Giulio Gasperini
AOSTA – Il libro è anche cultura materiale, oggetto che invade e colora spazio, che abbellisce, arreda e affolla le librerie. Questo aspetto è dirompente nel lavoro di Keri Smith, edito in Italia da Corraini Edizioni con il titolo “Distruggi questo diario (dove vuoi)” con il sottotitolo: “Creare è distruggere”.
Il libro è, in effetti, una specie di diario con pagine “interattive”, nelle quali, cioè, non si trovano stampate parole, storie, pensieri dell’autore ma si trovano delle “istruzioni” per poter “utilizzare” il diario nella sua più estrema fisicità. Una serie, cioè, di imperativi per arricchire l’esperienza sensoriale e di vita. “Segna qui i numeri che vedi in giro”, “Strofina un po’ di terra qui”, Spiaccica qualcosa di colorato su questa pagina”, “Mentre aspetti (del cibo, un aereo, un tuo amico), scrivi un elenco di ciò che ved”.
Le pagine, le vere pagine bianche, si devono sporcare, bagnare, bucare, strappare, scrivere e cancellare, per lasciare una traccia, l’esperienza di un’avventura, di un incontro, di una visione. C’è spazio per tutto: per la vegetazione, i fiori, il fango, la neve e la pioggia. Il diario di Keri Smith diventa ricettacolo e recipienti per ogni manifestazione di concreta natura, di traccia sensoriale, di esperienza concreta che si possa fare vivendo la propria vita, come fosse in parte un romanzo, una storia.
“Distruggi questo diario” diventa un diario di bordo, il racconto di una quotidianità che altrimenti cadrebbe dimenticata se non dissimulata. Non è il sacrificio e la brutalizzazione di un libro ma la costruzione anche di una propria identità che parte dal concetto più materiale di letteratura. È un espediente per dare di nuovo valore alla propria esperienza personale, senza dover elemosinare più nulla da quella creata appositamente da altri, e da altri narrata.
“Trova un modo per portare questo libro dappertutto”: è un oggetto che ci dovrebbe seguire, accompagnare in ogni nostro orizzonte, su ogni strada, in ogni cammino che ci troviamo a calpestare ogni giorno, nelle nostre quotidiane migrazioni. Questo diario è una nuova frontiera del libero e della narrativa: una storia che non si ferma nelle pagine, ma che si narra con le prove tangibili della nostra esistenza.
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Amore e gli altri guai che sono di tutti.
Giulio Gasperini
AOSTA – L’amore appartiene a tutti. E persino i guai, gli impicci, gli accidenti, le difficoltà che ne sono il corollario. Rivendicarsi l’unicità della condizione di innamorati è da ipocriti (o, forse, ancora di più, da folli). Questo pare essere il messaggio del romanzo di Prisca Turazzi, L’amore e altri guai, edito da Milena Edizioni (2013). Assumendo di volta in volta il punto di vista e la voce narrativa di Filippo e di Francesco, in un procedimento narrativo a tratti spiazzante ma motivante, la Turazzi racconta la storia di una personalità già definita e di una in via di definizione, che si misura principalmente nella diffidenza (e nella resistenza) a sé stesso.
Un pomeriggio fuori dall’ordinario trasforma la vita di entrambi i ragazzi, in un continuo rincorrersi, afferrarsi e abbandonarsi che è paradigmatico del rapporto amoroso quando comporta un’accettazione difficile del sé. Interessante, dunque, diventa proprio lo scandaglio e l’analisi a cui Filippo si sottopone per poter capire di chi e di che cosa ha veramente bisogno, al di là delle imposizioni e delle definizioni nelle quali si vorrebbe agevolmente vivere, senza dover faticare per starne al di fuori. E come sfondo, un’umanità chiassosa e divertente, che affolla una Milano universitaria e ruggente, popolata di sogni giovani e di sentimenti genuini.
Quello di Filippo e Francesco, più che un viaggio, è una discesa ad altissima velocità in cambiamenti radicali che possono persino rivelarsi drammatici, sofferti. Sono pagine che raccontano di un quotidiano, di un’esperienza così diretta, che in molti potrebbero riconoscersi, in quegli anni complessi del cambiamento che quasi sempre si sovrappongono agli anni universitari e alle prime illusioni di indipendenza, anche familiari. La famiglia è stranamente assente da questo romanzo, che indaga soprattutto una presa di consapevolezza e una rinascita interiore, che passa attraverso volontari fraintendimenti e tremende negazioni. L’amore è un gioco di azioni e reazioni, un rischioso turbinare di atteggiamenti e portamenti, di cose dette e pensate, di taciute e svelate, di battiti e respiri: perché l’amore è una globalità che non conosce esitazioni, una totalità che mai più essere frammentata né accolta in forme parcellizzate.
Spesso nella letteratura LGBT si rischia di incorrere in una serie stereotipata di argomenti e cliché, anche in chi invece si intende aderente alla causa; se questo rischia di capitare alcune volte anche in L’amore e altri guai, la freschezza del narrato e l’evidente coinvolgimento autoriale ne scongiurano la frana.
“Ricordarmi di”, tra aforismi e appunti sparsi.
Giulio Gasperini
AOSTA – “Ricordarmi di”, di Yves Pagès, edito da L’Orma Editore, è come fosse una raccolta di post-it colorati; una serie di promemoria, di appunti, di anomali aforismi per non dimenticare dettagli importanti, particolari imprescindibili, minuzie che diventano pietre angolari.
Attraverso un incalzante procedimento anaforico, che diventa quasi salmodiante, lo scrittore francese, famosissimo Oltralpe, inanella e squaderna una serie di considerazioni, personali e generali, sul mondo che si organizza e si sviluppa attorno a lui, squadernando un campionario vasto ed eterogeneo: si va da ricordi personali, dell’intimità e della quotidianità dello scrittore (ricordi della nonna e dei genitori) a post di rilevanza sociale, politica e civile. Persino satira, nei suoi scritti, come il post dedicato all’origine rom del cognome Sarkozy. O che riaprono ferite mai sanate della storia francese, come il post sulla Guerra d’Algeria e i campi di concentramento di Reggane, Oued Namous e Aïn M’guel. C’è la polemica religiosa (il post dedicato a San Luigi di ritorno nel 1254 dalla Crociata e all’ordinanza di tingere i capelli rossi delle prostitute) ma anche la polemica ambientalista, come nel post che riguarda la morte atroce delle api a causa dell’utilizzo dei pesticidi in agricoltura. Molti post, ancora, sono dedicati alle migrazioni e ai migranti, mettendo in evidenza, con affondi profondi e senza possibilità d’appello, le mancanze e i peccati di un occidente smemorato. C’è un po’ di tutto, in questo libro (anche se c’è molto – forse troppo, per noi – del mondo e della società francese), come fosse una miscellanea di punti di vista, di considerazioni, sempre però condotti dallo stesso sguardo spietato e severo, che sa individuare i nemici e li sa sbaragliare senza concedere loro nessuna possibilità di difesa né di rifugio. Gli attacchi sono affondi, diretti e consapevoli, talmente repentini da sembrare morsi velenosi di serpente: dopo, rimangono pochi secondi di vita, e pochi passi ancora da fare per poter tentare una fuga.
È una collana di perle, questo libro. Da centellinare e non divorare, da meditare e non fagocitare nello scorrere sfrenato della vita. E proprio qua sta un’importante chiave di lettura: la fruizione è la calma, la lentezza, il lungo respiro. Come antichi testi di proverbi e salmi, di sentenze e motti popolari che nascondono una ricchezza di visione e di valutazione.
Il modello parodiato pare essere quello della nuova comunicazione globale, in particolare dei post di facebook e dei cinguettii di twitter; è lo scrittore stesso, in un post, che però ne fa il verso e ne mette in evidenza la distanza: “Di non dimenticare che nessuno di questi Ricordarmi di rispetta il tetto di 140 caratteri di Twitter, tranne questo”.
Un tesoro, una ricchezza, questi appunti di Yves Pagès. Perché offrono la possibilità, a ogni lettore, di cominciare a considerare quanto importanti siano i dettagli della vita di chiunque; e di quanta letteratura inconsapevole, spesso, possa esserci dietro.
La scuola è mondo, tra aula e strada.
Giulio Gasperini
AOSTA – La scuola, in Italia, è sempre al centro delle più roventi polemiche. La sua riforma, di solito, accompagna l’insediamento di ogni nuovo governo, che sia di centro di destro o di sinistra. Spesso si susseguono senza lungimiranza né programmazione, con il solo scopo di dar l’impressione di star riformando qualcosa. Ma la riforma non è necessariamente collegata a un effettivo miglioramento della condizione di partenza. Spesso, invece, è stato – soprattutto con la scuola – l’esatto contrario. Marco Rossi-Doria, maestro elementare e co-fondatore del progetto Chance, Sottosegretario di Stato all’Istruzione dal 2011 al 2014, ha dialogato con Giulia Tosoni in questa lunga intervista edita dalle Edizioni del Gruppo Abele di Torino nella collana Palafitte: “La scuola è mondo. Conversazioni su strada e istituzioni”.
L’esperienza di Marco Rossi-Doria è un’esperienza avvincente: il progetto Chance, tra gli altri, ha permesso alla scuola di aprire le porte delle aule e di riversarsi nelle difficili realtà di zone d’Italia dove l’abbandono scolastico è ancora una piaga sociale. Una scuola sociale, cha ha i suoi predecessori e modelli in don Milani e Mario Lodi. E proprio una scuola sociale, una scuola che ha un ruolo politico, di costruzione di identità e modelli per consolidare e arricchire la società, è il punto focale e centrale della lunga conversazione tra Rossi-Doria e Tosoni. Le sei sezioni in cui l’intervista è stata suddivisa, toccando aspetti diversi dell’argomento scuola, sono legati tutti dall’idea che “l’educazione è una funzione umana naturale perché universale. Ma hai anche una missione, socialmente fondata”. Perché “la scuola è un luogo sociale, di costruzione sociale e di apprendimento svolto insieme”. E il maestro ne è la guida, ma anche un artigiano che deve affinare pratiche e inventarsene altre, perché il questo “mestiere” ha un carattere creativo.
Secondo Marco Rossi-Doria la scuola dovrebbe abdicare dal quel suo compito, piuttosto sterile e fallimentare, di “trasmettitrice di nozioni”, rendendosi protagonista di un cambiamento che non si difenda dai bambini, dalla loro creatività, dalle loro esigenze e richieste. A cominciare dagli insegnanti, che Rossi-Doria indica come gli attanti principali nel processo di educazione e apprendimento. “Va fortemente scoraggiato – non solo durante la formazione per diventare insegnante, ma anche dopo che si è entrati a scuola – chi si ostina a credere che un gruppo di bambini o ragazzi possa acquisire gli strumenti per leggere e cambiare il mondo perché un signore più grande glieli ha semplicemente ‘spiegati’”. Questo perché l’insegnante, secondo Rossi-Doria, è “immerso in un artigianato emotivo e cognitivo insieme”. La scuola diventa spazio non solo di conoscenza ma anche di incontro e confronto, di crescita e costituzione della cittadinanza attiva: “Creare, migliorare, custodire e manutenere questo contesto, che vede l’azione dei docenti, ma soprattutto l’incursione quotidiana di ogni bambino e dei bambini tutti insieme. È la prima cosa che va mantenuta, stimolata e promossa in ogni scuola della Repubblica”.
L’ideale è ottimo, ma la nostra realtà a che punto è?
Sulla stessa strada di Steve McQueen
Giulio Gasperini
AOSTA – Ognuno di noi ha un modello: una figura di riferimento che ci orienta e ci motiva nelle scelte, fatte anche per spirito di emulazione; per poter soltanto avvicinarsi a quella grandezza altrimenti inesistente e inconsistente. Steve McQueen è il mito di Paolo Amir Tabloni, che nel romanzo “McQueen Boulevard”, edito da Epika Edizioni, ha immaginato un ragazzo, un modello, che di Steve McQueen cerca di seguire le orme e il percorso.
È una storia di ribellione, quella che ci racconta Tabloni; una storie di fughe che non sono sconfitte ma semplicemente imperativi morali. Un modello, bellissimo, vive la vita che si presume un modello debba vivere: alcol, sesso, sfrenatezze, eccessi. Una vita che produce solo sofferenza e ribrezzo di sé, degli altri, di un mondo che dà privilegi ma soffoca le verità.
Inizia, allora, un’avventura on the road continua e incalzante, accelerata verso una libertà sperata e desiderata come una terra incontaminata, ancora tutta da battezzare. Inizia un’avventura raccontata con stile secco ma sobrio, incalzante come la trama, il succedersi degli eventi. La vita e la sua ferocia si squadernano potenti e trascinano il modello in una continua immedesimazione con Steve McQueen, iniziando a pensare e comportarsi come lui, senza remore né indecisioni.
Tutto è veloce, tutto goduto e consumato fino alle briciole, per non perdersi neanche una vibrazione a scorrere sottopelle. Tutto è intenso e avvolgente, come dovrebbe essere una vita ben vissuta, una scommessa se non vinta almeno lottata fino in fondo. La ribellione comincia dall’io, dal sé stessi e si ripercuote nelle utopiche ambizioni di ideali e lunghe prospettive. Sia che il modello possa salvarsi o meno, che possa cambiare il corso della sua vita e trovare nuovi significati ai suoi molteplici significanti, la ricerca è l’avventura più intensa, il successo più ricercato e meritato. Parafrasando Kavafis, l’importante più della meta è il viaggio.
Steve McQueen, di questo viaggio, è la guida fondante, l’ossessione che condiziona e che intrappola asfissiano: ma diventa anche la molla, la spinta a cercare altrove un’improbabile senso e un’utopica felicità.
“Inclini all’amore”: memorie di una famiglia.
Giulio Gasperini
AOSTA – Gli addetti ai lavori dicono che un libro duri non più di sei mesi. Fortunatamente, ce ne sono alcuni che, per loro meriti, durano ben di più. Uno di questi è “Inclini all’amore” di Tijana M. Djerković, edito da Playground nel 2013. Un romanzo già affascinante dal titolo, da quel termine, “inclini”, così poco inflazionato e così tanto, per questo, affascinante. Un romanzo, come la Djerković stessa ha scritto”, pensato e (soprav)vissuto in italiano, “la mia seconda lingua madre”. Ed è forse ancora più sorprendente se si considera che il libro racconta le storie di una famiglia montenegrina, dalle vicende del nonno, Milovan, a quelle della nipote, Arianna, attraversando una parte fondante di storia europea.
Ma la Storia è sfondo, scenario nel quale si dipanano, ben più importanti e decisive, le storie dei personaggi nella loro ricerca continua, strenuamente motivata dell’amore, come unico motore e significante. In particolare, assume contorni densamente romantici la figura del padre, Vladimir, che dopo l’esperienza della guerra diverrà poeta, trovando nella dimensione letteraria un canale preferenziale di impegno e azione. La figura è in realtà quella del padre della scrittrice, Momčilo Djerković, una cui poesia la Djerković ha posto in apertura del volume, come sigillo a questo romanzo breve ma denso, scorrevole e chiaro come un bicchiere d’acqua: “Parla, che la casa non rimanga sorda, / che la pietra non si spacchi, / che l’acqua non perda il suo ritmo. // Che in casa echeggino le voci dei bambini, / che la casa non diventi sorda, / mentre la vita cresce e si dirama”.
È la memoria, il potere più grande che ognuno ha a disposizione. Perché ogni uomo è portatore di una memoria: non soltanto sua personale ma collettiva. Di un immensa ricchezza fatta di ricordi, di emozioni, di vissuti che non possono (e non devono) andare persi, ma devono contribuire a rendere più ricco e più profondo il domani di ogni altro. E “Inclini all’amore” è proprio un lungo racconto di memorie, un rincorrersi e accavallarsi, un sovrapporsi e intrecciarsi di caratteri ereditari, di vicende comuni che si ripetono (anche se in forme leggermente diverse). È anche un percorso personale, un’indagine intima di chi si scopre a voler mettere in ordine i suoi bagagli e a far i conti col suo passato, ingombrante e denso di storie e volti. È il recupero di un’identità (se di identità si può parlare) che non sia soltanto quella familiare ma si caratterizzi anche per la sua unicità e inequivocabilità, per il suo carattere esclusivo. “Inclini all’amore”, con il suo italiano cristallino e quasi intagliato, un italiano scelto come lingua amata (e non come lingua imposta), è una lunga favola, raccontata alla luce calda di un camino, durante una profonda e fredda notte invernale, in mezzo alle persone amate, che ci accompagna ininterrotta fino all’alba, quando ai primi raggi del sole ci si scopre persone migliori.
Un Natale normale di racconti cattivissimi.
Giulio Gasperini
AOSTA – Il Natale se lo vivono tutti (o quasi) come il giorno più “buono” dell’anno: quello dove si fanno sorrisi, dove si diventa gentili, dove si pensa di poter rimediare ai giorni che son venuti prima e a quelli che poi verranno dopo. A costo di diventare ipocrisia. Quello che non manca in questa raccolta di racconti di Manuela Zucchi, intitolata “Cattivissimo Natale” e edita da L’Iguana Editrice, sono proprio l’ipocrisia, la finzione, la maschera.
Sono racconti, quelli della Zucchi, diretti, senza censure, fulminanti e sorprendenti. Spesso, la Zucchi assume il punto di vista del personaggio, si trasforma in lui e dipana la storia con un io narrante che pare guardare anche con ironia al lettore, pare prendersi un po’ gioco di lui. Sono personaggi forti, quelli che descrive la Zucchi; personaggi ben descritti con poche pennellate ed essenziali pensieri. Sono tutti portatori di storie che possono parere ordinarie ma che in definitiva rappresentano l’ordinarietà che costituisce la quotidianità: e la quotidianità è un patrimonio condiviso da tutti, allo stesso modo.
Al Natale si affidano altri tipi di racconti, di narrazioni. Il pensiero, alla parola Natale, corre subito a testi capitali e immortali, che hanno insegnato (e continuano a insegnare) a generazioni di bambini. E va bene così: il Natale è come una riserva protetta, un luogo di illusioni permesse e di sogni ancora tenuti in piedi. La Zucchi non si preoccupa di tutto questo. O meglio, lo so ma dà valore ad altro, cercando al di là della facciata le motivazioni profonde, le vite vere, trasformano il Natale per quello che in realtà è: un giorno come un altro. Senza smarrire però una certa poesia, la profondità dell’esplorazione di una condizione umana che, di sicuro, non si modifica e non si sconvolge, per un solo giorno di feste e bagordi la cui memoria è oramai persa e svilita.
In realtà, il Natale in questi racconti è quasi puramente decorativo: il riferimento a un regalo distratto, a un trascurato albero decorato, a un frettoloso viavai non meglio definito di persone è un’informazione che finisce per stridere ancora di più con il contenuto del testo e sottolinea la distanza che esiste, così, tra significato vero e significato apparente: tra quello, ovvero, che parrebbe all’inizio, a una prima lettura appena iniziata, a quella che, invero, sarà la svolta, la deriva, la decisione a rivoluzionare ogni vita e ogni strategia.
“Crimini contro l’ospitalità”: migrazioni, CIE e detenzione
Giulio Gasperini
AOSTA – Donatella di Cesare, insegnante di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ha avuto il privilegio, concesso a pochissimi, di entrare in un CIE, in particolare quello di Ponte Galeria, a Roma, tra i più grandi di Italia. “Crimini contro l’ospitalità”, edito nel 2014 da Il Melangolo, è il documento nato da quest’esperienza. Il testo si trasforma in un interessante saggio, ma perde quello che sarebbe potuto diventare il suo maggior pregio, ovvero la possibilità di testimoniare direttamente il visto e il sentito in questo luogo dove entrare e vedere sono due azioni praticamente impossibili.
Donatella di Cesare affronta la questione dei CIE, ovvero dei Centri di Identificazione e di Espulsione, in un’interessante prospettiva filosofica, declinando la problematica dal punto di vista della razionalità più pura e cristallina, confutando le idee e i fragilissimi principi che stanno alla base della creazione di queste “isole di non diritto”, questi territori che presentano le caratteristiche evidenziate da Erving Goffman per definire una “istituzione totale”: distanza, chiusura, isolamento.
I CIE, che spesso sono stati teatro di duri scontri e di rivolte da parte degli “ospiti”, non hanno praticamente mai un regolamento interno; ai reclusi, non sono consentite visite né possono parlare con il loro avvocato (quando ne hanno uno); non hanno passatempi, non hanno penne né libri né giochi né attrezzi sportivi. Sono ridotti a bestie in uno zoo, secondo il principio di zoologizzazione degli esseri umani, come sottolineato dalla di Cesare nel suo saggio. La prima violazione dei diritti umani è, però, antecedente ai CIE e avviene al di fuori: è l’arresto, la “detenzione amministrativa” alla quale sono condannati pur non avendo commesso nessun reato. La mancanza di un titolo di soggiorno è diventata reato soltanto dopo il Pacchetto sicurezza del 2009, ma non era mai stata prevista, in nessun ordinamento che si occupi di migrazioni. Inoltre, la detenzione non è decisa da nessun organo di giudizio, dopo un processo penale, ma è una condanna decisa da un’autorità esclusivamente amministrativa: sono chiamati a giudicare, pertanto, dei funzionari di governo e dei burocrati che “non sono membri dell’ordinamento giudiziario, non sono stati eletti, non rappresentano nessuno”. Di Cesare spiega compiutamente e fa vedere con estrema lucidità e puntualità come, all’interno del CIE, l’umanità si deformi perché si deformano le dimensioni più caratteristiche dell’uomo, a cominciare dal tempo e dallo spazio; brutalizzando l’uomo, riportandolo a una condizione primordiale e animale, lo scopo è quello di brutalizzarlo, di privarlo di dignità – un affronto che si assomma alla punizione per un crimine, come abbiamo visto, mai commesso.
Si potrebbe, con la massima attenzione, utilizzare per lo scritto di Donatella di Cesare la definizione di “reportage filosofico”, anche se non si può non sottolineare la mancanza di una parte di maggior reportage.
Un “Libro viola” sul virus HIV
Giulio Gasperini
AOSTA – Il primo caso fu registrato nel 1981. Da allora, attorno al virus HIV si sono costruiti muri di pregiudizi e false credenze, che hanno reso questo virus un nemico ancora più difficile da combattere, perché oltre alla battaglia del corpo si aggiunge quella contro una società che spesso rifiuta e respinge, condannando alla solitudine e all’esclusione. Sandro Ori, infermiere toscano, ha cercato di raccontare sotto una luce diversa il virus HIV e la condizione del sieropositivo nel “Libro viola”, edito da Ouverture Edizioni (2014).
La ricerca di Sandro Ori si sviluppa su tre diversi livelli: da una parte, una trattazione “scientifica”, che dà informazioni corrette e puntualmente documentate, in particolare su sette argomenti specifici, dalla discriminazione agli operatori che si occupano quotidianamente del virus, dalla solitudine alla maternità al continente nero, dove l’HIV e in particolare la malattia conclamata dell’AIDS stanno mietendo un numero impressionante di vittime nell’indifferenza di tutte le istituzioni, civili a religiose; poi l’indagine di Ori prosegue con un racconto, di diverse ambientazioni, che si ricollega in maniera significativa con l’argomento di ciascun capitolo; per finire, un’intervista a vari personaggi, dallo sport alla politica, da Flavia Pennetta a Fabio Canino, da Cesare Marretti a Roberta Gemma, che raccontano sé stessi e un po’ parlano del virus HIV e delle loro conoscenze e percezioni su questo virus, come fossero testimonial e significativi messaggeri di un’accortezza e considerazione particolari.
Sandro Ori ha il merito, in una lingua semplice e schietta, di ricordare e sottolineare alcuni concetti che finiscono quasi sempre per essere dimenticati, soprattutto per ignoranza (ma anche per certe incoscienti scelte); ci fa abbandonare alcuni preconcetti e pregiudizi, rimarcando, ad esempio, che l’HIV non è una questione esclusiva degli omosessuali, ma riguarda ogni persona, di qualsiasi orientamento sessuale. Sottolinea, inoltre, in maniera forte e decisa, come l’emarginazione, l’abbandono, la discriminazione siano comportamenti immotivati e gravissimi, che non dovrebbero trovare spazio in nessun consesso civile e sociale, perché finiscono per aggravare (ingiustamente e sconsideratamente) qualsiasi condizione.
Impressionante, negli ultimi anni, quanto sia sceso, soprattutto tra i giovani, il livello di preoccupazione sul virus HIV e le sue conseguenze: non si presta più attenzione, non si ha la percezione di cosa questo virus sia, di cosa possa comportare per sé stessi e per gli altri. Indubbio come la medicina moderna abbia sviluppato strategie e cure per permettere ai sieropositivi di condurre una vita tranquilla e non destinata irrimediabilmente alla morte, ma altrettanto indubbio è che soltanto una corretta informazione e una responsabilizzazione seria possano determinare la vittoria su una delle più gravi epidemia che la storia dell’uomo ricordi.
“Sali d’argento”, il romanzo e la vita di Tina Modotti.
Giulio Gasperini
AOSTA – Tina Modotti fu personalità complessa e sfaccettata. Una vita, la sua, che in pochi 46 anni è satura di tutto: partita dalla remota provincia di Udine per finire nel Messico di Frida Kahlo e Diego Rivera, per continuare nella Russia comunista del Comintern e nella Spagna delle Brigate Internazionali e per concludersi con il sospetto (e il mistero) di una morte in taxi. Una vita, quella di Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, che spesso sconfina nella leggenda, come capita a tutte le persone che diventano ben più di un semplice essere umano, ma si caricano di valori e concetti altri (e alti). La recente mostra a Torino ha fatto conoscere a un pubblico ben più vasto la produzione fotografica di Tina Modotti, a cui si riferisce il titolo di questo romanzo di Luca De Antonis, edito nel 2014 da Rayuela Edizioni: i “Sali d’argento”, infatti, servivano per sviluppare le lastre fotografiche, grande apprendistato della giovane Tina.
Il racconto di Luca De Antonis è dettagliato e preciso, accompagna con precisione e puntualità nella complessa biografia di una donna che ebbe mille definizioni e compiti, ma che affascinò tutti comunque, senza distinzione né eccezione. La ricerca di De Antonis è dettagliata e puntuale, non lascia nulla al caso. La scrittura è scorrevole e leggera, così da accompagnare dolcemente il lettore anche nelle pieghe più profonde dell’intimità femminile. Terzo prodotto di un progetto interamente dedicato alle figure femminili, “Sali d’argento” è un degno compimento di questo intento. La storia scorre sulle pagine con scioltezza e semplicità, senza essere approssimativa né lacunosa. Ma la narrazione comprende anche la varia umanità – coralità diffusa – che tange e si incontra con la vita di Tina, che l’accompagna per un tratto, che la scorta e l’arricchisce di volti e caratteri. De Antonis racconta anche il dramma di un’Italia che perde i suoi cittadini, in fuga per un domani migliore, per un’opportunità insistente nel loro paese: eventualità, ahimè, che negli anni Dieci del Duemila è ancora drammaticamente evidente.
Tina Modotti, in questo senso, diventa paradigma di una vita che si realizza a partire da una nascita modesta, utilizzando soltanto i propri meriti e i talenti innati, senza lasciarli appassire né sfiorire in tempi morti o inutili. La Tina Modotti di De Antonis sarà pure forse un po’ idealizzata, idolatrata e osannata senza tener conto magari di alcune spigolosità caratteriali o umane, ma rimane indubbia l’evidenza che Tina Modotti sia una donna umanamente immensa, culturalmente fondante, artisticamente imprescindibile.
La testimone, ma anche la forgiatrice, di epoche lontane ma che hanno cambiato la storia dell’umanità. Pablo Neruda le scrisse un appassionato epitaffio; ma lei, alla fine, aveva una sola idea di sé stessa: “Mi considero una fotografa, e niente altro”.