“Io ero l’Africa”: l’istinto primordiale della madre terra.

Io-ero-l-AfricaGiulio Gasperini
AOSTA – Una saga familiare appassionante. Se si dovesse dare una definizione all’ultimo romanzo di Roberta Lepri, “Io ero l’Africa”, edito da Avagliano Editore nel 2013 probabilmente questa sarebbe la più calzante. Ma, in realtà, nelle pagine della Lepri c’è ben di più. Innegabile come le atmosfere del romanzo ci riconducano alle migliori pagine di Karen Blixen, fino addirittura al fallimento dell’attività e alla frustrazione umana di fronte alla potenza devastante (e ribelle) della natura. Ma l’esperimento della Lepri è affascinante innanzitutto perché calato nella nostra condizione di italiani migranti ed emigranti (che in giorni come questi passa sempre un po’ di mente) e poi perché ci offre uno sguardo d’insieme, una prospettive esterna e distaccata sulla narrazione e la trama.
L’Africa trasforma e cambia: è evidente. La sua potenza naturale, le sue emozioni scorrono sotto la terra e corrompono gli uomini, li cambiano. Sottopelle, sentono e scoprono nuovi tremori, nuove passioni; si scoprono finanche nuovi caratteri. Placano antiche ansie e smarcano da primitive schiavitù, come quelle della quotidianità, della routine, della vita borghese. In Africa, tutti diventano esploratori e conquistatori, alle prese con un mondo primordiale che non si conosce e che, a lungo andare, finisce per ubriacare.
Attraverso le pagine di “Io ero l’Africa” ci si avventura nelle vite più intime dei protagonisti, nessuno dei quali esce indenne da quest’esperienza di “esotismo”. Chi matura, chi regredisce, chi si scopre suo malgrado vulnerabile, chi viene inesorabilmente sconfitto. Tutti vanno incontro a una formazione individuale. E sono proprio i rapporti che per primi si sfilacciano e si spezzano, nel romanzo. I legami coniugali, quelli parentali, quelli fraterni, i rapporti di potere e di oppressione, lo scontro senza tempo del nero e del bianco, del civile e dell’incivile, del colonizzatore e del colonizzato. In “Io ero l’Africa” sono tutti tarati secondo nuovi concetti, nuovi modelli. Inconsapevolmente, soprattutto Angela, la vera attante di tutta la saga, dal nome prevedibilmente profetico, si conosce (e si sorprende) come donna nuova, insospettabile nel suo appena disvelato carattere, nelle sue (ri)nate aspirazioni e desideri. È una donna che nessuno conosce più, né il marito che dopo due anni la fa andare in Africa, né suo figlio che la ritrova dopo anni e ne avverte subito le nuove vibranti potenzialità. Ma tutti i protagonisti del romanzo sono tratteggiati con penna potente, guidati e mossi da una matura orchestrazione. La materia del romanzo è densa, corposa, e l’architettura narrativa accompagna il narratore quasi cullandolo, attraverso un ritmico alternarsi di analessi e prolessi. La storia è un fluire continuo, tumultuoso ma non disordinato, un appassionato fermento di eventi ed emozioni. Pare quasi di sentire una storia raccontata intorno a un fuoco, in una notte africa sotto un cielo denso di chiassose e pulsanti stelle.

“Le più belle fortezze delle Alpi occidentali”: le montagne mozzafiato.

le-più-belle-fortezze-delle-alpi-occidentaliGiulio Gasperini
AOSTA – La guida di Diego Vaschetto, edita da Edizioni del Capricorno (2013), è un’opportunità unica. Al pensiero delle montagne, l’immaginazione corre subito a piste da sci, pascoli e prati sterminati, malghe e odore di natura. Ma le montagne sono state anche dei luoghi di importanza strategica e commerciale fondamentale. Prima dei trafori, e prima ancora degli aerei, le strade sfruttavano le valli e i valloni, e i confini tra gli stati si segnavano sul discrimine delle creste. In “Le più belle fortezze delle Alpi occidentali” Diego Vaschetto ci accompagna in interessanti itinerari escursionistici dalle Alpi liguri alla zona della Savoia, presentandoci sedici forti e fortezze, dal colle di Nava ai forti di Tournoux, da Fenestrelle alle fortificazioni del Moncenisio per terminare con la batteria di Machaby e i forti di Bourg-Saint-Maurice.
I sedici itinerari ci conducono alla scoperta di veri e propri capolavori dell’architettura montana. Le pendenze, i fianchi scoscesi dei monti, le arditezze naturali vengono sfidate e piegate ai voleri dell’umana intenzione, senza però violare troppo la natura (come nelle opere moderne e contemporanee) ma cercando di armonizzarsi al contesto e cercando di lasciare inalterate le linee naturali. Sono costruzioni mastodontiche ma che si appoggiano come in una culla, come su un nido, sfruttando tutto l’esistente e non alterando eccessivamente il contesto in cui si trovano.
Passeggiando tra queste fortezze, si comprende meglio l’importanza dell’ambiente alpino e il ruolo che la montagna ha sempre avuto nella storia dell’uomo e nei suoi sviluppi, prima che si potesse anche solo ventilare l’opportunità di bucare i monti e di scavarlo. Particolarmente interessanti, ovviamente, le costruzioni nel versante italiano delle Alpi, dai forti del Colle di Nava, che costituiscono una sicura difesa sulla via da e per il mare, al Campo trincerato del Colle di Tenda, che controlla spettacolari valloni; dalla piazza fortificata di Vinadio e le fortificazioni della Sarziera all’immenso Forte Mutin di Fenestrelle, cantato anche da Edmondo de Amicis, la cui visita completa può richiedere fino a sette ore; dal forte di Exilles alle fortificazioni del Moncenisio, che corona o il delizioso omonimo lago; per finire alle grandi fortezze della Valle d’Aosta, dal Forte di Bard, che nel 1800 rallentò la discesa di Napoleone Bonaparte verso l’Italia al Forte di Machaby, ad Arnad, oggi riconvetito in un ostello per giovani.
Il volume, accompagnato da molte bellissime fotografie, è corredato da schede di approfondimento e focus interessanti, che analizzano i vari aspetti caratteristici delle fortezze e il loro ruolo stesso, che in alcuni casi ha subito dei cambiamenti anche consistenti e rivoluzionari. Per accompagnarci, inoltre, alla scoperta di questi tesori architettonici e storici, ci sono anche le schede delle passeggiate naturalistiche. Arte, natura e sport: un abbinamento che rende le nostre terre deliziose e il nostro futuro un ricco tesoro.

“Scrittori brutta razza”: lo scrittore che definisce sé stesso.

Scrittori brutta razzaGiulio Gasperini
AOSTA – Chi è lo scrittore? Tutti – soprattutto gli scrittori – si sono posti tale domanda. Come se la scrittura fosse stata inventata soltanto per far capire agli scrittori chi fossero in realtà: una sorta di tentativo continuo di risolvere la perenne crisi d’identità. Il problema, effettivamente, è che nessuno probabilmente ha mai trovato una risposta soddisfacente. E anche Luigi Saccomanno, con il suo caratteristico stile in sottrazione, fratto e frammentato, crivellato di punteggiatura, tenta di azzardare la sua definizione: e lo fa tratteggiando la figura molto particolare dello scrittore che scrive l’opera stessa, “Scrittori brutta razza”, edito da Lupo Editore nel 2013 nella collana InBox.
Definire romanzo il testo di Luigi Saccomanno è un’audacia. E anche ipotizzare una “prosa poetica” diventa anacronia. Si tratta piuttosto di un diario fluido, una registrazione completamente filtrata dall’interiorità del narratore, di una storia viva, vegeta, pulsante ma che mantiene i tratti di una visione onirica, di un viaggio in profondità nella coscienza scoperta e dolorante dei due personaggi principali, lui e lei. Entrambi poco umani e poco reali ma molto simbolici, portatori di valori che sono ben più profondi e consistenti.
Forte e severa la polemica con quegli scrittori che si tradiscono per vendere, che inficiano sé stessi e le loro opere per una firma su un contratto, per la vanità di avere pile di volumi all’entrata delle librerie e file ininterrotte di ragazze a chiederne incostanti un autografo. E nella società letteraria del nostro tempo ne potremmo individuare molti; impuniti. Lo scrittore compie un percorso di dolorosa ma necessaria catarsi: la violenza della separazione, la presunta colpa di una morte, la delusione professionale sono tutti moventi che lo porteranno, a distanza di anni, in un calendario quasi sacrale, a compiere il gesto di supremo annientamento, costringendosi e obbligandosi nella condizione più utile e irrinunciabile per il pensiero; e per cominciare quel serio percorso di teorizzazione che comunque sarà sempre mancante di qualche elemento, di qualche dettaglio. Le colpe che lo scrittore si attribuisce sono inflessibili, le tecniche svelate, i dolori denunciati; i trucchi, in definitiva, svelati, come se si trattasse di uno scarso prestigiatore, di un illusionista sfiancato e stanco. Ma, in realtà, il fatto stesso di scrivere è già un trucco che ne prevede altri, senza mai arrivare a un disvelamento completo e totale.

La vicenda narrata nel romanzo diventa un vero e proprio espediente narrativo. Le figure che compaiono, poche, pochissime, sono dei vettori, degli acceleranti per le ultime pagine del romanzo, quelle dove più che in altri luoghi si riflette e si teorizza su chi (e cosa) sia realmente e concretamente uno scrittore. Domande alle quali, come si evince anche dall’opera di Saccomanno, non è per nulla facile rispondere.

“Morte di un autore”: un Dracula narrativo.

Morte di un autoreGiulio Gasperini
AOSTA – Quando uscì nel 1897 il “Dracula” di Bram Stoker divenne un caso editoriale. Non soltanto per la storia agghiacciante ma seducente che narrava, ma anche per la modalità narrativa in cui era stato composto: un sommarsi e sovrapporsi di lettere e pagine di diari che consentivano di aggiungere un tassello alla volta nella ricostruzione del quadro complessivo, tanti sapidi punti di vista che edificavano una narrazione non scontata e mai banale, sempre in attesa. Nessuno era il narratore principale ma tutti i personaggi, in una coralità sinfonica, co-partecipavano alla narrazione stessa.
Marija Elifërova, in “Morte di un autore”, edito da Voland nel 2013, ha deciso di prendere il capolavoro di Stoker come modello per consegnarci una storia fluida e appassionante su un novello vampiro, il misterioso personaggio, Miroslav Eminovič. Di questa storia, magistralmente narrata, non si può svelare troppo; pena, la perdita di gran parte del piacere della letteratura. Uno dei meriti principali della Elifërova è senza dubbio quello di aver creato un romanzo in frammenti, sfruttando un divertissement narrativo di notevole e indubbio impatto emotivo. Non ci sono soltanto lettere, tra le fonti della Elifërova: ci sono anche ritagli di giornale, di cronaca, di cultura, di critica; ci sono le improbabili pagine della grande Virginia Woolf; c’è la seduzione del cinema e la vanità degli attori; ci sono le pagine intelligente di una studentessa tedesca; ci sono le pagine dettagliate e poetiche di una donna che finirà pazza. Ci sono tante angolazioni, squadernati con sapienza e maestria da una narratrice che sa orchestrare e dirigere i molteplici e distanti punti di vista.
La storia forse è in parte prevedibile, in qualche momento anche scontata. Ma non è l’interesse principale di chi scrive. L’autrice si intuisce come voglia tenere tesa e vibrante l’attenzione del lettore rivelando poco alla volta, centellinando le confessioni e i dettagli, svelando emozioni e misteri con una perizia più che giornalistica. La storia di Miroslav Eminovič incuriosisce e stupisce: e fondamentale, in tal senso, è l’importanza che la Elifërova, nella sua veste di autrice, attribuisce all’importanza dello studio, della filologia, dei tomi alti e polverosi che infestano, per molte persone, le biblioteche, ma che invece le popolano di vita e saggezza. Il più svettante dei meriti, però, la Elifërova l’ha squadernato nella costruzione del rapporto tra autore (fittizio), protagonista (e modello) e riproduttore del protagonista (l’attore): le tre figure, di Alistair Mopper, di Miroslav Eminovič edi Imre Mikesz, rappresentano un capolavoro di sintesi del rapporto tra chi la storia la scrive (che lentamente si spegne di mancata fantasia), di chi ne è protagonista (e che pare vivere solo in funzione della narrazione) e di chi la riproduce (che diventa folle e non conserva più individualità). Il consueto gioco di specchi tra finzione e realtà, che in tanti hanno provato a teorizzare ma che mai nessuno è riuscito – con sapienza eterna e compiuta – a risolvere.

Le tante “Corde” delle nostre vite.

cordeGiulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.

“Milano women-friendly”, la guida in tacchi a spillo.

Milano women-friendlyGiulio Gasperini
AOSTA – Una città si affronta in tanti modi, secondo diverse prospettive. Le guide Permesola della Morellini Editore ne offrono uno tutto particolare ed esclusivo: quello delle donne. Perché le donne hanno esigenze, interessi, passioni uniche; o, almeno, così parrebbe. Anna di Cagno, giornalista professionista per anche “Cosmopolitan”, conduce lettori e lettrici in un viaggio allettante nella capitale per eccellenza del fashion-style e delle notti-da-bere. La teorizzazione della Milanesity è d’obbligo in apertura di volume: capire cosa significhi essere milanese, abitare a Milano, vivere Milano ha delle regole precise, degli obblighi, dei doveri che bisogno tassativamente imparare e applicare; pena, il fallimento. O il fraintendimento.
La guida, accompagnata e impreziosita dalle foto di Monica Cappato e Anna Toscano, offre tutti i dettagli e le informazioni utili per affrontare la giungla urbana: quando partire, secondo anche un calendario di eventi e manifestazioni (e non soltanto seguendo i capricci e i dettami della meteo!), a cosa mettere in valigia, dando poi una serie di avvertimenti per tutte le donne che viaggiano sole. E poi si passano in rassegna, descritti con brevi e sapide pennellate, i luoghi più interessanti e suggestivi, dal Cenacolo vinciano alla Pinacoteca di Brera, dai Navigli all’Orto botanico, passando per le gallerie d’arte, i vari musei e persino Casa Sozzani.
guide women-friendlyDettagliate le sezioni su dove dormire e dove mangiare, mentre non poteva mancare (al di là degli stereotipi) mancare una parte dedicata alla “Milano con i bambini”. E non può neanche mancare una lunga lista di luoghi per gli “ape”, così tanto moderni e persino più sofisticati di ricche cene. Capitoli ricchi anche per lo shopping, in quella che è considerata, a ragione, una delle principali città modaiole: vestiti, gioielli e “the best vintage”, per le amanti dello stile retro ma sempre elegante e raffinato. Senza dimenticarsi, ovviamente, del wellness e del benessere personale: anche a Milano, infatti, ci sono luoghi dove potersi rilassare, tutti ben illustrati in “angoli di relax”.
Oramai le guide possono sembrare superate: è possibile scovare una app per i nostri smartphone su ogni aspetto del viaggiare. Dalle linee della metropolitane alle informazioni sui musei tutto scorre in internet, tutto scivola sugli schermi cinematografici dei nostri telefonini, sotto le nostre dita. Ma il piacere che dà la lettura di un punto di vista, di opinioni e suggerimenti è difficilmente scovabile, persino nelle migliaia e migliaia di deliranti valutazioni e commenti di TripAdvisor e simili.
Ovvio, comunque, che ogni città è unica e irripetibile proprio perché la varietà la nutre e l’alimenta. Pertanto, regole e teorizzazioni a parte, una città basta lasciarsela scorrere sottopelle. E buona Milano a tutt*!

“Senza paura verso il divenire meticcio!”. ChronicaLibri intervista Andrea Staid.

Le nostre bracciaGiulio Gasperini
AOSTA – La globalizzazione l’abbiamo voluta. Il libero scambio, l’euforia di internet, la sensazione desiderata di sentirsi parte di un immenso “villaggio globale” dove le distanze si annullassero e le particolarità di annichilissero. La globalizzazione, però, porta con sé anche alcuni obblighi, che per tanti, adesso, sono diventati indesiderati. La libera circolazione umana, inarrestabile, improcrastinabile, rimette in gioco l’identità, attiva dei meccanismi di ri-definizione, di ri-valutazione. Non possiamo ancora farci resistenti all’idea, all’inevitabile futuro di incontri e tangenze. Di tutto questo, e anche di molto altro, ne abbiamo parlato con Andrea Staid, giovane storico e antropologo, che ha pubblicato per AgenziaX il saggio “Le nostre braccia”, dove si analizza il processo del meticciato e dove si teorizzano le nuove schiavitù, quelle che alimentano e sostengono le leggi sull’immigrazione, soprattutto extra-comunitaria.

 

Per questa nostra chiacchierata partirei dal concetto di “meticciato” perché la parola stessa (affascinante di per sé) ha subito, negli ultimi tempi, una sorta di riabilitazione semantica. Se fino a qualche tempo fa il lemma “meticcio” veniva utilizzato con un’ombra denigratoria e infamante, anche grazie al tuo saggio è evidente come le prospettive si siano ampliate e aggiornate. Persino sul piano della narrativa ha trovato spazio il grande esperimento di Wu Ming 2, con il ridefinito “romanzo meticcio”, ovvero un romanzo costruito tramite testimonianze, materiali d’archivio, memorie, interviste, fotografie, e anche creazione narrativa. Cosa si intende, oggi, per “meticciato” e come lo si può vivere e sperimentare concretamente?
Il meticcio è l’incontro, l’ibridazione tra culture diverse, ma non dobbiamo malintendere questo concetto, perché come ci ricorda Laplantine, non esistono individui originariamente puri, il meticciato si oppone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità. Non è una fusione, coesione o una specie di osmosi è un confronto tra le tante alterità culturali è quello che manca nelle nostre politiche sociali cioè il DIALOGO. In più non dobbiamo dimenticarci che la storia del Mediterraneo, dell’Europa è fatta da un vero e proprio crogiuolo culturale, di migrazioni continue, avvolte sotto forme di invasioni, conquiste, scontri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche dei popoli. Il meticcio è al di fuori di tutte le argomentazioni politicaly correct, è un mosaico polimorfo, decostruisce i muri identitari nazionali e sovranazionali. Cosa dobbiamo fare per viverlo e sperimentarlo? Smettere di avere paura, scavalcare i falsi confini del “noi” “loro” in modo da rielaborare i nostri modelli dei rapporti sociali e risistemare le coordinate del mondo vissuto perché le forme della società sono la sostanza della cultura.

 

E pare proprio la paura il sentimento costante dei nostri Anni Zero e Dieci. Talmente tanta la paura da aver elaborato delle leggi a regolare l’immigrazione che sono dei veri e propri bunker, anche se pieni di falle e di maglie deboli. C’è chi ha parlato di “Fortress Europe”, una vera e propria fortezza, fatta di frontiere rinforzate e di assurde leggi migratorie. Tu definisci il migrante una “non persona estremamente ricattabile”: perché i migranti fanno paura? Quali sono i nostri timori? Cosa immaginiamo a rischio ipotizzando l’arrivo di altre persone?
L’Europa infatti è una vera fortezza, fatta di confini sorvegliati da eserciti e polizie internazionali, fatta di persone con diritti e di persone uguali a queste ma di serie b, quelle che nel mio libro e prima di me Alessandro Dal Lago ha chiamato “non persone”. “Non persone” perché anche se camminano, mangiano e dormono come noi il fatto che non hanno il permesso di soggiorno che è solamente un pezzo di carta con un timbro sopra, li fa diventare immediatamente delle persone senza nessun diritto, ovvero non persone estremamente utili per il nostro sistema capitalista che necessita di lavoratori altamente ricattabili senza nessuna possibilità di rivendicare i propri diritti. I “nostri” timori sono dettati dalla paura del diverso, dal confronto con l’alterità perché troppo spesso tendiamo a rinchiuderci in una falsa e monolitica identità culturale. Come scrive Marco Aime nel suo “Macchia della razza, storie di ordinaria discriminazione” ormai siamo come quei tifosi che non inneggiano più alla loro squadra, ma passano novanta minuti a insultare gli avversari, tifosi che hanno fatto dei colori di una maglia una terra di appartenenza per cui vale la pena combattere, fare male, persino uccidere. Una terra non da amare, ma utile a odiare gli altri.

 

E per dominare le nostre paure, per illuderci di essere più sicuri nelle nostre vite, ci siamo inventati una legge sull’immigrazione che, come tu sostieni nel tuo saggio, incentiva la clandestinità e favorisce lo sfruttamento. Tu scrivi una cosa significativa nel tuo testo: “l’irregolarità non è un tratto ontologico del migrante, ma è determinata da un dato sistema giuridico”. Sicché è lo stato, paradossalmente (ma non troppo), che crea e favorisce la clandestinità, definita però al tempo stesso come reato. Quali sono i meccanismi per cui lo stato esercita questa sua ambivalente funzione? In nome di cosa si dispone di altre vite con una pratica burocratica alienante?
La legge italiana è particolarmente ridicola per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori. Praticamente è una legge che produce clandestinità. Un migrante una volta arrivato in Italia se non ha già un datore di lavoro non ha nessuna possibilità di essere regolarizzato. L’unica possibilità che trova davanti a sé è quella di lavorare in nero super sfruttato, senza nessun tipo di diritto. Il problema non riguarda poi solo il mondo del lavoro ma anche quello della casa: senza documenti trovare una casa è un odissea, e molti italiani se ne approfittano chiedendo affitti allucinanti per piccoli appartamenti o singole stanze da condividere. Ma non è finita qua senza documenti i migranti si vedono negare anche uno dei diritti più fondamentali cioè quello della libertà di movimento, si muovono il meno possibile e sempre con la paura di essere fermati e rinchiusi in un CIE o in un carcere senza aver commesso nessun reato. La seconda domanda invece contiene anche la risposta, la burocrazia è alienante e crea per dirla come David Graeber spazi morti nell’immaginazione degli esseri umani. Più semplicemente tramite cavilli burocratici, leggi sempre più restrittive si crea disuguaglianza, sofferenza e si condannano migliaia di esseri umani alla nuova schiavitù.

 

Ed è forse ancora più agghiacciante pensare che al giorno d’oggi si siano ripristinate, con la complicità e l’omertà dello stato, nuove forme di schiavitù. Una schiavitù che non soltanto condanna all’estrema precarietà i migranti ma che condiziona spesso i rapporti anche tra di loro, come tu scrivi in un paragrafo del tuo libro. In particolar modo tu analizzi un caso specifico, quello delle badanti. Noi siamo oramai abituati a queste figure che son diventate essenziali per la nostra esistenza, ma difficilmente immaginiamo – o abbiamo la pazienza di immaginarci – le dure condizioni nelle quali vivono e lavorano. Perché questo fenomeno è interessante all’interno della tua lettura etnografica? Quali considerazioni permette di elaborare?
Il capitolo sulle badanti analizza proprio un caso specifico, perché oltre allo sfruttamento la maggior parte di queste donne vivono una situazione di segregazione, di vero dominio e controllo da parte del datore di lavoro. In più analizzando bene le conversazioni che ho avuto con le badanti esce fuori un altro aspetto centrale che è quello di sentirsi trattate come delle macchine tappa buchi. Da non sottovalutare poi che sono le precarie per eccellenza nel mondo del lavoro nero perché la durata del loro impiego è strettamente legata alla vita del loro assistito. Per le considerazioni che permette di elaborare invece lascio la parola a una donna che lavora in Italia come badante che molto meglio di me sa esprimere ed elaborare quello che è la condizione di queste giovani donne: “Mio amato marito, emigrate diveniamo immortali. Mai nate, non siamo state cresciute, non invecchiamo, non ci stanchiamo, non moriamo. Un’unica funzione: lavorare. Immortali poiché continuamente interscambiabili. Esisterà la fine del lavoro, ma non c’è limite alle forme del servire”.

 

Sicché quali sono le possibili prospettive? Quali le avverabili soluzioni? Quali possono essere le decisioni coraggiose da prendere per trasformare la migrazione da ancestrale (e irrazionale) paura a effettivo momento di scambio e crescita, di compiuto meticciato?
Per smettere di avere paura bisogna accettare una interazione egualitaria con gli altri, dobbiamo saper costruire identità dai confini aperti e pronti al cambiamento. L’identità può avere una valenza positiva e riconoscersi negli altri e una negativa nella quale scoprirsi e definirsi in base a ciò che ci differenzia dagli altri. La valenza positiva porta verso il pensiero meticcio che contrasta il falso universalismo e il mito della purezza, questo avviene tramite un processo dinamico di scambi reciproci, di accettazioni e di rifiuti, di rinunce e di appropriazioni. Dobbiamo essere consapevoli dei tanti possibili errori, delle difficoltà, degli incontri e degli scontri, ma anche essere forti della necessità di accettare la complessità del reale, perché la complessità deve diventare il fondamento della nostra identità. Quindi senza paura verso il divenire meticcio!

“Il Vurricatore” e i mestieri della mafia.

il vurricatoreGiulio Gasperini
AOSTA – Sovente – molto sovente – la realtà sa offrire materiale narrativo più perfetto che se partorito della fantasia stessa. Basta soltanto cambiare qualche nome, fare chiarezza su alcuni snodi, analizzare un po’ più profondamente gli sguardi e i pensieri. Nulla più. E “Il Vurricatore” di I.M.D., sovrintendente della Polizia di Stato, ne è un esempio abbacinante. Il protagonista del romanzo, edito da Edizioni Leima nel 2013 nella collana “Le stanze”, è in realtà Gaspare Pulizzi, un mafioso legato alla famiglia di Carini. Un personaggio storico, pertanto, che non tutti possono ovviamente conoscere ma la cui parabola all’interno della scalata mafiosa è indicativa ed esplicativa di come la mafia si organizzi e funzioni alimentando sé stessa e mai scoraggiandosi.
Il racconto di I.M.D. è sorprendente per la chiarezza, per la fluidità della narrazione. Pare quasi un rapporto di servizio, purgato dei termini del burocratese spinto, ma ugualmente chiaro e lineare, dove ogni parola ha il suo spazio, dove niente è superfluo né estraneo. La semplicità delle azioni descritte, la modestia nell’utilizzo degli aggettivi, la snellezza delle descrizioni, la maestria di pochi dati per giustificarci un sentimento, un pensiero, una reazione: tutto concorre a far deporre l’attenzione del lettore sulle pratiche del fenomeno mafioso, analizzato e descritto con grande precisione e puntualità, fin nei più assurdi rituali d’iniziazione e nella gestione degli affari direttamente sul territorio. Tante vite si muovono in questo che potremmo definire faction novel, ovvero un romanzo di fatti e fiction. Tanti personaggi lo popolano, tante coscienze lo animano: la mafia è un fenomeno corale, che si regge su singole potenti e carismatiche identità ma che coinvolge e avvolge larghe fasce di popolazione, tra chi si dedica all’omertà e chi all’opposto decide la lotta, la resistenza fiera. E nel romanzo c’è spazio anche per la Polizia, per le forze dell’ordine, di cui vengono messi in luce i successi ma anche gli insuccessi, i buchi nell’acqua, le vane difese, i falliti piani. Perché “Il Vurricatore” è una storia “normale”, un racconto che non ha nulla di stra-ordinario, ma che ci trascina in un luogo che potrebbe essere il nostro, in un intenso scambio di favori e privilegi nel quale ciascuno può cogliere un aspetto della sua vita vera. È un “romanzo” che ci fa quanto meno socchiudere gli occhi: proprio perché la mafia è un fenomeno banale; che si basa, ovvero, su semplici legami, su ovvi rapporti. Ed è forse questa la sua più sorprendente caratteristica, quella che le consente di rinnovarsi ogni volta, dopo ogni apparente insuccesso. E sono anche i legami contro cui è più difficile, in nome della legalità, combattere.

Gli “Ottantatré” anni di Giustino.

OttantatréGiulio Gasperini
AOSTA – “Ottantatré” sono gli anni che Giustino vive, nel romanzo di Alberto Bracci Testasecca edito da Edizioni e/o. E per ogni anno Giustino ha un attimo, un momento, un frammento di vita da raccontare, quasi da confidarci con la delicatezza di un rapporto amico e fraterno. Sulla falsa riga di “The years” di Virginia Woolf, la storia personale di Giustino si intreccia con un avvenimento della Grande Storia, come a stabilire un legame inscindibile tra l’uomo e l’accadere degli Eventi. In qualche caso più invasiva, in altri meno, la Storia fa accadere qualche evento per ogni anno, scandito cronologicamente, con una cadenza maniacale e ridondante: 1° anno, 2° anno, 3° anno… Dalle Torri Gemelle al delitto Moro, dalla guerra del Vietnam agli scontri intorno a Villa Giulia a Roma, dalla vittoria dei mondiali di calcio ’82 a quella del 2006, tutto si intreccia con lo srotolarsi della vita di una misera pedina nel grande gioco del destino.
Alberto Bracci Testasecca, partendo dal bellissimo borgo di Montalcino, in Toscana, dove tutto principia e finisce in un ritorno circolare, tesse una favola moderna, con una pregevole fluidità narrativa e una discreta capacità di pennellare brevi dialoghi colmi dell’essenziale. Il materiale umano e storico evocato in queste pagine è tanto, abbondante, mastodontico: praticamente non si dimentica di nulla, comprende tutto ciò che ha caratterizzato il “secolo breve”, fino a sconfinare nei più recenti Anni Zero. Testasecca tratteggia certe interpretazioni, fa capire le sue opinioni, certe volte semina dubbi ma al contempo mostra dimesso la direzione dove guardare per decifrarla. La vita di Giustino è una vita semplice, nutrita di sentimenti e di emozioni declinate secondo una comune familiarità. Viene generato, nasce, cresce, ha le prime cotte, si innamora profondamente, si sposa, nascono i figli, arrivano le crisi coniugali, si innamora di nuovo, cresce i figli, accudisce i nipoti: è un copione già visto, una parte che non conosce sorprese né colpi di scena.
Non c’è niente di stra-ordinario nella sua vita. Si innamora, tradisce, si innamora di nuovo, si impegna per non arrendersi, combatte, fa finta di niente. Si comporta come un qualsiasi essere umano alle prese con la sua vita qualsiasi. Ma non è un inetto, Giustino. Perché non subisce passivo l’accadere degli eventi ma cerca di farsi pilota attivo del suo destino; cerca di non subire le casualità feroci con l’arrendevolezza di chi sa già che nessuna difesa può servire contro l’inevitabile: e invece si presta al combattimento, si arrabbia, si infuria, si difende con le armi che conosce. E alla fine, quando il suo corpo decide di averne a sufficienza e lo abbandona in mezzo all’orto familiare, Giustino può ben dire di aver vissuto come meglio – sicuramente – non avrebbe potuto.

“Istemi” e le paranoie della sicurezza nazionale.

IstemiGiulio Gasperini
AOSTA – Cinque studenti universitari, nell’Ucraina della metà degli anni Ottanta, si appassionano a un gioco di ruoli fantastorico. Come ai nostri tempi, quando nelle lunghe sere invernali capitava di mettersi intorno a un tavolino e improvvisare amichevoli guerre con Risiko. “Istemi”, il romanzo dell’ucraino Aleksej Nikitin, edito da Voland nel 2013, è un curioso esperimento di sciarada, un racconto sempre in sottrazione, nel quale la comprensione è tutta a carico del lettore, e dove soltanto il finale getta luci più sicure e salde su tutta la trama e sulla caratura dei personaggi.
Il passatempo dei giovani universitari ben presto diventa un pretesto per cacciarli dall’Università, bandirli dal sapere, estraniarli dalla conoscenza. Niente meno che il Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti (meglio noto come KGB) si insospettisce dei loro nomi in codice, delle loro fittizie mosse, dei loro inventati spostamenti. E comincia un servizio di spionaggio che si dipana tra antiche lettere, telefonate misteriose e ancor più misteriosi pedinamenti. I protagonisti, e soprattutto la figura di Davydov, che come e-mail usa il nome di Istemi, l’ultimo signore assoluto del Khanato turco di Zaporož’e, si muovono in atmosfere oscure, al limite del paranoico. L’ambiguità tra realtà e finzione, tra gioco e vita, tra sospetto è certezza è costantemente portata al limite, estenuata ai limiti del fraintendimento. Anche gli eventi, i fatti che dovrebbero concedere al lettore spiragli di comprensione e di verità non sono così performanti e sicuri. La vicenda cardine accede nel 1984, l’epoca degli studi universitari e delle goliardate tra amici, mentre parallela corre la storia più moderna, di venti anni dopo: siamo nel 2004, e una mail contenente un ultimatum risveglia antichi ricordi e ancor più remote certezze. Questo evento è la causa scatenante una ricerca dettagliata e profonda delle vere ragioni, della realtà più profonda.
La tecnica narrativa di Nikitin è sicuramente interessante, un esperimento coraggioso di racconto in sottrazione: in alcuni punti il lettore si trova spiazzato, in balia dei sospetti e delle domande; ma forse anche questo fa parte dell’accorgimento narrativo. I sospetti, le domande, le incomprensioni si assommano e si sovrappongono, in un’accelerazione al disvelamento che è breve incursione in un mondo parallelo e alternativo, quello dominato dal morboso sospetto e dall’ansia della conoscenza a ogni costo.
Il breve romanzo di Nikitin, in molti punti intensamente ironico, sbeffeggia e critica la paranoia e l’ansia della sicurezza, così tanto affermata nei paesi del blocco sovietico. Tanto da non aver neppure la capacità di distinguere tra un semplice gioco e una minaccia reale.