcuni aspetti ma ne trascurano altri. La scrittura di London è giornalistica, coincisa e accattivante. Illude che si tratti di un reportage, di un’attenta e profonda analisi della situazioni, mentre invece è una sorta di accelerata spirale che approda, poi, a un inedito e inatteso epilogo. London analizza i processi che hanno portato l’avvicinamento del Giappone alla Cina e il risveglio delle coscienze cinesi, il suo orgoglio e la sua straordinaria volontà di riscatto. London immagina e ipotizza un universale conflitto, tra Cina e resto del mondo, il cui culmine coincide con il Bicentenario della Rivoluzione Americana. Immagina e ipotizza un conflitto, principalmente economico, che viene in breve tempo vinto dalla Cina e ipotizza un finale apocalittico, in cui con uno stratagemma da guerra omerica il resto del mondo pianifica una sorta di “soluzione finale”. Rimane da capire quanto sia finzione e quanto sia profezia.