Giulio Gasperini
ROMA – Era morto da una manciata di giorni. Si era spento, come tanti suoi amici, di AIDS, a Roma, in quella stessa città che lo aveva visto protagonista di magiche e irregolari notti. Era stato sepolto al Cimitero degli Acattolici, sotto la Piramide Cestia. Fu sepolto accanto all’amica, Amelia Rosselli, che si era suicidata poche settimane prima. Era il 1996: un anno tragico per la Roma letteraria (che a quel tempo ancora esisteva). Poche settimane dopo, nell’aprile, Arnoldo Modadori Editore pubblicò il suo addio al mondo: con “Proclama sul fascino” Dario Bellezza si separò dalla terra cantando un ultimo omaggio all’unica cosa che, oltre l’amore, aveva contato per lui, che gli aveva donato il potere di poetare: il fascino. Inteso come eros, come forza tellurica, potente e sferzante, che stimola gli uomini e impedisce loro di prostrarsi e inaridirsi. Tutto ha fascino, intorno all’uomo, anche tradire: “La verità è che tradire / ha fascino, violento e incorruttibile”. L’uomo vi è immerso, nel fascino, come fosse circondato da una cornice di perfezione: “Come debbo sparire dinanzi / alla bellezza del Creato!”. Il fascino, fin dai versi di “Morte segreta”, ha rappresentato in Bellezza un addendo fondamentale, che spesso si sommava alla morte, alla perdizione, alla putredine. Un compito gravoso, il suo, consapevole che “i poeti animali parlanti / sciagurano in bellezza versi / profumati – nessuno li legge, / nessuno li ascolta. Gridano / nel deserto la loro legge di gravità”.
Si separa dal mondo, Bellezza, da ogni oggetto che lo ha definito uomo. A cominciare dal telefono, “strumento libero / e appassionato di conversari / lugubri e obliqui, allegri / sin da ragazzo, adolescente / e più invano parlando d’amore / che di altro passai la vita / al telefono”. Si separò dal mondo, Bellezza, consapevole di stare per farlo, guardando la paura negli occhi; una paura con la quale conviveva dal 1987, una lotta impari, con un “male stupido”, che gli permetteva di contare i giorni, con la certezza che, presto o tardi, l’ultimo sarebbe arrivato: “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei”. Si sentiva peccatore, si sentiva parte dell’annuncio evangelico: “Chi non ha paura di morire / scagli la prima pietra: adoro / la lapidazione; così il sangue / non sarà più rosso e la morte / non sarà più nera”. Si separò dal mondo, Bellezza, ostaggio della solitudine: “E oggi il telefono / muto non riporta più nessuna / parola amica”. Ogni amico abbandonato, ogni spazio lasciato vuoto, riempito soltanto da un ennesimo dolore: “La sedia di paglia si è rotta, / ne conservo solo lo schienale. / Fu regalo di un amico defunto / ormai sparito, suicida, arrivato / nel buio calmo degli Inferi”. Si sveste persino del suo ruolo, quello poetico, del quale chiede ammenda, come se fosse l’unico, reale, più importante peccato di cui mondarsi per consegnarsi alla luce. E trova spazio anche la concessione del perdono, come un novello Cristo in croce prima dell’ultimo fiato: “Dio mi assolva i peccati capitali. / Quelli sessuali non sono né tali / né osceni reati da prigione, lager / o manicomio. Se sono un expoeta è / solo colpa mia. I critici li perdono”. L’unica certezza di fronte alla morte è, di medicea memoria, la fugacità del tempo migliore, quello più perfetto: “Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità: / poi avanza tremando / vecchiaia e dura, dura / un’eternità”. L’eternità, per Bellezza e i suoi versi, però perdura. E ancora perdurerà.
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