Giulio Gasperini
AOSTA – All’inizio degli anni Novanta, il direttore de “Il Mattino”, uno dei più antichi e nobili quotidiani d’Italia, chiese allo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun un viaggio nel Sud Italia. Una sorta di passeggiata sociale: raccogliere storie, aspetti della vita di quelle regioni e tramutarle in racconti, in narrazioni che travalicassero i rigidi confini del giornalismo e della cronaca. Nacquero una serie di brevissimi reportages narrativi, raccolti poi da Einaudi nel volume “Dove lo Stato non c’è” (1991).
Queste testimonianze sono tanti ricchi frammenti di umanità, tante incursioni preziose in una realtà feroce e cruda, assurda persino, a volte, da immaginare. L’indagine di Ben Jelloun è naturale esattamente come la vita che scorre perché queste pagine semplici ma tristi confermano come la violenza, il degrado, l’abbandono morale e civile, siano oramai parte integrante e costitutiva di una particolare realtà. O, quantomeno, precipizi concreti, attentatori sempre in agguato in attesa di un passo falso, di un’esitazione, di un errore senza possibilità di espiazione.
Tahar Ben Jelloun, però, cerca di evidenziare anche le persone coraggiose che non sono ancora completamente assoggettate al cinismo e all’indolenza, né all’omertà; persone, uomini e donne, padri e madri, che lottano, che resistono; persone che cercano di sopravvivere in una realtà più grande di qualsiasi altro pensiero. E poi ci sono anche gli avvocati che cercando di nobilitare una giustizia ampiamente compromessa, in azione e fama. Ci sono le madri, pronte a soffrire sole e in silenzio per ristabilire la dignità del loro dolore, il valore della loro perdita.
A tutte queste situazioni è comune un aspetto: la totale assenza dello Stato, con la lettera maiuscola. L’Istituzione statale, che dovrebbe presiedere e controllare, proteggere e rassicurare, da questi racconti è totalmente assente; decisamente latitante, se non addirittura in fuga programmata. Lascia il campo libero ad altro poteri che non tardano a palesarsi e a riempire i vuoti, scontornando i limiti tra bonus e malus, senza nessuna remora né timore.
Di tempo, da quei reportage, ne è passato; ma nulla è mutato. Leggere questo testo ci squaderna situazioni che puntualmente ritroviamo nelle cronache dei quotidiani. Il tempo passa ma non muta se non mutano le condizioni per cui questo Stato parallelo si è affermato e ancorato a strutture clientelari e terroristiche.
E qual è, allora, la soluzione? Cosa ci potrebbe salvare dalla rovina che pare inevitabile? Semplicemente, la parola. Perché “ci sono delle parole, apparentemente insignificanti, che uccidono”. E, in unione, la poesia. Perché “la nostra arma segreta è la poesia, bisogna continuare a opporre loro la forza magnifica delle parole. Le parole possono essere crudeli e vendicative. Quelle dei poeti sono terribili… Non avete l’aria troppo convinta! Peggio per voi!”.
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