La manutenzione delle maschere e il teatro della società

La manutenzione delle maschereGiulio Gasperini
AOSTA – La poesia ha un ruolo civile e sociale che le appartiene nel profondo. La cultura è politica, perché si occupa anche del “bene comune” e della società, della sua costituzione e anche della sua formazione. Le poesie di Arben Dedja, contenute nella raccolta “La manutenzione delle maschere” (Kolibris edizioni), rispondono a queste esigenze profonde. La poesia fiorisce da un’interiorizzazione e da una prospettiva di soggettività, che però si carica di un valore di testimonianza, di confessione e persino di resistenza di fronte alla tragicità di un mondo dove fingere pare diventata la legge fondante. Le maschere di Dedja sono tutti i travestimenti che le persone continuano a indossare, per svariate ragioni; e le stesse maschere hanno comunque bisogno, periodicamente, di una messa a punto, di un’aggiustatina: per non finire per apparire palesemente maschere, ma per continuare a illudere che la società sia effettivamente quella caricatura che invece si intuisce. Il poeta, in tutta questa situazione, è l’elemento “eversivo”, il disturbo, la pietra dello scandalo che fa aprire gli occhi e osservare con beffardo distacco e malcelato scontento: “Mentre il cittadino R. s’incamminava verso il patibolo / con un bianco foulard intorno alla testa / legato sotto il mento come / le nonne di Tirana” (“Maximilien Robenspierre”).
La poesia di Arben Dedja affonda le sue radici in un atteggiamento ironico e caustico, che prende come primo riferimento la quotidianità (nella società). Ma una quotidianità tutt’altro che scontata, banale; è quotidianità che ferisce, che fa male, che declina la violenza più subdola e ambigua: quella, ovvero, degli oggetti, delle situazioni che dovrebbero farti sentire al sicuro e al riparo e che invece infieriscono e imperversano feroci: “Lo trovarono nel bagno tutto muffa / in quel 25 aprile 1911 / suicida in una specie di harakiri con il rasoio da barba / […] / perché proprio così vince la quotidiana banalità del radersi” (“Emilio Salgari”).
La quotidianità spesso è anche l’arma che scardina e demolisce la storia (particolarmente, quella albanese, come nel brevissimo racconto “Aquila bicipite”) e i suoi miti, in una grottesca presentazione della politica e dei suoi meccanismi deliranti di onnipotenza: “”Quando nel mezzo / di una lunga frase fece una pausa / e respirò profondamente si sentì / il tic-tac / dei tagliaunghie (invenzione cinese)” (“Il disorso del Leader”).
La lingua di Dedja è affilata, come la lama del bisturi che utilizza per la sua professione di chirurgo. È una lingua di cui lui si è appropriato venendo da un’altra lingua materna (“Ma non ci capivamo bene: lui nel suo dialetto / io con la mia lingua letteraria” in “Ispezione chirurhica”). E attraverso questo veicolo, che si dimostra qui più che altrove potente, Dedja costruisce una poesia che sa disaminare e analizzare, scomporre e anatomizzare un’individualità e una società che altrimenti parrebbere semplici errori di funzionamento (“Nuda sopra il tavolo della cucina / freddo il sesso / senza peluria sotto le ascelle. / I seni appena sbocciati / non grossi come quelli della nonna” in “Autopsia di una bambola”): perché sul freddo tavolo del chirurgo ciascun essere umano è uguale all’altro.

La Zweisamkeit di “Anna” e Ezio: due solitudini in una.

AnnaGiulio Gasperini
AOSTA – Un palindromo è un “Verso, frase, parola o cifra che letta in senso inverso mantiene immutato il significato. Come la storia di due solitudini, quella di “Anna” e quella di Ezio, che a un certo punto si sorprendono e si smascherano. Nel nuovo romanzo di Francesco D’Isa, edito da Effequ, si esplora una doppia solitudine, che la pragmatica lingua tedesca riassume nella parola “Zweisamkeit”: “Einsamkeit vuol dire solitudine. […] Considerando che Eins vuol dire uno, e Zwei due, Zweisamkeit vuol dire all’incirca solitudine in due. Duitudine”.
Il romanzo di Francesco D’Isa ha una notevole leggerezza di scrittura, che però fa sprofondare il lettore negli abissi più oscuri e tetri della mente umana. È proprio la mente la protagonista indiscussa della narrazione: in particolare, esiste un collegamento vivissimo e sempre attivo tra i due protagonisti del libro, tra Anna ed Ezio, una paziente l’altro dottore che il caso della vita fa incontrare. Proprio da un’esitazione di Ezio, chirurgo, alle prese con bisturi e radioterapia, lieve come un battito di ciglia, scatena il dramma di Anna, donna di cui si ignora il presente e il cui passato è ancora più misterioso.
Da quel momento, i ricordi della donna si presentano alla sua mente con la consistenza e le immagini dei sogni, a tal punto che quel che dice risulta incomprensibile. E per risolvere il caso, Ezio si mette sulle tracce di una realtà alternativa, procedendo a ritroso e in sottrazione, ponendosi nell’alterità e rinunciando alle sue sicurezze anche cliniche. È un gioco pericoloso, perché fa addentrare il medico in un territorio del quale non conosce la strada per uscirne, però è presumibilmente l’unica maniera per incontrare Anna e per comprenderla interamente. La narrazione spesso si sofferma su momenti di grande solitudine, di confronto con il sé stessi più profondo: è una ricerca complessa e faticosa, che consuma e logora, ma è il punto di partenza per ricostruire. Il tutto è orchestrato in un ben costruito sistema metanarrativo di lettere e narrazioni, che fanno avanzare delle ipotesi e rendono più penetrante il messaggio del romanzo, coinvolgendo il lettore e riservandogli un ruolo da protagonista attivo.
Anna è il personaggio che più calamita, all’inizio: per la sua apparente solitudine, per il suo tentativo di ricominciare dal nulla, interrompendo qualsiasi contatto e rapporto col passato; un passato che subito si manifesta come ingombrante e faticoso, e del quale comprendiamo tutta la gravità procedendo nella lettura. Ma l’accelerazione del personaggio di Enzo è altrettanto interessante e coinvolgente, perché al contrario parte da certezze granitiche per finire sgretolato nell’indecisione e nel dubbio. Due solitudini, appunto, che compiono percorsi da palindromi, in entrambi i sensi. Nella vita degli individui, quello che conta, quello è di difficile gestione, è sempre il percorso; perché gli arrivi e gli approdi, spesso, possono essere confusi e sovrapponibili.

È il tempo della congiura, “Quando Marte è in Capricorno”.

Quando Marte è in CapricornoGiulio Gasperini
AOSTA – “Quando Marte è in Capricorno” è il tempo della congiura. Come quella di cui narra Silvana La Spina nel romanzo edito da Bompiani nel 1994. Ai danni di Federico II di Svevia. La congiura si fa spazio subdolamente nei rapporti tra persone, percorre fredde stanze, valica improbabili e fragili confini e si semina distrattamente per dare grossi frutti. E con la congiura accade un passaggio, una transizione da epoca a epoca che condiziona una società e ne modifica alla base i meccanismi e i rapporti.
Il punto di vista del romanzo è quello di un vecchissimo Jacopo da Lentini, l’inventore del sonetto, la cui vocazione poetica è da lui stesso considerata timidamente come una pausa rispetto alla sua attività (modesta) di notaro. Rinchiuso, quasi in fuga dal mondo, in un’abbazia benedettina della Sicilia, trascorre il proprio tempo nell’affannoso compito di sistemare la sua attività poetica, il suo splendido “Canzoniere”. Alla notizia della morte di Pier delle Vigne, il consigliere più amato da Federico, accusato di alto tradimento, si spalanca la memoria del notaro e l’imperativo più impellente, quello a cui non ci si può sottrarre, è la stesura di una storia, da lasciare in eredità al figlio, su come sia andata effettivamente la storia; tanto pressante da dimenticarsi delle proprie poesie.
Silvana La Spina edifica una narrazione che travalica la storia, creando una realtà più concreta dei semplici fatti storici, dei semplici avvenimenti da calendario. Solo ipotesi, quelle elaborate da Silvana, ma che assumono la potenza di una verità incontestabile, perché animate da una forza narrativa destabilizzante, tellurica. I legami umani, quelli di amore e di amicizia, sono l’origine di un complesso tessuto, di una rappresentazione che richiama quelle del “pittore di battaglie” di Arturo Pérez-Reverte: un affresco unico, un ciclo continuo di vicende e accadimenti che si rincorrono e nessuno è casuale né vano, ma tutti incatenati e incastrati armonicamente per la realizzazione di un disegno superiore. Ma l’importanza della storica fa un passo indietro di fronte alla monumentale narrazione dell’interiorità di quelle stesse persone che, in altri libri, paiono persino svuotate della loro umanità, per diventare eminentemente pedine di uno schema politico e militare.
In “Quando Marte è in Capricorno” Silvana La Spina non avanza pretese di nessun tipo. Soltanto, si concede il beneficio del dubbio di avere più ragione di chi la storia la teorizza e basta. Utilizzando uno strumento ulteriore, quello dell’italiano. Nel romanzo, la lingua è raffinata poesie: un’attenzione puntuale ma non ostentata verso il lessico. Una scelta preziosa di parole e suoni, di significati e significanti, rendono la lettura di queste pagine un piacere anche musicale ed emotivo.

La giungla pittoresca dei premi letterari in “Selezione naturale”.

Selezione naturaleGiulio Gasperini
AOSTA – L’Italia esplode di premi letterari. Bandi e concorsi che allettano e illudono centinaia di scrittori o di aspiranti tali che conquistano pergamene e scarse motivazioni. La casa editrice di Orbetello, l’Editrice Effequ, ha edito una divertente antologia di racconti, “Selezione naturale. Storie di premi letterari” che mette assieme la genialità di scrittura di numerosi giovani scrittori toscani. I racconti, curati da Gabriele Merlini, hanno tutti come tema la scoperta e la conquista di un premio letterario da parte di scrittori spesso in erba, o da affermati narratori che, loro malgrado, sono nominati giudici e devono alimentare le illusioni di scribacchini vari.
La passione per il premio letterario ha una fenomenologia tutta sua, tutta particolare, tutta divertente e totalizzante. Stupefacente il realismo adesivo di Marco Simonelli, nel suo racconto “Patologia del premio di poesia”, dove la febbre del premio si fa accelerazione all’ironia. La fortunata stesura di un racconto, che detta il successo di uno scrittore per tutta la vita, nel racconto “Un racconto vincente” di Francesco D’Isa, è metafora di tanti premi dei giorni nostri, quando per vincere basta fin troppo poco e la fama è assicurata da praticamente nessun talento di scrittura. “Essi scrivono” di Alessandro Raveggi è invece parodia di una società di scriventi ma non di leggenti, di persone che credono tutte di aver qualcosa da dire ma che non si interessano a quello che hanno detto gli altri, in un solipsismo così esclusivo da risultare ridicolo. E poi ci sono anche i premi subito ripudiati, come nel caso di Vanni Santoni e nel suo “Il forca”, dove un intero romanzo, sudato in ogni pagina, finisce nel secchio dell’immondizia prima dell’ultima revisione.
Questi racconti, spietati e intelligenti, rendono uno specchio abbastanza convincente di un certo mondo letterario della nostra penisola, quello dove si nutrono false speranze e si premiano amici dei giurati; un mondo dove non si salvano neppure i premi ritenuti più importanti e blasonati, perché tutti finiscono nei medesimi meccanismi di interessi e visibilità editoriali. Una giungla è il mondo dei premi; una giungla dove le illusioni sono tante e i tentativi di rapina ancora di più. Basta prenderli un po’ con la giusta ironia e con una sana propensione all’indulgenza.

“La confessione”: il noir come esplorazione dell’umano.

La confessioneGiulio Gasperini
AOSTA – Un omicidio nella casa dei salesiani al Valdocco, a Torino; un ragazzo romeno che confessa subito; un investigatore (ex maresciallo dei Carabinieri) che indaga ma pare non scoprire nulla di strano: sembrerebbe che la morte di don Feronato non abbia nulla di anomalo. Ma, all’improvviso, si spalancano abissi umani nascosti e affiorano verità fino a quel momento insospettate. Ecco gli ingredienti del romanzo “La confessione” della torinese Giuliana Olivero, edito dalla casa editrice END Edizioni, di Gignod, piccolo paese della Valle d’Aosta, come primo volume della nuova collana “GialloAlpe”.
Il noir è un genere che si squaderna ampiamente, oltre la trama: la scoperta del colpevole è soltanto un aspetto, probabilmente persino trascurabile. Quello che nel noir interessa e colpisce sono i meccanismi di risoluzione, gli sviluppi, le articolazioni dell’umano che si declina e manifesta in varie gradualità. Giuliana Olivero ha, in questo senso, la capacità di tratteggiare raffinatamente la psicologia dei personaggi, in particolare quelli dell’ex maresciallo valdostano Hervé Farcoz e della sua socia Odetta Giachery: i particolari, i dettagli, le sfumature compaiono durante l’azione, seguendo il filo delle indagini. Non soltanto si compiono tentativi (e passi in avanti) nella risoluzione dell’enigma, ma si edificano le complesse architetture personali e interiori. Questi personaggi, però, abitano in un mondo ben più vasto, dove le incognite e le perplessità di si spalancano, lasciando intravedere inquietanti verità. È questa la sorpresa del noir: cercare di dare un senso al caos, ricomponendo una realtà che non è facile da ristrutturare perché densamente gravida di incognite e perplessità. Non è l’ambiente del giallo, dove la scoperta del colpevole fa tirare un sospiro di sollievo e ricrea (o almeno così c’è l’illusione) una realtà tranquilla e composta.
Giuliana Olivero ha una scrittura essenziale e uno sguardo ironico: non c’è nulla di superfluo né inutile in quello che racconta. E questo aiuta l’inabissarsi nelle profondità delle persone, dei loro segreti, dei loro legami, delle reazioni e dei pensieri che riguardano tutti. “La confessione” si legge divorandolo, macinando le pagine, assecondati da una curiosità irresistibile su cosa sia quell’elemento che ancora manca, che ancora non è stato compreso, su quello che ancora non è stato svelato; ma che c’è, come quel pensiero che girava, irrequieto, nella testa dell’ex maresciallo senza palesarsi.
Sullo sfondo c’è una Torino multietnica e affollata, una Torino dai grandi androni e gli eleganti colonnati ma anche dai mercati straripanti di venditori e compratori, di nuovi e vecchi cittadini; ma c’è anche una Valle d’Aosta lontana ma vicina (e sempre presente) soprattutto nei ricordi d’infanzia, di un passato che pare condizione tutelata e protetta, al quale puntare per chiudere il conto con sé stessi.

“Love song” e la fenomenologia del nuovo matrimonio.

Love songGiulio Gasperini
AOSTA – La storia di Federico Novaro è nota, approdata persino sul più grande palcoscenico della televisione italiana, quello di SanRemo. In molti si ricordano quei due uomini che raccontavano in silenzio, con modestia e persino con timidezza, attraverso raffinati cartelli, la storia del loro incontro, del loro innamoramento, della decisione di sposarsi. “Love song”, edito da ISBN Edizioni (2014), proprio come recita il sottotitolo, è la “storia di un matrimonio”, quello di Federico e di Stefano, celebrato a New York perché qua, in Italia, non è possibile. Come non è possibile nessun’altra forma legale di unione per due persone che siano dello stesso sesso. Federico Novaro sceglie di raccontare la storia sua e di Stefano preoccupandosi anche di discutere e di esaminare il concetto di “matrimonio”: istituzione che, oramai, è cambiata, al cambiare della società, perché dalla società stessa è stata definita e non può esentarsi dal cambiare lei stessa.
L’analisi di questa particolare istituzione va di pari passo, nel percorso di Novaro, con l’analisi di altri aspetti che completano e caratterizzano la società italiana attuale: dall’omofobia alla necessità di avere dei figli (negata agli omosessuali), alla presunta “normalità” che non esiste, ma che è semplice costrutto sociale. Il ragionamento di Novaro procede per domande, provocatoriamente rivolte ai lettori; questioni aperte e significative, che spesso vengono intenzionalmente sabotate dalla maggioranza dei “pensanti” e degli “opinionisti”. Il racconto della sua storia privata, della sua personale esperienza di marito anomalo, è incastonata in un’ottica ben più vasta: Federico e Stefano si scoprono presto coppia pubblica, il loro un gesto che si guadagna l’importanza della ribalta e diventa prezioso per chi si trova in quella medesima situazione; ma non solo. È un gesto che spezza l’omertà e riporta il discorso all’interno di binari dolorosi per tutti, per varie ragioni: per chi viene scoperto nell’oggettivo errore di una strenua difesa anacronistica (potente perché “legale”) e per chi, invece, deve ancora lottare contro codesta difesa e non ha dalla sua armi legislative.
Quella di Federico è finanche la confessione di chi, in nome di un’ostilità anti-borghese (vista come maggiore impedimento e strutturazione sociale giudicante di certe alterità), rifiutava il matrimonio proprio come concetto e poi invece si arrende all’idea che, tutto sommato, la libertà sta proprio nell’aver a disposizione certi strumenti e nel decidere se utilizzarli o meno. Perché il punto centrale sta proprio qui: non si discute tanto se il matrimonio possa essere utile, necessario, una scelta intelligente o una boutade; si discute sulla mancata possibilità per certe persone, nel nostro paese, di accedere a dei diritti che invece appartengono soltanto ad altri (che spesso li trascurano o li maltrattano): “Non c’è alcun dubbio che il matrimonio mantenga dei caratteri sessisti ed eterosessisti, e che il sostenerlo sia una battaglia dai tratti conservativi, ma ecco: prima facciamo che possiamo fare tutt’e due la stessa cosa, poi, magari, cominciamo a demolirla”. E i diritti, secondo un criterio che potrebbe essere persino giuridico, o sono di tutti o non sono di nessuno.

“Alla ricerca di un cuore”: il dramma di una famiglia.

Alla ricerca di un cuoreGiulio Gasperini
AOSTA – Le famiglie sono un luogo inospitale. Le famiglie sanno essere dispotiche e tiranniche, anche laddove si notano amore e devozione. Le famiglie sono spesso alle base di ogni problematica si sviluppa negli individui con il trascorrere del tempo. Il primo romanzo della giovanissima Manuela Melissano, edito da Lupo Editore nel 2013, ne è una narrazione dettagliata: in “Alla ricerca di un cuore” una ragazza appena ventenne di Lecce parte per la Francia con l’obiettivo di ritrovare sua sorella, scomparsa quando era molto piccolo, della quale non si avevano più notizie.
Manuela Melissano cura la scrittura, costruisce solidi personaggi a tutto tondo, sviluppa una trama che tiene appassionati anche se cede, qualche volta, a una specie di rassicurante ingenuità. Gli incontri sono fondamentali perché rischiarano lo sviluppo della storia e lo fanno proseguire a ritmo sostenuto e determinato. Sono proprio i personaggi che si caratterizzano per spessore e determinazione, in un’umanità densamente e fittamente popolata ma che offre esempi di tutte le tipologie e di tutte le variabili. I legami e i rapporti sono analizzati e discussi, quasi passati sotto la lente di uno scienziato. Anatomizzati con la fredda lama di un bisturi.
La narrazione, anche se ancora un po’ acerba, prosegue compatta e si dà forza mentre lentamente la protagonista, Elisa, scopre l’assenza di una sorella mai conosciuta e si delineano i rapporti di gelosie e di vendette che avevano covato nella sua famiglia, sotto le ceneri, come un incendio mai domato. Quella di Elisa non è soltanto un’indagine fortunata ma anche una ricognizione nei luoghi del dolore che appartengono a ogni nucleo familiare, a ogni relazione umana, a ogni contatto e scambio di sentimenti. E tutta la narrazione viene inquadrata in una cornice narrativa ben più ampia, in cui la scrittrice (che è Manuela Melissano) viene spinta dallo “spirito” di Elisa (la narratrice) a raccogliere le sue memorie di questa storia tanto strana quanto ahimè potenzialmente comune.
La ricerca della sorella diventa indagine persino di sé stessa, una sorta di formazione continua per l’edificazione di nuova “io”; la presa di consapevolezza che al mondo esistono percorsi accessori e impervi, che ci troviamo spesso di fronte a un bivio, a una strada a forma di “y”, come Elisa stessa confida nel libro. E sullo sfondo ci sono la disperazione e il dramma di una famiglia alla quale sparisce una figlia: storia simile a molte storie vere che sono accadute e che accadono nel nostro paese e che hanno popolato le cronache nere di riviste e telegiornali, dalla piccola Angela Celentano alla più recente Denis Pipitone.

Le strade del Morellino: quando il vino è appagamento sensoriale.

Strade del MorellinoGiulio Gasperini
AOSTA – Senza dubbio è un vino tra i più famosi al mondo. È uno dei più pregiati e dei più apprezzati. Ma anche, uno dei più “misteriosi”. Qual è il vero Morellino? È una questione ancora aperta e dibattuta, che non ha un epilogo sicuro. Il Morellino non ha ancora una definizione. Matteo Teodori ha percorso le colline maremmane incontrando e parlando chi col Morellino ci lavora e ha un legame speciale: produttori, agricoltori, imprenditori di uno dei vini più affascinanti che esistano. E ne ha scritto un libro esile e incalzante: “Strade del Morellino. Storie e avventure di un vino famoso nel mondo”, edito dalla casa editrice orbetellana Effequ (2014) nella collana “Ricettacoli”. La narrazione prosegue liscia e vellutata, proprio come un bicchiere di vino, che soprattutto in compagnia tiene accesa l’atmosfera e aiuta la conversazione. A intervallare il racconto, varie ricette tipicamente toscane che prevedono l’accompagnamento di questo vino rosso e robusto: dalla salsa di fegatini allo stracotto di cinghiale alla scottiglia cucinata già, pare!, dagli Etruschi. E sono proprio gli Etruschi il leggendario popolo che, secondo alcune teorie, ha introdotto la coltivazione della vite, anche se i dati più certi e sicuri sulla produzione risalgono all’epoca romana, quando i vini prodotti in queste terre venivano commerciati in tutti i porti del Mare Nostrum, come testimoniano le tante anfore che riportano il marchio SEST, ovvero della famiglia dei Sestii, nobili che operavano nelle zone rurali della Maremma. Teodori ripercorre tutta la storie e le alterne vicende di questo vino con ineccepibile maestria, mostrandoci come siano complessi i meccanismi dell’enogastronomia e del gusto. Estremamente curiosa e interessante anche l’“inchiesta” su quale sia la vera ricetta del Morellino, quali i vitigni, quale la composizione, quali le dosi e i rapporti. Perché, in realtà, pare che ancora nessuno abbia le idee molto chiare sulla formula magica che crea uno dei prodotti più deliziosi dell’enogastronomia italiana. A renderla ancora più concreta, sono le parole delle persone che con il Morellino vivono e lavorano direttamente, che hanno scelto la coltivazione della vite e la produzione di questo capolavoro che tutti conoscono e il cui nome rotola sulla lingua di ognuno con estrema soddisfazione. Gli stravolgimenti climatici che hanno colpito l’Italia in generale e la Toscana nel particolare senza dubbio non gioveranno alla sopravvivenza del Morellino. Però rimane sempre in testa la frase del grande Leonardo, che aveva capito l’importanza della vite per del suo prodotto: “Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni”.

“La testa aspra” in un’aspra società.

La testa aspraGiulio Gasperini
AOSTA – “La vita agra”, intitolò Bianciardi. Era un periodo (e una società) di sofferenza umana, lavorativa, professionale; ma non creativa. Si emigrava per trovare qualcosa e si soffriva del distacco. “La testa aspra”, ha intitolato Filippo Parodi questa raccolta di brevissimi racconti, edita nel 2014 da Gorilla Sapiens Edizioni. Quasi una sorta di mitragliata narrativa: frammenti aguzzi e taglienti che sono sparati in ogni direzione, come i ciuffi di una testa aspra che chissà quali pensieri partorisce: “Puntando lo sguardo al cielo lo invoca, quasi supplicandolo di sostituirsi con la sua violenza celeste ai pensieri, ai campi di sterminio che produce senza interruzione la mente”.
Filippo Parodi tenta attraverso questi racconti di presentarci sfaccettature multiple (e complesse) di una società che oramai è diventata multipla (e complessa) nonostante la banalità del vivere. I punti di vista che assume nei racconti sono ammiccanti, particolari, danno persino il capogiro di una distanza alla quale non si è abituati. Sono personaggi improbabili ma attuali, assurdi nella loro precisa conformazione contemporanea. Sono azzardi, persino: forzature di un quotidiano che non ha più nulla di a-normale ma che oramai è piena norma e definizione.
Troviamo la gratuita crudeltà di un controllore di autobus che riesce a imporsi soltanto contro un’anziana signora carica di borse della spesa e dalle caviglie gonfie (mentre tutta l’altra società la respinge e la contrasta, in nome di una legalità falsata dalla prospettiva); troviamo un’appassionante narrazione della dimenticata vita della dimenticata Rosalba Bonelli, cantante folk della profonda provincia trentina; troviamo una varia umanità che cerca di sopravvivere, con i mezzi che ha, alla crudele realtà di una società come quella attuale, dove paiono scomparsi tutti i punti di riferimento, gli obiettivi, i significati profondi, i modelli, gli esempi e le giuste prospettive.
Aspro è anche il linguaggio, ma ancora di più lo stile, il procedere incalzante di frasi brevi e incisive, quasi lame che affondano danno dolore e lasciano un segno non eccessivo ma significativo. Aspro è il ritmo che Parodi usa per dare corpo e sostanza a quest’umanità improbabile e a tratti allucinata, azzardata, imperdonabile ma anche da guardare con compassione e arrendevolezza; sempre al limite del giudizio tra buono e cattivo, tra giusto e sbagliato, tra sensato e completamente privo di senso.
Ma quest’umanità cerca o no l’assoluzione? È alla ricerca, o no, di un perdono, di un’altra occasione, di un riconoscimento pubblico che la autorizzi a continuare così? Forse no. Ed è questo l’aspetto più allucinato dei racconti di Parodi: come a dire che, ahimè, è così e poco si può fare per cambiare.

“Le regole della rosa” in una poesia naturale.

Le regole della rosaGiulio Gasperini
AOSTA – La poesia di Emilio Paolo Taormina è una poesia del silenzio: i suoi sono componimenti brevi, schegge di immagini che esplodono in una manciata di parole e rompono la superficie, come fa un sasso con l’acqua di un lago. In “Le regole della rosa”, edito da Edizioni del Foglio Clandestino nel 2014, la poesia di Taormina si concreta in tanti frammenti di scenari, in brevissimi nuclei di significati e significanti che spesso partono e gemmano da un’esplosione naturale, da una componente vegetale o animale, o anche solo cosmico-astrale, che rischia di configurarsi come correlativo oggettivo di un interiore e non espresso sentimento.
I rumori si placano nella poesia di Taormina, lasciando spazio all’occhio che si spinge in profondità, fino a cercare di cogliere i significati più profondi e complessi: “All’alba / la luna è una / medusa / un tamburo / senza suoni”. Anche quando vengono evocati aderiscono alle immagini, saldandosi assieme e creando un’evocazione unica: “Per le scogliere / all’alba / i gridi / dei gabbiani / sono grigi / affilati / come lame”. Più che suoni sono messaggi, si concretano in immagini estreme, audaci e feroci: “In questo freddo / di neve / i tocchi / delle campane / sono freddi / come coltelli”. La bocca si secca, le parole sono vuote, prive di significato, il vocabolario perde la sua funzione e non rimane che rimanere muti: “Le parole / dei marinai / seccano al sole / odorano / di alga e di sale”.
È la Natura il metro di tutto, è lei che dà cadenze e ritmi, è lei che dà il valore e che amministra i ruoli. Può essere persino la misura di una solitudine umana: “È cresciuta / l’erba / sul viottolo / che porta a casa / nessuno / viene più / a cercarmi”. La Natura diventa persino ricordo, fragile reliquia dell’illusione del tempo che inesorabile trascorre e accelera: “Resta appena / l’aroma dei limoni”. È persino vettore di emozioni tra il poeta e il tu di riferimento, figura non definita e sfumata che è musa e destinataria delle sue parole: “Il cielo del mattino / azzurro cenere / sorge / dai tuoi occhi”. Fino ad arrivare al massimo di uno straordinario panismo, un’identificazione totale tra umano e naturale: “Tu sei donna / e stella marina”. È la Natura l’entità suprema contro la quale ci si trova a combattere per salvare ogni singolo aspetto del noi; ma è anche una battaglia già persa, una sconfitta irrimediabile: “Giocheremo / con la sabbia / e le foglie morte / del giardino”. Perché la Natura è anche ferina, animata da uno spirito selvaggio che non rinuncia alla vita, non depone mai le armi senza lottare all’ultimo respiro: “La volpe / azzannata dai cani / è venuta a morire / sotto il noce / nella bocca serrata / ha dell’ultima lotta / un respiro gelato / è sempre difficile / capire / dove finisce la vita / e inizia la morte”.
Ma l’uomo, ovviamente, la Natura la ferisce, la strazia, la viola: “Sacchetti / di plastica / lattine / accartocciate / una bottiglia / su una panchina / il silenzio / è una piaga / dolorosa”. L’uomo cerca di trasformare la Natura in un suo possesso, in uno strumento e arma per alimentare le sue bassissime pretese: “Ho seminato / semi di ortica / sul tuo corpo / in modo / che nessuno / possa abbracciarti”. Ma ogni uomo torna nella Natura, a compimento del suo naturale destino: “Ora siamo / polvere di rose / cenere di radice / anche una piuma / rema l’aria / varca la porta / del tempo”. Nello stesso modo, alla fine, in cui si consuma la poesia, destinata a estinguersi: “Il vento storce / la pioggia / scudiscia gli ulivi / mansueti / dentro di me / un fuoco / brucia / parole e versi / come quaderni / sulla brace”.