Giulio Gasperini
AOSTA – Negli anni ’60 Beirut era considerata la Parigi del Medio Oriente: erano gli anni in cui i divi del cinema affollavano le passeggiate lungo mare e i banchieri e finanzieri controllavano i traffici bancari bivaccando tra palazzi, cocktail bar e languide spiagge. Poi dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 Beirut si tramutò nel teatro di scontri e bombardamenti furiosi e feroci: “Ognuno aveva diritto alla sua bomba”. Una terra martoriata e perseguitata, bersaglio incolpevole di furie avverse e di scelte unilaterali.
L’artista Zena El Khalil, che ha vissuto in Nigeria, negli Stati Uniti e in Italia, decise un giorno di tornarsene ad abitare nella sua Beirut. E ha raccontato il suo rapporto conflittuale con la sua città in “Beirut, I love you” (Donzelli editore, 2009). Il libro è piuttosto un rivivere tramite flash, scene, inquadrature particolari, il suo legame mai estinto né consumato con Beirut, per diventare un incessante canto d’amore, struggente, alle sue radici, alla sua identità che si concretano nel destino crudele di Beirut stessa, nella sua predestinazione alla sofferenza. Prova a viverne lontana, Zena. Prova a cercare di essere sé stessa anche in altre metropoli, dedicandosi al lavoro, alla sua arte, ai rapporti, ai legami. Ma dopo l’11 Settembre ecco che si sente straniera dovunque: e decide che l’unico orizzonte da cui guardare il mondo è là da dove proviene.
Beirut è lo scenario ma si configura anche come protagonista della storia. Ne è la burattinaia e l’attante. È terra di abbandoni dolorosi, di ricordi feroci. Ma è proprio in questa terra arsa, bruciata, che pare più facile far germogliare anche la poesia, far ri-nascere le pulsioni vitali che ogni volta, bomba dopo bomba, vengono messi a dura prova ma covano pulsanti e forti sotto le macerie, sotto i cieli sporchi di incendi e di fumi, come una necessità sottopelle di rivalsa, come un coraggio perenne di risollevare la testa che non conosce domatori né dominatori e che punta sempre alla vittoria finale.
Perché su Beirut pare abbattersi un destino sempre avverso, crudele, rabbioso e feroce. Come Oriana Fallaci la dipinse nel suo “Insciallah”, nei primi anni ’90. Come un carnaio; pulsante vita e avventure, paure e tranelli. Beirut è dominata da pulsioni contrastanti e divergenti: la morte e la vita, lo splendore e la tenebra. A Beirut tutto è difficile; ma per questo, ancora più appassionante. Zena El Khalil, invece, confida che i venti e i destini avversi riescano a trionfare e a riconsegnare Beirut a un nuovo inizio, a una nuova storia che sia di felicità e di serenità; una nuova narrazione di fiducia e nuova consapevolezza, di arte e di cultura, di orizzonte larghi e di prospettive aperte come il cielo e il mare che la incorniciano. Ed è in questo contesto, in questa città che è nido e trappola, tana e prigione, che Zena compirà il suo percorso di consapevolezza fino alla rivelazione ultima: “Sono così lontana dalla morte”.
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