Giulio Gasperini
AOSTA – Pigafetta, di Felicitas Hoppe, edito in Italia da Del Vecchio Editore con la traduzione di Anna Maria Curci, è difficilmente definibile, in quest’ansia di catalogazione che abbiamo sempre, nei confronti di ogni libro. È talmente difficile che la stessa Hoppe ha dovuto scrivere una sorta di postfazione per raccontarlo. Tutto inizia con un viaggio, vero, reale, che la Hoppe compie su una nave cargo intorno al mondo. Da qui, inizia quest’esperienza a tratti distopica, a tratti surrealista, a tratti cronachistica, plasmando una narrazione che è destabilizzante nella sua voracissima poeticità, che abbatte le classificazioni mentali e di squaderna in terreni ribelli e incontrollabili.
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Fouad Laroui e i bracconieri di storie.
Del Vecchio: La vecchia signora del riad
Giulio Gasperini
AOSTA – Cosa facciamo delle storie degli altri? La narrazione personale è forse il dono più grande che riceviamo nel nostro interagire con le alterità; ma anche una responsabilità gravosissima che difficilmente sappiamo gestire nel modo più corretto ed efficace, particolarmente nella nostra contemporaneità, così sovrabbondante di racconti e di storie. Il romanzo La vecchia signora del riad, di Fouad Laroui, pubblicata da Del Vecchio Editore con la traduzione di Cristina Vezzaro, è un’avventura entusiasmante su vari livelli di lettura e indagine.
La voce poetica di un uomo felice.
Giulio Gasperini
AOSTA – Uno straordinario regalo, quello che fa Del Vecchio Editore, pubblicando per la prima volta in Italia la raccolta del poeta cinese Hai Zi, Un uomo felice, curata e tradotta da Francesco De Luca. È un’esperienza straordinaria precipitare nella poesia e nella lingua di uno dei maggiori poeti contemporanei cinesi, sconosciuto in Italia, dalla vita travagliata ma dalla materia poetica potente e concreta, come creta sotto le mani. Il viaggio in queste poesie è una sperimentazione sensoriale e linguistica nuova e stra-ordinaria.
Dall’ordalia di parole all’afasia, anatomia di un’evoluzione.
Giulio Gasperini
AOSTA – Le tribolazioni dell’ultimo Sijilmassi, il nuovo romanzo di Fouad Laroui (edito in Italia da Del Vecchio Editore e tradotto da Cristina Vezzaro) lascia subito senza fiato, fin dalle prime righe. “Un giorno, mentre si trovava a trentamila piedi di altitudine, Adam Sijilmassi si fede all’improvviso questa domanda: – Che ci faccio qui?”. Un incipit sensazionale per una storia che, fiorendo di pagina in pagina, conduce il lettore in una discesa vorticosa e chirurgica dentro la mente e l’anima di un uomo apparentemente “normale” e “comune” (sempre che questi due aggettivi significhino realmente qualcosa). Da quel momento, comodamente seduto su un Boeing della Lufthansa, mentre sorvola le Andamane, inizia un cammino di cambiamento e di travaglio interiore che porterà l’ultimo dei Sijilmassi all’unica scelta possibile in questo mondo nervoso e feroce: l’afasia.
Le parole di un bambino tra Marocco e Francia
Giulio Gasperini
AOSTA – Un anno con i francesi di Fouad Laroui, edito da Del Vecchio Editore è un romanzo delizioso. E quest’aggettivo non è scelto a caso, perché è un’opera di narrativa veramente aggraziata e misurata, dove nulla è lasciato al caso e dove non c’è niente di superfluo, eccessivo o accessorio. Dalla costruzione allo sviluppo dei personaggi, tutto viene presentato al lettore con una facilità disarmante, con una leggerezza che pare spontanea ma è frutto di una sapiente capacità di narrare e di far vivere i personaggi.
Il punto di vista, geniale, è quello di un bambino marocchino che dalla più remota campagna arriva a studiare al più prestigioso liceo francese del Marocco, il Liceo Lyautey. Qui incontra un’umanità ricca e vivace, una pletora di studenti, professori, convittori e collaboratori che si muovono attraverso tutto lo spettro delle umane manifestazioni e declinazioni. Continua
Colette: la stella del vespro che illumina ogni cosa
Luca Vaudagnotto
AOSTA – “Occorre vedere, non inventare”. Con questa citazione precedente il frontespizio si apre La stella del vespro, uno degli ultimi lavori di Colette, tradotto per la prima volta in italiano da Angelo Molica Franco e pubblicato per i tipi di Del Vecchio Editore in un’elegante e raffinata veste grafica, rosa con una punta di nero, reminescenze della migliore Chanel e della sua città-simbolo, Parigi.
Ed è proprio lo sguardo, la capacità di osservare i dettagli, la grande lezione di Colette: la sfumatura particolare di azzurro che tingeva le pareti dell’appartamento di Hélène Picard, la piega della fronte del giornalista che la intervista, l’usura e la consunzione del bracciolo della sedia su cui la scrittrice lavorava e le trame che ne fuoriescono o ancora il guazzabuglio di capelli ribelli in testa a una sua amica. Continua
“Alla fine è la parola” che fa sopravvivere agli esili.
Giulio Gasperini
AOSTA – Hilde Domin ha trascorso la sua vita in fuga, migrando di città in città, di nazione in nazione; di cultura in cultura: dalla Germania dei suoi padri ebrei a Roma e Livigno, dall’Inghilterra alla Repubblica Dominicana. La sua produzione poetica, fiorita negli anni di questo lungo esilio, fu per lei il tentativo concreto di difendersi dalla disgregazione e dall’ansia della persecuzione. Del Vecchio Editore ha intrapreso il “Progetto Domin”, la ripubblicazione delle sue poesie più interessanti e significative; nella collana Poesia è uscito, per questo, nel 2013, “Alla fine è la parola / Am Ende ist das Wort”. Questa antologia poetica raccoglie i componimenti più significativi e potenti delle sue raccolte, in particolare da “Solo una rosa a sostegno” e “Rientro delle navi”.
La lontananza è la materia feconda della tensione poetica della Domin, l’addio e l’abbandono ne sono costanti alimenti: “Scherziamo con gli addii, / collezioniamo lacrime come biglie / e proviamo se i coltelli tagliano”. Il verso della Domin è breve, estremamente asciutto, fiorito di parole quotidiane e piane, dense di significati e di prospettive: “Alla fine è la parola, / sempre / alla fine / la parola”. Una parola che, però, è costantemente frustrata dalla transumanza, dal percorrere terre straniere, dove si parlano altre parole, dove i concetti sono magari gli stessi ma incomprensibili a un primo ascolto: “Di dimora in dimora / oblio. / Il tuo nome / diventa qualcosa di estraneo”. La sua condanna è inesorabile, manca di difesa concreta: “Sono la straniera, / che parla la loro lingua”.
Tra le figure poetiche più intense ci sono sicuramente gli alberi, che si concretano come fondanti correlativi oggettivi: ogni diversa specie, attentamente nominata e individuata, ha un valore e un significato particolare, dalla distanza alla dimenticanza, dal ricordo al bisogno di vita: “Sono stata qui. / Passo, / senza traccia. / Gli olmi sulla strada / mi fanno cenno al mio arrivo, / un saluto d’oro verdeblu / e mi dimenticano / prima che vada oltre”. L’esistenza è, per Domin, leggera e senza peso, quasi volesse non provocare il minimo rumore, il più inatteso fastidio: “Prendi in mano una candela / come nelle catacombe, / la piccola luce respira appena”; anche in amore: “Il tuo nome sulle mie labbra, / sempre ai bordi dell’urlo, / non deve cadere a terra”.
Suo desiderio ultimo è sentirsi a “casa”, nutrendo il bisogno intimo di una terra con la quale poter avere un legame di profonda corrispondenza intima: “E da ciò riconosci / che qui / sei un po’ più / a casa / che in altri luoghi”. Hilde Domin ha, allo stesso tempo, bisogno di un forte ancoraggio a una terra che sia luogo definitivo (“Costruiscimi una casa”; “Le stanze in cui metterò le rose / perché ci sia qualcosa di mio”) ma conosce anche il bisogno di saper individuare, nelle lontananze, delle immagini comuni, delle esigenze universali: “Ovunque il fieno / accatastato in modo diverso / ad asciugare / sotto lo stesso / sole”.
Il ritorno è la sua ansia, la sua più forte tensione emotiva: “Vado / verso un’isola senza porto, / butto in mare le chiavi / già alla partenza. / Non arrivo da nessuna parte. / La mia vela è come una ragnatela al vento, / ma non si strappa. / E oltre l’orizzonte, / dove i grandi uccelli / asciugano le ali al sole / alla fine del volo, / c’è una terra / dove mi si deve accettare / senza passaporto, / con l’avvallo delle nuvole”. Se il migrare coatto, costretto, ha in sé un’idea struggente di vergogna (“Chi ha pianto sulla soglia di casa / come neanche un mendicante straniero. / Chi ha passato le notti sulle assi / a fianco del proprio campo. / Chi ha pregato i morti / di distogliere lo sguardo dalla sua vergogna”), il ritorno nutre in sé la scintilla della felicità: “Tu non sali. / La felicità non è un aereo, / non ha orari / né aeroporti. / È un grande uccello / che ne accoglie uno piccolo / sotto le sue ali”. Perché spesso ogni migrazione è, in realtà, un doloroso esilio.
Premio Italo Calvino, il 19 aprile i vincitori
TORINO – L’attesa cerimonia di premiazione della XXVI edizione del Premio Italo Calvino avrà luogo a Torino il 19 aprile 2013. Alla presenza degli editor delle più importanti case editrici italiane e di una nutrita schiera di giornalisti e operatori culturali, verrà rivelato il nome del vincitore selezionato tra gli oltre 570 manoscritti inediti in concorso.
La Giuria, composta da Irene Bignardi, Maria Teresa Carbone, Matteo Di Gesù, Ernesto Ferrero e Evelina Santangelo, dovrà scegliere tra una decina di testi finalisti, pronti ad entrare nel circuito della “narrativa che conta”. Soprattutto negli ultimi anni, infatti, i libri usciti dal Premio Italo Calvino si stanno affermando con un crescente successo di critica e di pubblico. Tra i tanti esempi possiamo citare Le Sorelle Soffici di Pierpaolo Vettori con Elliot Editore (finalista XXIV edizione); La vita accanto di Mariapia Veladiano, pubblicato da Einaudi e arrivato poi secondo allo Strega; o il piccolo caso letterario di L’eredità dei corpi di Marco Porru, Nutrimenti Editrice (XXIV) dopo pochi mesi già alla terza ristampa grazie al passaparola dei lettori e dei blog. Ma anche, tra gli autori ormai affermati, Marcello Fois, oggi in libreria con Il tempo di mezzo o il nome “storico” di Susanna Tamaro (sempre scoperta dal Premio). E poi tanti altri, come Flavio Soriga, Francesco Piccolo e Fulvio Ervas, autore del best seller Se ti abbraccio non aver paura uscito con Marcos y Marcos.
Grande attesa, in questo momento, per il libro del vincitore dell’anno scorso, il poliziotto-scrittore Riccardo Gazzaniga, a breve in uscita con A viso coperto per Einaudi Stilelibero.
Solo nel 2012 (record assoluto), sono stati pubblicati, con grandi editori o con piccoli marchi di qualità, ben 11 libri proposti dal Premio: Letizia Pezzali, L’età lirica ed. Baldini Castoldi Dalai (XXIV), Anna Melis, Da qui a cent’anni ed. Sperling & Kupfer/Frassinelli (XXIV), Eduardo Savarese, Non passare per il sangue ed. Edizioni e/o (XXIII), Giacomo Verri, Partigiano Inverno ed. Nutrimenti Editrice (XXIV), Giovanni Greco, Malacrianza ed. Nutrimenti Editrice (XXIV), Massimo Miro, La faglia ed. Il Maestrale (XXIV), Alessandro Cinquegrani, Cacciatori di frodo ed. Miraggi Edizioni (XXIII), Giovanni Di Giamberardino, La marcatura della regina ed. Edizioni Socrates (XXII), Fabio Napoli, Dimmi che c’entra l’uovo ed. Del Vecchio Editore (XXII),
Il Premio Calvino, o “PIC” – sigla nata sul web e ormai ufficialmente riportata dalla Treccani – fu fondato a Torino nel 1985, poco dopo la morte di Italo Calvino, come omaggio allo scrittore italiano che, più di ogni altro, fu impegnato nella scoperta di nuovi talenti letterari. Tra i fondatori celebri, Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio, Lalla Romano, Cesare Segre…
Il PIC si propone di svolgere un ruolo di ponte tra l’universo degli scrittori inediti e il mondo dell’editoria, del pubblico e della critica. Per questo il Premio non ha voluto definire una propria linea critica né privilegiare determinati generi letterari. L’interesse è per le opere prime inedite di narrativa capaci di rappresentare tendenze nuove e stili originali.
La cerimonia di Premiazione è l’occasione in cui editori, editor e operatori culturali possono entrare in contatto con i finalisti e dare l’avvio a quei rapporti che potranno portare alla pubblicazione. Non manca, nella storia del Premio, un aneddoto originale: alla I edizione esso non venne assegnato, poiché nessuno dei finalisti fu ritenuto all’altezza del riconoscimento. Si trattò di un piccolo gossip letterario che ebbe però un’ampia eco mediatica e che ancora oggi dà l’idea non solo della serietà e della severità del Premio, ma anche della durezza della competizione.
“Svanire è davvero possibile? O è solo un’illusione?”
Michael Dialley
AOSTA – “Svanire” non è solo il titolo della raccolta di Deborah Willis, edita da Del Vecchio editore, ma anche il primo racconto che apre la strada al lettore in un viaggio particolare, molto suggestivo che riguarda lo scomparire, lo svanire, il lasciare.
Sono 14 racconti i cui protagonisti sono i più diversi, sia per età che per cultura e stile di vita, ma tutti accomunati da un’esperienza di distacco: una moglie che scappa, qualcuno che muore, che viene rapito, ma anche chi è stato incapace di capire i figli, chi gli stava intorno, causando un allontanamento forzato.
Si viene incatenati subito alle pagine di questo libro, perché sono esperienze che tutti, chi più chi meno, hanno vissuto totalmente o solo in parte; sono racconti brevi, scritti con semplicità e chiarezza, ma soprattutto con un’intensità straordinaria.
Si impara a conoscere i vari protagonisti, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro abitudini e si capisce come ci si senta dopo essere stati allontanati, dopo essere stati abbandonati o dopo essersi allontanati.
Sono tante le riflessioni che si possono fare dopo ciascun racconto: i genitori si chiederanno sicuramente se il rapporto con i figli è giusto, oppure si identifica con quello di alcuni racconti; un figlio si domanda se ha un atteggiamento giusto verso babbo e mamma, se ha affrontato un divorzio o, peggio ancora, un lutto, nella maniera corretta, con la giusta intensità; i ragazzi che si affacciano, appena ventenni, alla vita, al mondo, fuori dall’ala protettrice della famiglia, si interrogheranno su quali esperienze sono da fare per rendersi conto di come funzioni il mondo, su quali cose è necessario impegnarsi e quali situazioni vanno tralasciate e dimenticate.
Questo romanzo è una sorta di guida, non un saggio; è persino un cortometraggio con spezzoni di varie vite di varie persone. La domanda che viene rivolta a ogni lettore, alla fine, è: si può davvero dimenticare, essere dimenticati, svanire nel nulla, oppure una parte di noi rimane costantemente legata alle persone, ai luoghi, alle situazioni? La risposta sta in ogni uomo, non ci sono risposte giuste o sbagliate, ognuno pensa e agisce a modo suo, e non ci si può nemmeno chiedere perché qualcuno vicino a noi è svanito, o ha cercato di farlo.
Svanire nel nulla non è possibile né fattibile: dovunque andiamo, chiunque conosciamo, ci lascia un qualche cosa così come noi lasciamo tracce, parole, azioni, indelebili nel mondo.