Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono mestieri che sono piuttosto vocazioni. E ci sono mestieri che non si è mai pensato di poter fare, ma che poi diventano il migliore dei possibili orizzonti. Questo secondo caso è un po’ quello capitato a Mario Tagliani, ritrovatosi a fare l’insegnante un po’ per caso e finito, ancora più per caso, a fare il maestro nel Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. Trent’anni di insegnamento in una situazione non convenzionale sono raccontati in “Il maestro dentro”, appena uscito per Add Editore. Un diario, ma ancora di più un lungo memoriale di incontri, scoperte, disagi, dolori, attese e sorprese che non sarebbero potuti accadere in nessun’altra parte se non là, all’interno di quel carcere.
Ma nelle pagine di Tagliani si ripercorre velocemente anche la storia degli ultimi trent’anni di Italia, in una prospettiva sociologica particolare e interessante: i cambiamenti della società italica visti attraverso i cambiamenti del carcere. Perché è innegabile che il rapporto sia stretto, e che si alimenti a vicenda. Si comincia coi primi anni, quelli nei quali le celle straripavano di ragazzini meridionali: napoletani, calabresi, siciliani. Finiti al Nord per colpa di una migrazione interna, mai adattatisi alle regole e al modo di vivere così distante dal loro. Ma poi l’Italia cambia: orizzonte di migrazioni internazionali. Prima gli albanesi, poi cittadini del Nord Africa che decidono di attraversare lo stretto braccio di mare per una terra che sembrava il paradiso ma che, in realtà, molto spesso fu gabbia e prigione. E così anche le classi del Ferrante cambiano: serve una nuova scuola, servono lezioni che insegnino spesso i rudimenti dell’italiano, servono confronti che aprano a una prospettiva interculturale, innalzando i livelli di difficoltà e incomprensioni ma anche potenziando le scoperte inattese. Ma cambiano anche i secondini, le guardie, i direttori. E cambia anche il Ferrante stesso: sparisce il campetto di erba vera e ne compare uno di erba sintetica, sparisce l’entrata maestosa del palazzo storico e ne compare una grande come la porta di uno sgabuzzino.
La scuola può essere declinata secondo modalità diversissime. Si può fare scuola esulando da libri e tabelline, da compiti e cartine mute. Si può fare scuola educando al confronto, nutrendo idee, proponendo impulsi e scatenando reazioni. Si può fare scuola anche solo organizzando partite di calcio, dipingendo, raccontando, smettendo di guardare fuori da una finestra sbarrata per posare gli occhi sui compagni e cominciare a interagire nelle tante spigolosità di carattere e pensieri. Non sempre la scuola riesce nel suo intento, ma non per questo si può rinunciare, si deve disertare un ruolo che, quando amato e portato avanti con passione, diventa un gioco. Ancora di più in un carcere, che dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, “un luogo di sosta, di passaggio per chi ha sbagliato, luogo ideato per permettere di ripensare all’errore commesso: si deve allora superare la colpa per arrivare alla responsabilità”. La stessa responsabilità che dovrebbe aver lo Stato nel permettere che un carcere del genere possa effettivamente affermarsi.
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