“La prigione degli stranieri”: un passato da cui non si impara mai niente.

1789-4 La prigione degli stranieri_cop_2_14-21Giulio Gasperini
AOSTA – In passato, esistevano i campi di concentramento. Pagina dolorosissima dell’umanità, raccapricciante nella lucida sistematicità dello sterminio. In realtà, di campi ne sono sempre esistiti, in ogni piega di mondo. Quasi irrazionalmente, l’uomo si è sempre più sentito sicuro sapendo che altre persone – quelle che, in quel dato momento, venivano sentite come più minacciose – fossero rinchiuse in un altro luogo, in un altrove di separazione. Il testo di Caterina Mazza, edito da Ediesse (2013), ci accompagna con perizia e competenza alla conoscenza de “La prigione degli stranieri”, ovvero i CIE (Centri di identificazione ed espulsione) che costellano la penisola italiana.
La storia dei CIE, che hanno cambiato un’infinita di nomi piuttosto grotteschi, ha le sue origini nel Trattato di Schengen, ovvero proprio in quel documento che voleva garantire in tutta Europa, per renderla più “unita” e meno “vincolante”, la libera circolazione di uomini e merci. Ma, parafrasando Orwell, anche in tema di libertà, alcuni uomini sono più uguali di altri. Il diritto fu garantito a chi fosse europeo, un po’ meno a chi fosse in Europa per lavoro, per studio, per richiamo familiare, per qualsiasi altro motivo.
Il concetto di libertà non richiama soltanto l’idea di potersi muovere senza vincoli e senza restrizioni, ma implica anche il sapersi sempre al sicuro, esente da rischi e penalità. Situazione che non si verifica oggi, dal momento che fino a qualche giorno fa l’immigrazione clandestina, ovvero il trovarsi sul territorio nazionale sprovvisti di un documento (visto o permesso) regolare implicava il commettere un reato penale. Significava che la stessa esistenza di una persona, la sua vita, il suo essere hic et nunc, fosse una colpa paragonabile a un omicidio.
L’adozione dei CIE non è solamente una decisione di casa nostra, ma come in tutte le cose peggiori, anche l’Italia si è adattata agli altri paesi europei: dalla Spagna alla Grecia, in particolare nella Svizzera e nei paesi del Benelux, esiste una galassia, più o meno legale, di centri di detenzione, dove stazionano per un tempo parecchio oscillante tutti i migranti, non importa neanche se minorenni, malati, donne, transessuali, in attesa di ottenere un documento dalle rispettive ambasciate che permetta di rimpatriarli nei paesi di origine. Son territori, i CIE, dove quasi non esiste legge, dove i diritti son calpestati continuamente, dove la mancanza di libertà è dovuta semplicemente a un colpa che, se vogliamo proprio definirla tale, appartiene alla sfera amministrativa.
Le migrazioni hanno caratterizzato da sempre la storia dell’umanità. Fermare l’uomo è impossibile, persino assurdo. Pretendere che l’uomo reprima il desiderio di sfidare gli orizzonti e di cercare un futuro e una speranza migliore per sé e la sua famiglia è grottesco. Ostinare a considerare i migranti come banditi, negandogli persino il diritto costituzionale della presunzione di innocenza, è incredibilmente criminale.

Il rifugio della “Casalinghitudine”.

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AOSTA – In quanti modi si può raccontare la storia di una vita? Tante, quante sono le capacità creative dell’uomo. Il cibo può essere uno dei miglior collante del rosario dei nostri giorni, soprattutto per chi crede nell’ideale della “Casalinghitudine” che par significhi solitudine ma è tutto il contrario. Clara Sereni, donna che politica, e scrittrice, ma prima di tutto donna e madre, ha sempre tessuto la memoria dei suoi giorni con i sapori, gli odori, le consistenze di tutto quello che bolliva nelle pentole delle sue cucine, tutte quelle in cui si è trovata a esser sacerdotessa di riti umani e sociali propiziatori al benessere e all’armonia.
Il libro “Casalinghitudine”, edito per Einaudi oramai molti anni or sono (1987), è un piccolo tesoro di scienza letteraria e culinaria. Diviso in capitoli tematici, e non temporali (come “La coscienza di Zeno”), comincia con gli Stuzzichini e finisce con Dolcezze e Conservare, in un andamento lirico ininterrotto e costante. La Sereni rivive le tappe più significative della sua vita in sottrazione, senza troppo svelare né troppo presupporre, ma inseguendo odori, sapori, cibi come fossero correlativi oggettivi. Ed ecco che alla memoria le riaffiora un momento di intimo piacere, e subito ritrova il piatto che in quell’occasione era stato cucinato. E per nulla gelosa della sua intimità ce ne regala la ricetta, il dosaggio, la formula magica che ci possa permettere di riproporlo, di ripresentarlo ai nostri personali convitati.
Il cibo aiuta la collettività, il cibo nobilita la solitudine di chi si trova a dover pensare a sé e a un’inquantificata alterità. Ma la cucina non è solo linguaggio domestico, maniera di comprensione senza bisogno di parole spesso fraintese e comunque colonizzatrici; la cucina è anche interazione, maturazione in età e comportamenti, occasione di deporre le armi e abbattere le frontiere che ci separano gli uni gli altri. Il menù della Sereni è ricco, così come ricca è la sua vita, la sua esistenza a contatto con gli altri, per la cura degli altri. Ammette anche le sue sconfitte, la Sereni. Apprezza i miglioramenti, li ricerca con estrema cura e perizia. Ma sa che ogni tentativo è prezioso, che ogni fallimento è rivelatore, che ogni sconfitta è una nuova partenza. Soprattutto in un campo, come quello culinario, in cui si procede per azzardi, per tentativi, confidando spesso nell’istinto, nel gusto personale, sistematicamente ignorando le ricette canoniche, grammaticalizzate e contrabbandando nuovi stimoli e percezioni.
La cucina è tutto. È concretezza e passione: l’avventura della Sereni ce lo dimostra concretamente, con un attenzione estrema e devota al dettaglio, alla precisazione mai inutile né superflua. La cucina è una rotta da seguire, un atto dovuto all’eleganza della nostra vita, alla ricchezza di un pensiero, alla grazia che dovremmo avere il tempo si scovare nell’implacabile trascorrere del nostro tempo, nella routine che altrimenti ci stritolerebbe. Ogni gesto, in cucina, è un rito; ogni ricetta è un’antica formula che se non accompagna alla felicità ce ne porta sicuramente un po’ più vicini.

“Altro ed altrove”, ma pur sempre lo stesso amore.

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AOSTA – Angelo Branduardi ha sempre avuto un occhio di riguardo per la poesia. Cantautore colto e raffinato, ha da sempre perseguito una ricerca musicale attenta e puntuale sugli antichi strumenti, le antiche partiture, le note remote di cui ci si serviva anni fa. Silenziosa, ad affiancarlo nel lavoro di scrittura dei testi, la moglie, Luisa Zappa, spesso mai accreditata ma sempre presente. Sue sono le traduzioni e gli adattamenti delle quattordici poesie d’amore, provenienti da tutto il mondo e dalle più distanti culture, presentante in “Altro ed altrove” (2003).
L’intento è esplicitato dallo stesso musicista, con un intenso messaggio presente nel booklet: un “viaggio, tra sogno e curiosità, immagini di terre lontane, visioni di uomini e donne che, sotto altri cieli, ardono delle stesse passioni”. Come a dire, evidentemente, che se tutti noi crediamo soprattutto all’amore non hanno molto senso divisioni e ripartizioni. Il cielo è unico, l’amore ancora di più, al di là di tutte le declinazioni che può assumere.
Si inizia con “Laila, Laila”, deliziosa ballata nepalese per una donna che ha in sé la dolcezza dello Shiraz e il veleno del cobra di Birmania; poi si va negli States, con un dolce “Notturno indiano”, frutto di una cultura, quella dei “Pellerossa”, in perfetta armonia con la Natura e le Stelle bambine; dall’Afghanistan del 1600, più più precisamente da un componimento del poeta di etnia Pashtun, Mirza Khan Ansari, deriva il testo de “La candela e la falena”, che narra di una amore impossibile, destinato al sacrificio estremo; da un anonimo dei Kabili d’Africa la storia di un Casanova nero, innamorato di tante donne e della sua vita, che innalza una preghiera a Dio, in “Se Dio vorrà”; “Io canto la ragazza dalla pelle scura” proviene invece dalla tradizione dell’Arabia, in cui viene evidenziata l’apparente fragilità di una donna, mentre “il suo braccio è una spada sguainata”; una folk song tradizionale della Scozia canta invece de “La Signora dai capelli neri e il Cacciatore”, la favola di una dark lady, nella scia della rottura poetica shakespeariana; in originale latino, invece, il testo della poesia di Catullo, “Ille mi par esse deo videtur”, celebre rielaborazione del poeta di Sirmione di un componimento di Saffo; straziante, invece, “L’ambasciata a Shiragi”, poesia Nara giapponese del 736, che racconta della separazione tra un marinaio e la sua donna; l’esaltazione della vera bellezza, della giovinezza sempiterna, è il tema di “Giovane per sempre”, adattamento di uno dei più bei sonetti di Shakespeare; ancora dagli Indiani d’America, questa volta dalla zona del New Mexico, una dolcissima ballata di sensualità estrema, in “Ch’io sia la fascia”; “Lo straniero” ci canta la libertà delle donne beduine libiche che, a differenza delle altre ragazze arabe, godevano di una notevole libertà anche amorosa; dal poeta cinese Li Po, del 700 circa, viene la struggente “Ballata del Fiume Blu”, augurio di una vita che trascenda il presente e i suoi limiti sensoriali; il testo de “Il bacio”, canzone emblematica, proviene da un componimento di Rudaki, il “Re dei poeti”, alla corte dei principi Semanidi, in Persia, intorno al X secolo; il viaggio si conclude in Irlanda, con un’antica lirica del secolo IX, in cui il dio Midir invita la “Donna di luce” a seguirlo nella Terra della Giovinezza, dove “nessuno muore prima di essere ormai vecchio”.
Ogni canzone, accompagnata da una pregevole illustrazione di Silvio Monti, per un viaggio più completo tra tutti i sensi e tutte le emozioni ricollegabili al testo poetico e alle suggestioni del più profondo sentimento dell’amore.

“Sahara. Paesaggio dell’immaginario” in cui perdersi.

Sahara. Paesaggio dell'immaginarioGiulio Gasperini
AOSTA – Il libro di Eamonn Gearon, “Sahara. Paesaggio dell’immaginario”, edito dalla casa editrice Odoya (2014), squaderna e sviscera quella grande piega di mondo che è lo sterminato deserto del Sahara. Luogo magico, protagonista indistinto di tante fiabe e racconti da Mille e una notte, non è sempre stato quell’ammasso poetico di sabbia e dune sempre in movimento che ci appare adesso. Conosciuto alle cronache moderne più per essere terra di migrazioni forzose e di morti ignote, ignorate e dimenticate, e pregiudizievolmente per essere luogo di aridità estrema, in realtà il Sahara ha una lunga lunghissima storia di colonizzazioni e di attività umane, animali, vegetali. Come testimonia, ad esempio, il sito di Wadi al-Hitan, considerato Patrimonio mondiali dell’umanità dell’UNESCO, dove sono stati ritrovati centinaia di fossili della protobalena Basilosaurus (c’era allora il mare, in quel luogo?). Il Sahara fu anche terra verde, umida, ricca d’acqua e di vegetazione.
Ma il Sahara fu ricco anche di uomini, più di adesso, sopravvivendo soltanto alcune tribù di Tuareg. Le incisioni rupestri, scoperte da Heinrich Barth a Wadi Telisaghé, sono testimonianza straordinaria, sorprendente: rappresentano la presa di consapevolezza artistica e comunicativa di un’umanità ai suoi albori e ci testimoniano una forma di cultura dei primordi, ma non per questa meno importante né trascurabile. Tra questi graffiti troviamo anche sbalorditivi esempi di “nuotatori”, risalenti a 5000 anni fa, che aprono prospettive inedite e non ancora ben indagate. E, ancora ricco di uomini, il Sahara è anche un rete di città, di insediamenti che l’uomo continua ostinatamente ad abitare, piegandosi alle esigenza della natura e alle sue condizioni. E non sono solo città-oasi, nate grazie alla presenza di un acqua che emerge dalle sabbie, come Tindouf e Ghardaia.
La storia delle esplorazioni del Sahara è un racconto appassionante che affonda le sue origini nella storia dell’antico Egitto, nella lunga lista di faraoni che si susseguirono sul trono di uno dei più grandi imperi della storia antica. Tanti altri popoli, dai Fenici ai Persiani, dai Greci agli Arabi, dai Romani ai Vandali si confrontarono con questa terra devastante e assolata, con queste lunghe prospettive e intensi viaggi, assumendone il potenziale e trasformandola in terra di commerci e di racconti, di leggende e di indagini, di scambi e di narrazioni più o meno veritiere.
E poi ci furono i geografi e cartografi, a cominciare da al-Idrisi, che nel Sahara si divertirono a indagare e compilare; ci furono gli esploratori come Hugh Clapperton, le esploratrici; e poi gli scrittori, come Bruce Chatwin e Paul Bowles. E tanti altri personaggi, noti e meno noti, che hanno trasformato il Sahara in una terra dalle infinite possibilità, dalle prospettive potenti e inedite. Perché, nonostante gli anni passino e il mondo diventi sempre meno ignoto e inesplorato, come scrisse Plinio il Vecchio, “dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo”.

“I dannati della metropoli”: migranti tra lecito e illecito.

I dannati della metropoliGiulio Gasperini
AOSTA – La legge sull’immigrazione italiana è una legge che, inevitabilmente, “costringe” i migranti a muoversi dai territori della legalità a quelli opposti dell’illegalità. E l’illegalità può portare con sé, inevitabilmente, l’esigenza di delinquere, anche solo per la semplice sopravvivenza. Sono molti i migranti che decidono di sottomettersi a contemporanee forme di schiavitù e sfruttamento, pur di non intraprendere percorsi criminali, ma ci sono anche coloro che si ribellano, cercando di affrancarsi a queste forme di razzismo istituzionalizzato. Andrea Staid, storico e antropologo, ha pubblicato per Milieu Edizioni, “I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità” (2014), volume che in un certo senso fa da pendant al precedente “Le nostre braccia”.
In “I dannati della metropoli”, dopo aver ben descritto e motivato la sua metodologia di ricerca, che si basa sull’osservazione partecipante, teorizzata per la prima volta dall’antropologo Malinowski, Staid si pone come obiettivo quello di esaminare e analizzare “i nessi tra strutture generali di potere e forme di soggettività, capire come e perché si sceglie di delinquere e di ribellarsi ai soprusi quotidiani”. E per questo fine, decide di dare voce, direttamente, ai migranti (di ogni provenienza e di ogni destinazione) che si trovano a vivere, concretamente, sulla loro pelle, le difficoltà che comporta non avere o dover continuamente rinnovare un titolo di soggiorno, ma anche a chi cerca di districarsi nelle quotidiane problematicità di un lavoro, di un affitto da pagare, di una famiglia da mantenere. Le interviste non strutturate che Staid ci offre nel testo, come materiale primario da cui trarre poi considerazioni e valutazioni, sono potenti di vita, pulsanti di esigenze e bisogni reali, concreti, crudi. Non ci sono filtri, non ci sono mediazioni. C’è la vita; e basta. Quella alla quale non si pensa mai, perché comporterebbe un’indolente ammissione di colpa, la presa di consapevolezza di una soffocante omertà.
L’analisi della realtà italiana si scompone in cinque percorsi: si parte con la narrazione di storie relative ai viaggi, quelli famosi attraverso il Sahara, ma anche di meno noti e giornalisticamente gettonati; poi si prosegue con il capitolo dolorosissimo sui CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione, e sulle moderne forme di lager istituzionali, di cui la penisola è disseminata; ci si avventura, poi, nell’analisi della realtà carceraria italiana e i motivi dell’alta presenza di stranieri nei penitenziari italiani. L’ultimo capitolo, invece, rappresenta un curioso e stimolante racconto dell’esperienza di Staid all’interno di Bligny 42, un palazzo milanese a lungo ribattezzato “il fortino della droga” ma che è, invece, piuttosto un “condominio mondo”, traboccante di umanità e di storie “migranti”, di quotidianità partecipate. Un meticciato che è ricchezza, potenza, suono e colore. Che consente infinite possibilità di ricerca e offre altrettante potenzialità di risposte per un futuro che sia più conciliante e lungimirante.

“La famiglia è il primo luogo inospitale in cui siamo chiamati a vivere”: ChronicaLibri intervista Roberta Lepri.

Io ero l'AfricaGiulio Gasperini
AOSTA – L’Africa è terra infinita. È terra immensa e potente, prorompete di energia. L’Africa è l’origine, è il luogo del primo arrivo. L’Africa è natura pura, forza dirompente, natura incontaminata, che non conosce limiti. E ancora più spettacolare ed emozionante è quando l’Africa diventa noi, il nostro intimo, la nostra interiorità più autentica. Roberta Lepri ha scritto un magico romanzo (“Io ero l’Africa” per Avagliano Editore), dove tutti questi piani si allacciano e intrecciano con altre tematiche, con altri fattori sapidi dell’umano.

 

L’Africa: una terra d’affascinante e ancestrale magia. Una terra da dove l’uomo è partito, migliaia di anni fa, alla scoperta delle nuove terre oltre l’orizzonte. Come mai hai scelto l’Africa come setting della tua storia?
L’Africa è il luogo ideale per ambientare una storia che vuole indagare il mutare dei rapporti tra le persone al variare del territorio. Non solo culla dell’umanità ma territorio magico per antonomasia, questo continente ha visto l’uomo partire in tempi remoti ma anche tornare in quelli recenti: da dominatore, in cerca di ricchezze e terre da sfruttare. Questo luogo così lontano e misterioso per me è stato fonte di continue sorprese, appena, da bambina, cominciai a capire quanto fosse stato importante nella storia della mia famiglia. Mio nonno e mia nonna, come i protagonisti del romanzo, erano infatti emigrati in Somalia negli anni 50 per sfuggire alla mancanza di lavoro che c’era in Italia.
Sono cresciuta con i loro ricordi, in una grande casa piena di cimeli africani, di lance, pelli di animali esotici, fotografie di piantagioni di banane. Le mie fiabe della buonanotte erano le storie somale che la nonna Maria mi raccontava con pazienza, e che parlavano della shamba, del fiume Giuba, dei bambini del posto.
Un dono straordinario, questa Africa famigliare, insieme intima e misteriosa, che ho conservato con cura nella memoria, e ho piegato infine alle esigenze del racconto. Un luogo in cui tutto può cambiare all’improvviso e in cui le persone possono ritrovarsi o, al contrario, perdersi completamente.

 

Questa tua Africa familiare, questa tua saga di crescite e di maturazioni, cosa può dire al mondo di oggi, alla nostra società che si trova forse nella crisi più feroce e profonda di cui si conservi memoria? Dove possiamo, noi, trovare quest’Africa, questa terra mitica, questo ancestrale fonte di favole e miti intramontabili?
Proprio perché non riusciamo a ricordare un periodo altrettanto difficile, è importante recuperare la memoria di periodi come quelli di cui ho raccontato nel mio romanzo, in cui si doveva emigrare per sopravvivere, lavorando per mandare i soldi a casa e permettere così ai figli di crescere e studiare; in cui la differenza tra i grandi principi di uguaglianza (quelli socialisti del protagonista e di suo figlio) e una realtà che poteva divenire ostile li trasformava rapidamente nel loro opposto; in cui i rapporti famigliari erano costretti a sfilacciarsi, incalzati da cambiamenti rapidissimi della società. Non sono le stesse cose che stiamo vivendo adesso? L’Africa ognuno ce l’ha dentro se stesso, nascosta da qualche parte. È il DNA di quando, messi in difficoltà, abbiamo trovato una soluzione. “chiudigliocchievedil’africa” il gioco che la piccola Bianca inventa per nonna Angela, non è un modo per fuggire dalla realtà ma un modo per ritrovare se stessi nel ricordo di quando eravamo migliori. E siamo stati tutti migliori, come persone e come popolo.

 

Il tuo romanzo è storia di tanto. Ma soprattutto di due elementi altamente significativi per noi italiani, di nascita e di cultura. La famiglia e l’emigrazione. Che cos’è la famiglia? Perché hai voluto analizzare e indagare proprio questo contesto di legami e di rapporti?
Nell’intervista che mi è stata fatta per Achab ho detto che la famiglia è “il primo luogo inospitale in cui siamo chiamati a vivere”. La mia non è stata una battuta ma è una convinzione profonda, supportata, oltre che da una banale osservazione dei fatti, anche dalla letteratura classica (Pirandello e Gadda, Mann e Kafka) Fin dalla nascita, ci viene caricato sulle spalle il fardello di tutti quelli che ci hanno preceduto, i loro errori, le ansie e le paure. Le aspirazioni mancate, e, spesso, anche i loro segreti. La famiglia non è che un insieme di persone, diverse tra loro, che cercano un equilibrio per vivere. L’arrivo di un nuovo elemento, per quanto accolto con amore, è destabilizzante e quello che la famiglia cerca, fin dal primo istante, è fare in modo che il nuovo si uniformi al vecchio, in modo che tutto scorra nella maniera più piana possibile, per recuperare l’equilibrio perduto.
La crescita per cercare di affermarsi in seno alla famiglia è perciò sempre traumatica – lei cerca di inglobare l’individuo che tenta di affermarsi come tale – sia nelle situazioni che a prima vista possono sembrare idilliache fino ovviamente ad arrivare a quelle che comportano violenza psicologica e fisica. Sono convinta che è proprio nella lotta all’interno della famiglia che l’individuo affronta la sua sfida più grande, quella che lo porterà ad essere ciò che è all’interno della società civile. Jodorowsky, mia fresca lettura, è stato un grande osservatore di queste dinamiche.

 

E per quanto riguarda l’emigrazione?
La tematica dell’ emigrazione è certo un grande banco di prova con cui mi è piaciuto confrontarmi, perché ripropone su ampia scala proprio le dinamiche di cui parlavo sopra: lo strappo dalla famiglia d’origine è anche quello dalla terra d’origine, per la sopravvivenza e l’affermazione del sé. Certo, un fenomeno che può essere doloroso (è il caso di Teo, il protagonista maschile del mio ultimo romanzo) ma anche molto liberatorio (come avviene invece per Angela, la protagonista femminile).
E’ sintomatico che questa mia indagine sia stata accolta con insofferenza proprio dalle persone che mi conoscono meglio e con entusiasmo da lettori sconosciuti. Ho pensato che uno scrittore che si allontana da quelli vicini e si avvicina a quelli lontani possa essere su una buona strada.

 

Quest’Africa nel DNA, questa origine di tutto e di tutti, ha potenti richiami ed echi letterari. Come non considerare Karen Blixen e la sua esperienza in terra africana. Quanto ha influito la sua scrittura sul tuo romanzo? Quali sono i tuoi modelli letterari?
Karen Blixen ha influito molto sulla mia scrittura e non solo per il richiamo all’Africa, per cui ho sempre avuto notizie di prima mano grazie ai racconti dei miei nonni. L’opera della scrittrice danese è straordinaria e mi ha influenzato soprattutto per il suo senso del mistero, per la capacità di saper cogliere con ampio respiro i contrattempi e le sorprese della vita, dando così al racconto un orizzonte vastissimo anche se attento ai dettagli. Penso alla scrittura de “Le sette storie gotiche” o degli straordinari racconti contenuti ne “I capricci del destino”.
Leggo moltissimo e tutto mi influenza, spazio tra stili ed epoche anche molto lontane tra di loro, ma se devo dire un nome tra tutti scelgo Simenon, quello dei romanzi noir come La neve era sporca, o L’uomo che vedeva passare i treni. Mi interessano i rapporti tra le persone e il male che normalmente li attraversa, come questi mutano con grande facilità. Attualmente sto leggendo il Meridiano dedicato ad Alice Munro, che è straordinaria. E amo molto Viola Di Grado, che riesce a sorprendermi a ogni pagina.

 

Tutti noi amiamo alcune parole mentre altre ci rimangono antipatiche. Sia per il suono che per il significato. Sono come le persone, con cui istauriamo rapporti complessi e complicati. Quali sono le tre parole che preferisci? Per quale motivo?
Le tre parole che preferisco sono:
– IDEALE, qualcosa a cui tendere ma anche una situazione di confort assoluto, mentale e fisico. Un ideale politico, la temperatura ideale, la città ideale. Qualcosa di estremamente concreto e insieme appartenente alla sfera del sogno. Contemporaneamente statico e mobile, mi riporta alla velocità della luce sui banchi del liceo, china sui libri di filosofia.
– INTELLIGENZA, la qualità che più amo nelle persone, che sia quella del cuore o della mente – ideale, appunto, se ci fossero entrambe – la capacità di approcciarsi a qualsiasi problema e di risolverlo in modo brillante. E’ la dote superiore a qualsiasi altra: non invecchia, anzi, con il tempo migliora e dona una bellezza ineguagliabile alle persone che ne sono dotate.
– ARTE, direi che è il risultato dell’applicazione delle altre due: tensione e riflessione, espressione di un’intelligenza umana che è sviluppo continuo. Si potrebbe abolire qualsiasi altra materia, e attraverso lo studio dell’arte comprendere l’intero percorso dell’umanità: la sua storia, la matematica, l’architettura, la filosofia, il mutare del linguaggio, la capacità di comprensione tra i popoli o le tensioni che ne hanno determinato lo scontro. Nessuna meraviglia, che in un’epoca dominata da una dittatura del denaro si voglia togliere l’insegnamento dell’arte dalle scuole. Lo definiscono “inutile” ma direi che per gli interessi dominanti è, invece, dannoso.

“Il caffè di Tamer”, un luogo perfetto che non c’è.

Caffè di TamerGiulio Gasperini
AOSTA – Diego Brasioli conosce il Medioriente. Ci ha trascorso molti anni, come ambasciatore per l’Italia a Beirut. E ha conosciuto gli spettacoli della guerra, la devastazione, la complessità umana e sociale dei conflitti che per decenni lunghissimi hanno martoriato questa piega di mondo. Ed ha conosciuto persone vere, con un volto, un timbro vocale, una storia di migrazioni. In “Il caffè di Tamer”, edito da Mursia nel 2002, Brasioli squaderna una storia di amicizia dal valore altamente simbolico, come soltanto nel contesto della guerra sanno concretarsi.
Dori Goldman è statunitense, ebreo. Come tanti, prima di lui, si trasferì in Israele; tanti si sentirono in dovere di condividere la sorte dei loro “fratelli” di religione, altri pensarono che fosse la cosa giusta da fare; altri ancora, come Dori, andarono quasi per caso e scoprirono che lì, per ragioni sconosciute e non chiare, si sentivano a casa. Quando lui arrivò era il 1963: anni cruciali per il neonato stato. Si trasferì in un “quartiere di arabi ed ebrei dove in fondo non vi erano mai state fratture”, a conferma di come la storia sia spesso falsata e resa inesatta da giornalisti e storici dello scoop. La pace, in Palestrina (o Israele), è sempre esistita, perché gli uomini, al di là del Potere, sanno convivere e superare le differenze. Dori adora passeggiare per i quartieri della Gerusalemme vecchia, una città che possiede un’energia sovrumana, quasi mistica. Qui, in questo luogo di millenarie sofferenze ed epifanie, Dori conosce Tamer, un arabo proprietario di un modestissimo caffè, ma che diventa l’ombelico del loro mondo, il luogo più sicuro sulla terra, quello dove si costruiscono i veri sentimenti e si rafforzano i rapporti di amicizia e amore. Da dove, soprattutto, si contempla con sguardo critico l’evolversi degli eventi.
Anche durante gli episodi della Seconda Intifada, inaugurata all’alba del nuovo millennio, il loro rapporto non si incrinò, fino all’inevitabile epilogo, che un po’ è atteso ma non per questo perde il suo valore ultimo di teorema umano, che non ha bisogno di nessuna spiegazione né dimostrazione. Anche grazie a uno stimolante espediente narrativo. Il finale è, infatti, presentato all’inizio, in un “cielo accanto alla terra”; come se la fine fosse proprio il principio: la preghiera del rabbino ebreo e i versetti del Corano, cantati dall’amico, si allacciano insieme e si fondono in una preghiera unica, universale, che canta lo stesso uomo e i suoi stessi bisogni, le sue stesse urgenze: “Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare, / tutti i suoi beni preziosi del tempo antico; ricorda quando il suo popolo cadeva / per mano del nemico e nessuno le porgeva aiuto”.

La bella favola di “Un asino a strisce”.

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AOSTA – La storia è gonfia di un’umanità così sconcertante e potente come solo in situazione di estrema difficoltà capita di incontrare. A Gaza esisteva uno zoo, lo Zaitun. Il custode era il signor Nidal, un anziano palestinese che si prendeva cura dei suoi animali, nonostante tutte le difficoltà patite dalla sua terra. Sa che per i bambini il suo zoo è un’oasi di pace, un luogo divertente dove poter scordare fischi di pallottole, detonazioni, qualsiasi altro rumore o fantasma di violenza. Ma la guerra divampa, l’offensiva israeliana “Piombo fuso” si rovescia con violenza sui territori martoriati della Striscia. E non risparmiano lo zoo. Quasi tutti gli animali muoiono: rimangono oramai solo cani e gatti. Muoiono anche le due zebre che sono la più gradevole attrazione. Allora il guardiano ha un’idea: una specie di contraffazione della realtà, ma per un fine altamente importante. Prende due asini, denutriti ma pur sempre vivi, le rasa e li dipinge a strisce. Li maschera da zebre. Così i bambini potranno ugualmente divertirsi con gli animali, e sognare che tutto sommato possa esistere un po’ di pace.
Giorgio Scaramuzzino ha raccontato questa storia in “Un asino a strisce. La storia di un’amicizia più forte della guerra”, edito da Salani Editore nel 2013, con i disegni dalle linee emozionanti di Gek Tessaro. L’amicizia è quella tra la zebra Aidha e un bambino di nome Talal, di otto anni, uno dei più assidui frequentatori dello zoo. E dell’amicizia dei due con Nidal, il guardiano. Tutto si consuma in poche pagine ma la magia del sentimento, la commozione dell’incontro, il bisogno senza nome e senza età di un modo che sia in pace, senza più guerre, senza più rumori molesti, senza più cieli e futuri preclusi, durano e perdurano attraverso le pagine e anche a libro chiuso.
Non importa la differenza, non importa se la realtà è stata un po’ contraffatta, un po’ camuffata. Quello che importa è il senso profondo, il valore intimo. Perché tutti i bambini hanno dei poteri magici. E con questi si inventano un mondo che è migliore di quello feroce degli adulti.

Quando la Bellezza è resistenza civile e sociale.

architetture-resistenti-copertinaGiulio Gasperini
AOSTA – Il mantra è quello di Peppino Impastato, giornalista ucciso dalla mafia per il suo lavoro di denuncia e resistenza sociale: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. L’assuefazione alla quale Potere (con la lettera maiuscola, come lo scriverebbe Oriana Fallaci) tenta in tutti i modi di sottomettere le persone, i cittadini, è un nemico inarrestabile, indomabile. Le Edizioni BeccoGiallo, casa editrice con un menu altamente resistente, che ha sdoganato il fumetto come suprema forma letteraria, ci offre la possibilità di rivalutare anche il settore dell’architettura come un modo di opporsi alla marea dell’assuefazione, dotandoci di un’arma in più per combattere il tentativo di farsi incasellare in numeri, statistiche e proiezioni di voto.
“Architetture resistenti. Per una bellezza civile e democratica”, di Tamassociati (ovvero dell’architetto e grafico Raul Pantaleo e della fumettista Marta Gerardi) e dello storico dell’architettura Luca Molinari, ci accompagna in una curiosa e appassionante escursione tra le strutture edificate in Italia con intenzione civili e sociali, con l’intento di dare un messaggio potente, che andasse al di là della semplice funzionalità. Perché la semplice funzionalità non è sufficiente all’uomo, come sosteneva Adriano Olivetti, massimo esempio di imprenditorialità umana (e utopica): “La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza”.
La giornalista Beni Ponti, sfidando la Direzione del giornale per cui scrive, trasforma una serie di articoli sull’architettura in una forma raffinata di protesta. Attraverso la forma più leggera del fumetto, ma dal fortissimo impatto visivo (e planimetrico), ci mostra un’Italia anche periferica (rigorosamente percorsa con auto elettriche, col treno e con la bicicletta portatile) e ci accompagna alla scoperta della Barriera a protezione del Parco archeologico di Selinunte, di Pietro Porcinai; il Museo della Risiera di San Sabba di Romano Boico; lo Stabilimento Olivetti di Pozzuoli progettato da Luigi Cosenza; l’Auditorium costruito da Renzo Piano a L’Aquila appena terremotata; il Museo dedicato all’aereo Itavia esploso a Ustica a Bologna di Christian Boltanski; ai Collegi del Colle, a Urbino, progettati da Giancarlo De Carlo; al Giardino degli incontri nel carcere di Sollicciano, a Firenze, di Giovanni Michelucci.
Queste, e tante altre in Italia, sono tutte opere che si trasformano in una diga, una barriera contro l’abusivismo che serve agli interessi economici di molti ma che contribuisce alla distruzione e al degrado culturale – e pertanto umano – della cittadinanza. E anche un monito, un tentativo di ricordare pezzi di Storia dolorosa e ancora sanguinante, per non far addormentare le nostre coscienze e per farle tornare a pretendere la definizione di “umane”.

Un “7° piano” da cui fuggire.

hop-edizioni-presenta-il-volume-7-piano-di-asa-grennvall-01Giulio Gasperini
AOSTA – Una graphic novel per parlare della violenza contro le donne. Si può. La casa editrice Hop! Edizioni pubblica (2014) in Italia il libro “7° piano”, dell’illustratrice e fumettista svedese Åsa Grennvall, sdoganando il fumetto come dignitosissimo strumento (e manifestazione) di letteratura. Perché il fumetto è agevole, immediato, basato su una sinergia comunicativa di immagini e parole che, in un mondo così iconico come quello attuale, catturano l’attenzione vacillante e stimolano l’impigrita curiosità.
La violenza contro le donne ha bisogno, più che di parole, di gesti forti e concreti, perché crimine odioso, ancora dilagante. Ma la graphic novel della Grennvall è storia opera importante, perché racconta una storia semplice, piana, pulita, senza nessun’altezzosa pretesa. È una storia che può capitarci di ascoltare dalla vicina del nostro pianerottolo. È una storia di quotidianità estrema: ma è proprio in questo recinto, in questo “nido”, che come la cronaca mostra giorno dopo giorno si celebrano i delitti più atroci, le violenze più ripugnanti.
L’amore non è sicurezza. Può trasformarsi in dolorosa schiavitù, in una sanguinante catena di brutalità. Prima si perdonano i primi sgarbi, i primi gesti rabbiosi, poi si finisce per colpevolizzarsi, per attribuirsi la causa della violenza altri: come se fosse meritata, dovuta. E poi si rischia di pensare che l’unica soluzione, l’unica fuga sia gettarsi da quel settimo piano, da quella finestra dietro la quale accade tutto e da fuori nessuno ne vuole sapere niente. E i fumetti della Grennvall, nella linearità di disegno e narrazione, fanno capire bene come siano facili i ragionamenti che innescano tali meccanismi, e di come sia inevitabile approdarvi, prima o poi. L’attenzione della disegnatrice è sempre calibrata su parole e espressioni, sui volti, sui gesti, sulle reazioni espresse che accompagnano e potenziano le parole, i dialoghi. L’immagine diventa doppiamente impattante, cristallizzando l’attimo di maggiore enfasi, di più potente sentimento.
La protagonista della Grennvall riesce a trovare la forza nella sua interiorità per denunciare l’uomo; ha la fortuna di potersi affidare a persone attente nell’ascolto. Ha avuto la prontezza di fuggire “da questa casa galera che mi fa prigioniera” cantava Fiorella Mannoia, in una delle prima canzoni marcatamente e spregiudicatamente femministe (nel senso di femminile come protagonista non succube né dipendente). Ma non tutte hanno questa fortuna, questa determinazione, questa convinzione profonda. Perché come la Grennvall palesa, senza buonismo, il cammino per risorgere dalla violenza è lungo e probabilmente i fantasmi continuano per lungo tempo a infestare mente e cuore, ma la violenza quella fisica, la sottomissione disarmata, il maltrattamento cieco e feroce è una schiavitù da cui ci si può affrancare.