Frontiere e orizzonti sul limite di Lampedusa.

Le rughe sulla frontiera. Lampedusa: restiamo umani!Giulio Gasperini
AOSTA – Lampedusa è un’isola di undici chilometri di lunghezza per 2,5 di larghezza: quasi uno scoglio. È quasi esattamente orizzontale rispetto alla linea dell’orizzonte. È una piega di terra, una ruga che interrompe la frontiera. Proprio quest’aspetto è stata la molla che ha spinto Gianpiero Caldarella, giornalista e autore satirico siciliano, a curare nel 2011 “Le rughe sulla frontiera. Lampedusa: restiamo umani!” per Navarra Editore: una raccolta di vignette satiriche dei più importanti disegnatori e illustratori italiani, da Altan a Vauro, che per il progetto non hanno percepito nessun compenso. Esposte durante l’edizione del LampedusaInFestival, organizzato ogni anno dal Collettivo Askavusa, tutte queste illustrazioni hanno come protagonisti Lampedusa, i migranti, i politici e le tante direzioni dell’umano peregrinare.
Anche la dedica a Vittorio Arrigoni, con il richiamo al suo motto “Restiamo umani!”, morto a Gaza il 15 aprile 2011, è un evidente richiamo alla vocazione ultima di questa raccolta, che vuole proprio essere un’opportunità di riflessione attraverso l’arte, il disegno, il colore. Abbandonando le usuali e più complesse forme di partecipazione, anche arrabbiata, ma concedendosi una pausa. Che pausa, comunque, in definitiva, non è, perché seppur con il sorriso le implicazioni sociali, umane, politiche che stanno alla base di questi disegni sono tutt’altro che spiritose e divertenti. Sono amare, feroci, persino crudeli nella loro capacità di cogliere il lato più disumano e grottesco della vicenda.
Nessun aspetto viene risparmiato, nessuno viene perdonato. Si smascherano le responsabilità e si cerca di far luce sulle cause, sulle conseguenze, sui paradossi e le vergogne della gestione di un’emergenza che emergenza, in realtà, non è. E soprattutto si cerca di fare luce su cosa Lampedusa rappresenti, su quali siano i ruoli di cui è stata suo malgrado investita e quale gioco si porti avanti sulla sua pelle. Ellekappa, Giuliano, Makkox, Staino, Vincino sono soltanto alcuni dei nomi presenti in questa antologia su e per Lampedusa: su un’isola che spesso è teatro aperto e smascherato del caso.
Dal 2011 la situazione è un po’ cambiata: tanti ministri dell’Interno si sono succeduti al Viminale, tante operazioni sono state messe in piedi e portate a termine, è finita l’epoca dei respingimenti in mare e la violazione, almeno, della Convezione di Ginevra sui rifugiati. Ma tante cose, invece, sono rimaste inalterate: come il nostro senso di smarrimento di fronte a quella che assume la sostanza di una gravissima crisi umanitaria e i muri che, dentro la mente e nella realtà, pensiamo di poter innalzare per stare al sicuro. Senza capire mai bene da che cosa.

Il trentesimo anno e un albero da piantare.

Il trentesimo annoGiulio Gasperini
AOSTA – I trent’anni possono essere un momento cruciale, nella vita. Un passaggio che forse può significare la necessità di tracciare i primi bilanci, di gettare uno sguardo sulla strada percorsa e valutarla. Ingeborg Bachmann, una delle più interessanti scrittrici della letteratura del Novecento, ha esplorato l’approdo al trentesimo anno in un racconto lungo di inaudita potenza e profondità. “Il trentesimo anno” (Das dreißigste Jahr) uscì nel 1961, in una raccolta di racconti a cui dette il titolo complessivo. Fortemente autobiografico, vinse tanti premi internazionali e consacrò la scrittrice austriaca.
Nel racconto, il punto di vista è quello di un uomo che si trova a fare i conti con l’arrivo di un’età anagrafica che lo spaventa e lo atterrisce. Si sveglia, alla luce del nuovo giorno, consapevole che qualcosa sta cambiando. Prima “s’immaginava di avere innumerevoli possibilità e credeva, per esempio, di poter diventare qualsiasi cosa”. Pensava che il tempo potesse non finire mai ma andare sempre avanti e avanti. Poi la trappola comincia a stringerglisi addosso, intorno, piano piano. “Non gli basta partire per un viaggio, deve proprio andarsene. In quell’anno deve sentirsi libero, lasciare tutto, cambiare luogo, abitazione e persone”. L’irrequietudine diventa un imperativo morale, un bisogno intenso e potente. Spostarsi, cambiare per cercare di acquietarsi, di scongiurare la crisi.
L’anno procede, le stagioni si alternano in una progressione incalzante e soffocante. E la sua percezione del mondo cambia: “Cercò un dovere da compiere, voleva rendersi utile. Piantare un albero. Generare un figlio”. Assieme a scrivere un libro, le tre cose che anche Garcia Lorca, secondo tradizione, indica come indispensabili per dare un senso alla vita. E proprio il senso della vita il protagonista trentenne ricerca, in questo racconto della Bachmann che è insieme analisi e valutazione, esame e verdetto, ricerca e soluzione. Un precipitare, con una lingua elegante e misurata, in un vortice del pensiero che trasforma l’irrequietudine del movimento in agitazione del pensiero. Però, “come tutti gli esseri umani non arriva a nessuna conclusione”. Destino comune di chiunque cerchi di arrabattarsi con pensieri, meccanismi, derive e approdi troppo complessi e complicati, per l’intelligenza di un singolo. Ma arriva l’incidente; l’imprevisto che crea una rottura nell’evolversi della situazione: un incidente automobilistico lo costringe a letto, ferito e spaccato, con tutte le ossa rotte. Ma proprio allora, tornando a vivere dopo la distratta morte, ha la rivelazione, contemplando un capello bianco che si ostenta nella specchio: “Finalmente si disse: ma io vivo e quel che desidero è vivere ancora a lungo. […] Ma io vivo! Presto sarà guarito. Presto compirà trent’anni. […] Ti dico: alzati e cammina! Non hai un solo osso rotto”. I trent’anni, alla fine, possono essere un momento di riflessione, di paura, di bilanci e di attese. Ma forse nemmeno.

Una partita a scacchi tra due solitudini.

schachnovelleGiulio Gasperini
AOSTA – Sono in molti a considerare come il capolavoro di Stefan Zweig questa “Novella degli scacchi”. Un romanzo breve (o racconto lungo) edito nel 1941, mentre era esule in Brasile, pochi mesi prima di suicidarsi. E forse tra le righe di questo piccolo gioiello si possono persino individuare le ragione di questo supremo gesto.
Anche chi non sia direttamente appassionato di scacchi non può che rimanere affascinato da questa “novella”, nella quale si incontrano due storie che paiono agli antipodi ma che raccontano entrambe di estremi dolori e di devastazione intime. La storia, ovvero, del campione mondiale di scacchi Czentovič, arrogante, venale, con un’infanzia tormentata e solitaria e quella del dottor B., elegante e colto, costretto a sviluppare un talento per resistere alla tortura di una stanza sempre vuota e sempre sola. Il lungo racconto del dottor B. ci vuole consegnare la memoria di una dolorosissima pagina della storia austriaca. Per un uomo amante della pace come fu Zweig fu una ferita feroce la perdita di indipendenza della sua nazione, la sottomissione senza resistenza sancita dall’anschluss dell’Austria a un’ideologia di intolleranza e di ferocia insensata.
Così, nella novella, il Dottor B. fu costretto a sviluppare la sua abilità nel gioco come antidoto alla pazzia, alla follia che lo assediava in quella camera d’albergo dove veniva tenuto prigioniero, sempre interrogato, mai con chiarezza. Ma il gioco era, per il Dottor B., tutto una teorizzazione, il tentativo immateriale di figurarsi una scacchiera. Fino a quando la sua mente non si scinde in due giocatori diversi, nel difficile tentativo di competere con sé stesso, cercando di evitare i disegni mentali, le tattiche, le pianificazioni delle partite: un tentativo, insomma, di cercarsi un compagno nell’assenza che potesse giocare con l’altro sé. Escamotage narrativo delizioso, per poter arrivare a parlare della scissione dell’io, della difficile convivenza e sinergia tra parti diverse che diversamente compongono l’individualità di ciascuno.
Poi, sulla nave, l’incontro con l’altra devastante solitudine, quella di Czentovič: un diverso, diversissimo modo di considerare l’individualità, granitica, ridotta all’essenziale, mai scissa né nevrotica. Evidentemente, per entrambi (ma soprattutto per il Dottor B.) la partita a scacchi diventa metafora di un riscatto contro la vita, di un’ultima idealmente rivincita contro chi ci costringe a decisione che non ci appartengono, a vivere eventi che non ci spetterebbero. Una pazzia, quella del Dottor B., sempre tenuta a freno, quasi sotto controllo, fino all’esplosione totale, alla deriva umana e sociale.
Stefan Zweig ci consegna un ultimo testamento, prima di uccidersi assieme alla giovanissima moglie, in un doppio suicidio d’amore: “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”. Un pessimismo di base, per Zweig, che aveva animato il suo carattere irrequieto ed errabondo, ma anche la sua particolare attenzione alla scrittura.

Yahya Hassan: la poesia violenta di un’identità.

foto-20Giulio Gasperini
AOSTA – È stata la raccolta poetica più venduta in Danimarca. Accanto ai nomi di Karen Blixen, di Søren Kierkegaard, di Hans Christian Andersen, Yahya Hassan ha imposto anche il suo, che campeggia deciso, bianco su fondo nero, sulla copertina della sua silloge (Rizzoli, 2014); che non ha titolo, tranne, appunto, il suo nome. Yahya Hassan è un palestinese, classe 1995, apolide. Il suo passaporto, adesso, è danese. Ma la sua storia è quella di un ragazzo in cerca di un’identità. Una ricerca feroce e tremenda, che lo ha portato in tante comunità adolescenti (“E quanti tutti sono stati picchiati e mandati nelle stanze / si beve il caffè”), separato dai genitori e dai fratelli, in una ribellione continua a una cultura di origine che oramai era lontana e a una cultura di arrivo che lo rifiutava e non lo accettava: “A scuola non si può parlare in arabo / a casa non si può parlare danese”.
Violando qualsiasi regola della netiquette, le poesie di Yahya sono tutti scritte in maiuscolo, quasi fossero gridate dalle pagine bianche. E quello di Yahya Hassan è proprio un grido, feroce, furioso: è una protesta indocile, cruda. L’umanità viene scarnificata, ridotta all’essenziale; e l’essenziale è violenza, spesso gratuita ma in ogni caso pare imprescindibile, irrimediabile. Yahya non si fa problemi nel raccontare aspetti cruenti e mortificanti: tra le righe è però evidente il disagio, il rischio dell’annichilimento, l’ostilità verso un modo precostituito e completamente attrezzato nel difendersi contro un nemico inesistente. Il conflitto con il padre (“Cinque figli in fila e il padre con la mazza”), l’ostilità verso una nuova madre con nuovi fratelli e sorelle (“Ma sua moglie dice / che non devo toccare i suoi figli”), diventa ben presto exemplum di un’ostilità rivolta all’autorità, che comanda e bastone, che impone e obbliga, piuttosto che cercare di comprendere ed armonizzare: “Altri educatori / spaccano il vetro e mi danno una ripassata”.
La lucidità di questo diciannovenne è incredibile, sbalorditiva: “E tu dici che vorresti / non fossimo mai nati”. Meglio di qualsiasi trattato di sociologia o antropologia riesce a coinvolgere il lettore, a trascinarlo in una serie di teorizzazioni (sotto forma di poesia, ovviamente) che riguardano la nostra epoca, i nostri nuovi anni Dieci. L’integrazione fallita, il rifiuto di un modello di meticciato, l’inesistente disponibilità all’accoglienza: “È così che si muove il traffico / fatto in un autobus fermo al rosso al Digterparken / un gruppo di negri scende a Søren Frichs Vej / oltre il ponte – un altro ghetto”; e, di conseguenza, il riaffermarsi di modelli autocratici e razzisti, l’incapacità di gestire l’alterità (“Lo psichiatra controlla a tutti la testa e il culo / e le bocche vengono riempite di psicofarmaci”), l’individuazione di un capro espiatorio che sia “l’altro”, il “diverso”, la minoranza debole e scarsamente difendibile: “13 anni e ricercato salgo su un treno per la Danimarca”.
Spesso, però, come si evince da queste poesie, è la stessa minoranza che non può fare a meno di sentirsi tale: circondata dall’odio, dal disagio dell’incontro, dall’ostilità più o meno aperta rischia di diventare referente di (e a) sé stessa. E di nuovo si richiude in forme ancora più crudeli di esclusione e precarietà: “Sono sonno senza sogni / come una spia in isolamento volontario”.

“Rosso velabro”: la crisi che non è mai diversa.

Rosso velabroGiulio Gasperini
AOSTA – La parola “crisi” è forse quella che più di altre ha condizionato gli Anni Dieci del nuovo millennio. È uno spettro feroce, una parola che non fa quasi più paura (piuttosto, rassegnazione) ma che allunga ombre inquietanti. Perché le crisi ci sono sempre, sempre si materializzano e sempre ci troviamo ad affrontarle, in ogni ambito. Luigi De Pascalis ci presenta un historical-thriller che definire così è pero riduttivo: perché, in realtà, “Rosso Velabro”, edito da La Lepre Edizioni (2010), ci cala in una crisi che ha molti punti di contatto con quella attuale.
Una crisi, infatti, che riguarda identità, valori, sostanza. Una crisi che coinvolge ogni aspetto della vita pubblica e sociale ma anche di quella personale e privata: sospetti, intrighi, menzogne, tradimenti e disfatte. Gli ingredienti sono quelli di un appassionante romanzo da divorare come un bicchier d’acqua: un ritmo frizzante e sostenuto, una passione terminologica da attento studioso, una sapiente costruzione di intreccio e fabula, un appassionante gioco di spostamento di prospettiva e di punti di vista, che tempestano il flusso narrativo e lo frammentano, senza però mai perderlo né inficiarlo. Il tutto in una narrazione spesso pesante e difficoltosa, ma di fondo ben calibrata e finalizzata all’obiettivo, al fine ultimo.
È il 363 d. C. L’Impero romano sta implodendo. È cambiato, l’Impero. Ne è cambiata la società, ne sono cambiati i confini, ne sono cambiati gli abitanti. È cambiato anche il potere che dovrebbe continuare a governarlo e a reggerlo. Ma la teorizzazione è ben più lontana della realtà: le beghe imperiali, i contrasti tra “dirigenti”, le macchinazioni tra chi vuole più potere, l’affermarsi di nuove religioni e nuove società scuotono un’architettura oramai secca, arida, priva di vita che possa rigenerarla e farla tornare a fiorire. In questo ambiente di nuovi riti, di nuove facce, di nuove attese e pretese, la Storia agisce anche su un piano più privato e personale: durante una notte di spettacoli viene brutalmente uccisa Domizia, la moglie del Prefetto dell’Urbe. L’indagine viene affidata all’edile, Caio Celso, che comincerà a indagare con perizia in un fiume in piena, in un ribollire di insoddisfazioni e rabbie, di magie e di perplessità. Omertà, ostilità, magie e maledizioni in un quartiere che diventa palcoscenico dell’umanità interamente intesa: cambiano i fattori ma i responsi sono (quasi) sempre gli stessi: la Storia personale, privata, in contrasto con la Storia universale, come altre volte in letteratura, pare vogliano dirci che i cambiamenti spaventano sempre, ancora di più quando non si sanno affrontare né gestire.

“It’s ok!!”: i fumetti contro l’omofobia.

IT'S OKGiulio Gasperini
AOSTA – L’omofobia si combatte in tanti modi: con l’educazione, principalmente. Ma anche con la lettura: e cosa ci può essere di più veicolante, di più immediato e fresco di un fumetto? Probabilmente nulla. La RenBooks da tempo edita manga (e graphic novel) a tematica lgbt, proponendo in un paese difficile come l’Italia due innovazioni: quello del fumetto e quella della letteratura a tematica, ancora difficilmente sdoganate. “It’s ok!!” è un’antologia di brevi storie, frammenti di vita che quotidianamente accadono, secondo diverse declinazioni e varianti, rivolta agli adolescenti gay ma anche ai loro genitori, che spesso si trovano impreparati e impotenti ad affrontare un momento estremamente delicato e critico nella vita dei loro figli.
Come tutti i manga, va letta al contrario, partendo dal fondo, e da destra verso sinistra: ma a parte questo iniziale scoglio, la lettura prosegue veloce e divertita attraverso le tante storie che con estrema dolcezza e attenzione vengono presentate al lettore. Nulla di eclatante, quasi una sorta di pudore reverenziale nei confronti di quel momento particolare in cui qualcheduno si scopre omosessuale; e di quel momento, ancora più sofferto e feroce, nel quale decidi di non voler più fingere e ti dichiari al mondo, ai familiari, agli amici, ai nemici, come se ci fosse qualcosa di cui dover chiedere scusa. Le indecisioni, i dubbi, le domande, la rabbia, la derisione: tutti i gradini, i passaggi di una presa di consapevolezza che spaventa perché sono gli altri a spaventare, con i loro giudizi, le prese di posizione, i gesti di bullismo più o meno evidenti, gli orgogli antichi di una cultura che tarda a maturare. Non c’è mai sensazionalismo, non c’è mai irrisione né irriverenza in queste trame; tutt’altro. C’è una partecipazione silenziosa ma evidente, un intento di “compartir” che è sempre la soluzione più giusta e più corretta quando ci si avvicina all’intimità di un’altra persona. Nel volume, creato grazie a Produzioni dal Basso, piattaforma italiana di crowdfunding, tra i fumetti di noti artisti giapponesi come Inuyoshi, Hiraku Taku e Kuro Nohara, sono state inserite note informative sulle associazioni che in Italia si occupano di questione lgbt: un utile strumento per chi, magari, avesse il bisogno di rivolgersi a qualcuno per informazioni o chiarimenti.
L’omofobia si combatte in tanti modi, evidentemente. Ma il primo, e il più importante, è sempre la cultura; una cultura sana, una cultura ricca, una cultura attenta alle evidenze, attenta all’individualità e alla sua sostanza, una cultura che sia attenta al mondo: a come si muove e a come si sviluppa.

L’intimità di Frida Kahlo disegnata nel suo diario.

Il diario intimo di Frida KahloGiulio Gasperini
AOSTA – Nessuna scrittura è più intima di un diario. E un diario può essere anche di colori, linee, disegni: pensieri grafici e cromatici. Come quello che Frida Kahlo ha tenuto per gli ultimi dieci, irruenti anni della sua vita. In queste pagine, oggi riproposte da Electa con il titolo “Il diario di Frida Kahlo. Autoritratto intimo” (Electa, 2014) in occasione della mostra in scena a Roma alle Scuderie del Quirinale, Frida ha scomposto e squadernato la sua più complessa interiorità, senza remore né vergogne. Confrontarsi, penetrare nel diario dell’artista messicana non è un’operazione di mero voyeurismo ma un’immersione profonda nella complessità di un’artista che ha trasformato la propria stessa vita in un’opera d’arte, declinando nelle potenzialità immense di pittura e scrittura ogni singolo momento della sua esistenza.
Le tavole a colori e la traduzione del diario ci accolgono in un mondo affascinante e unico, come non ne esistono forse altri esempi. I suoi stessi quasi, i dipinti così tanto amati, affondano le radici violentemente nella sua esperienza personale, nel suo percorso di dolore (fisico, in primis), nella sua esperienza di donna e di artista, di moglie e di madre in potenza, di figlia e di ribelle a un ordine prestabilito. Ma Frida non è solamente un orizzonte di dolore e di sofferenza. Frida è anche profondo humor, ironia, arguzia, spirito dissacrante persino nei confronti di sé stessa. Come nei suoi quadri, l’attenzione è posta tutta sul sé, sulla sua essenza di donna, di messicana, di creatura che sta al centro e contempla tutto quello che attorno accade, riflettendo su di sé di volta in volta il disagio, il dolore, la compostezza, il sogno, la veglia, la sofferenza, la gioia di una potenza creatrice inesauribile. Uno sguardo violante e violento, una teorizzazione in itinere dell’essere creatura umana e nel saper tradurre la realtà personale in un’esplosione artistica senza quasi ritegno, dominata solo da sé stessa e significante solo in sé stessa.
Frida Kahlo è stata perforante non soltanto sulla tela ma anche sulla pagina scritta. I suoi appunti, le sue pagine di diario, le sue lettere sono viranti messaggi, che mai si censurano e mai si limitano nella perfezione della sua indagine interiore. Brevi frammenti, appunti, considerazioni, messaggi consegnati al tempo: il diario di Frida è un percorso unico, un organico procedere attraverso la sua vita stessa, dai primi anni dell’infanzia e dal rapporto col padre e coi genitori, agli altri membri della sua famiglia, alla sua storia d’amore, tormentata ma intensa, con Diego Rivera, agli incontri – tanti, esclusivi – che hanno costellato la sua carriera, da Tina Modotti a Trockij, da André Breton alla sua moglie, ai tanti dottori che l’hanno curata e osservata. Perdersi nelle pagine del diario è un’esperienza diversa dal confrontarsi coi suoi quadri. Il diario è magma incandescente, è sostanza che lotta e combatte per codificarsi in una forma che non è mai scontata né agevole, al primo confronto. Perché la forza di Frida è totale, completa, annichilente ma creativa: “Yo soy la desintegración…”.

“Il vegan in cucina”: vegano senza rinunciare al sapore.

Il vegan in cucinaGiulio Gasperini
AOSTA – Si può cucinare vegan senza rinunciare al sapore. Ce lo insegna Stefano Momentè in “Il vegan in cucina”, edito da Macro Edizioni, ricettario con oltre 300 formule magiche senza l’utilizzo di carne, pesce, uova e latticini. Dura la vita del vegano: rigorosa scelta alimentare che ignora tutti i derivati animali, incluso il miele e il pane quando lavorato con lo strutto. Allora, come cucinare? Cosa inventarsi per avere il medesimo apporto di elementi nutritivi e senza dimenticarsi che mangiare è soprattutto gratificare sé stessi? Facile, con questo ricettario.
Dopo aver spiegato cosa sia la piramide vegana, Momentè comincia a illustrare i piatti, dai fondamentali ai dolci, sicuramente le portate più difficili da sostituire per chi rinuncia a uova, latte, burro. Accanto a ogni ricetta, esaustivamente descritta, uno specchietto riassuntivo con gli ingredienti, il tempo di preparazione e il livello della ricetta, così da poter sempre valutare cosa poter cucinare magari nei ritagli di tempo a cui siamo oramai condannati.
Senza indulgere in foto o eccessive spiegazioni ampollose, le ricette sono semplici ed essenziali, affrontabili anche da chi si può considerare un novello cuoco, in particolar modo nel campo vegano. Interessanti le sals e i patè e i tanti modi in cui si può cucinare il riso. Ampia attenzione è invece rivolta al seitan e al tofu, due alimenti essenziali per chi rinuncia alla carne. Un ricettario, insomma, che soddisferà la fantasia dei vegani ma che incuriosirà e premierà la fiducia dei “carnivori”, offrendo esempi di piatti gustosi e saporiti.
Un ricettario, però, che allo stesso tempo aiuta a far riflettere e a capire meglio la decisione vegan; perché non bisogna mai dimenticarsi che il veganesimo, più che una scelta alimentare, è “una scelta di vita a tutto tondo, priva di crudeltà nei confronti di noi stessi, dell’ambiente e degli animali”.

I nostri 10 Libri per l’estate 2014 per gli incontentabili: “Migrando”

MigrandoROMA – Sono tanti i nostri libri per questa estate 2014. Abbiamo scelto di farci consigliare 10 libri da 10 nomi dell’editoria, della comunicazione e della scuola, arrivando così, per tutta l’estate, a 100 libri. Non contenti, come al solito, abbiamo voluto aggiungerne dei nostri, scegliendo tra quelli che ci hanno regalato piacevoli momenti in questo anno e che vorremmo ne regalassero anche a voi. Questi ultimi sono diventati… #Sonoioiltuolibroperlestate2014, lo slogan che accompagna le nostre migliori letture. Se volete condividere con noi attraverso i social le letture e i libri che vi accompagnano durante l’estate 2014 non dovete far altro che partecipare a #Eccoilmiolibroxestate. Come? Seguiteci su FB!

 

Tra I nostri 10 Libri per l’estate 2014 c’è sicuramente Migrando, il libro di Giulio Gasperini pubblicato da End Edizioni. In questo libro il viaggio, da semplice e poetico andare per piacere e irrequietezza, si fa migrazione, diventa viaggio di speranza, di salvezza e di emergenza. La mutazione prende vita dall’abilità poetica dello scrittore maremmano che ci trascina tra i migranti che non conoscono le parole e che non hanno voce, tra i disperati che nel viaggio cercano l’asilo, tra coloro che spesso, ai nostri occhi, diventano solamente “il problema”.

“Immagina di essere in guerra”: e se i profughi fossimo noi?

Immagina di essere in guerraGiulio Gasperini
AOSTA – Assumere un altro punto di vista non è compito semplice. Né immediato. Come potrebbe cambiare l’angolazione se ci si mettesse dall’altra parte del banco degli imputati? Spesso la difficoltà sta nella paura di sentirsi colpevoli. Il piccolo volume di Janne Teller ci chiama proprio a questo: deporre la maschera dell’ipocrisia, soffocare l’omertà, ripudiare la latitanza e avere il coraggio di capire. E se fossimo noi, in guerra? E se fossimo noi bombardati, inseguiti, uccisi, trucidati? “Immagina di essere in guerra”, edito da Feltrinelli (2014) con le illustrazioni di Helle Vibeke Jensen, ha il formato di un passaporto: il documento fondamentale per scappare e salvarsi. Che noi teniamo distrattamente in un cassetto del comodino ma che per tante altre persone al mondo rappresenta l’unico strumento di salvezza. Pensato anche per i più piccoli, il testo della scrittrice danese è uno strumento potente di pensiero e di riflessione, in un momento storico come il nostro di grandi cambiamenti e di imponenti forzate migrazioni.
In realtà, la nostra immedesimazione non sarebbe così complessa se ci ricordassimo della nostra storia recente, recentissima. Quella dei primi decenni del secolo scorso, di quei 29 milioni di italiani che dall’Unità d’Italia se ne sono andati all’estero, profughi, per cercare un domani migliore. Ma quando osserviamo i barconi che si avvicinano alle nostre coste, la paura dell’invasione ci paralizza, o piuttosto ci scatena un’irrazionale paura. Tutti gli altri problemi, i veri responsabili, finiscono per essere tralasciati in nome di un pericolo inesistente e inconsistente ma più presente, evidente, più facilmente codificabile e identificabile. Non pensiamo mai a cosa possa significare essere costretti ad abbandonare il proprio paese, la propria casa, i propri affetti, i propri familiari orizzonti per affidarsi a un caso furioso, più spesso crudele e feroce che non risparmi nessuno e di nessuno ha rispetto. Che siano uomini, donne o ancora bambini. Se non addirittura neonati. Non ci chiediamo mai cosa possa significare affidarsi a percorsi ignoti, lasciarsi in mezzo alla sabbia e alla confusione delle rotte, consegnarsi a un mare nero che è stretto nella notte e non accoglie, ma al massimo respinge e rompe in naufragio. Non ci chiediamo mai cosa davvero significhi il termine “casa”: “Ma dov’è casa?” si chiede, infatti, Janne Teller terminando il volume, come se la ricerca non finisse mai, indipendentemente dall’approdo, dallo sbarco ultimo e definitivo.
L’Europa (vincitrice di un improbabile Premio Nobel per la pace) fonda i suoi principi su quelli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Tutti gli essere umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Ma così veramente ci comportiamo? Se fossimo noi, in guerra, ci sentiremmo accolti da un paese come l’Italia?