Giorgia Sbuelz
ROMA – “Questo è uno studio di Gauguin come uomo. Poiché l’uomo non può essere separato dalla sua opera, ci siamo soffermati, quando lo abbiamo ritenuto necessario, sullo sviluppo dell’artista.” Partendo da questo assunto enunciato in prefazione, i coniugi Lawrence ed Elisabeth Hanson compiono, nella biografia Paul Gauguin, Edizioni Odoya, un viaggio nella vita di uno tra i più avventurosi artisti mai esistiti, e nel periodo più movimentato che l’umanità abbia sperimentato.
Gauguin nacque, infatti, a Parigi nel 1848, quando in Europa impazzavano i moti rivoluzionari. Figlio di un giornalista liberale e nipote, per parte materna, di Flora Tristan, una intellettuale anarchico-socialista di origine peruviana, trascorse proprio a Lima i primi anni della sua infanzia. Furono sicuramente anni caratterizzanti. Rimasta vedova, la signora Aline Gauguin, madre di Paul, era stata accolta con i suoi figli da un facoltoso zio, che aveva procurato loro una delle dimore più grandi di Lima e li aveva introdotti al lusso e alla comodità della servitù indigena. Un ambiente spurio, poiché Lima era in quel momento un miscuglio di alta civiltà e barbarie, dove il contatto con i corpi nudi e bruni che si aggiravano per le strade e che servivano in case come la sua, lo abituarono a una forte libertà dei costumi e indirizzarono le sue predilezioni future verso donne esotiche e selvagge, aggettivo che peraltro attribuiva a sé stesso ogni qualvolta fosse necessario rammentare agli altri chi fosse: “Discendo dai Borgia d’Aragona… ma sono anche un selvaggio!”
Il senso di libertà fu sempre preponderante in lui, durante l’infanzia come in età adulta, ne è testimone il fatto che, rientrato con la famiglia a Parigi, scelse d’imbarcarsi come marinaio per coprire la rotta fra Le Havre e Rio de Janeiro… Ma era pur sempre un discendente dei Borgia, aveva conosciuto agi e conforti, per questo, di punto in bianco, decise di far carriera come agente di Borsa e di vivere da ricco borghese nella sua città natale. In questa fase della sua vita, decisivo fu l’incontro con Mette Gad, una giovane donna di Copenaghen proveniente da una famiglia di funzionari statali che lavorava come governante per i figli del presidente del Consiglio danese. Mentre era in vacanza a Parigi, la giovane Mette incontra e s’innamora dell’affascinante agente di Borsa Gauguin. In quel periodo il futuro artista, aveva bisogno di stabilità e rispetto, scelse così la più rispettabile delle donne che aveva conosciuto fino a quel momento, la sposò e divenne padre di ben cinque figli. Furono anni di serena vita domestica e generosi guadagni dovuti al suo fiuto per gli affari. Che cosa poteva desiderare di più un uomo? Ma l’ambiente intorno a lui era tutto un fermento e un passionale come Gauguin non poteva rimanerne immune. Nel 1874 trenta coraggiosi uomini e una donna avevano esibito alla Galleria Nadar nuove forme di pittura, talmente innovative da guadagnarsi l’appellativo ironico di “impressionisti”, dal titolo dell’ormai celeberrimo quadro di Monet esposto per l’occasione.
Il gruppo, raccolto intorno alla figura di Pissarro, rappresentò il punto di rottura con la concezione accademica dell’arte. Fu in quel momento che Gauguin scoprì l’interesse per la pittura, perché di interesse si trattava, non di vocazione, almeno per il momento. Per lungo tempo, infatti, affiancò il lavoro di agente a quello di “pittore domenicale”, dimostrando una predisposizione chiara solo a pochi, almeno nella sua fase iniziale. Ma il movimento impressionista esigeva totale adesione: “Nessuno può essere un vero pittore se non ama la pittura più di qualsiasi altra cosa. Non basta conoscere il tuo mestiere, bisogna che esso ti commuova”, così affermava Manet, e presto Gauguin fu messo alle corde: non poteva essere pittore e impiegato, scelse di diventare pittore e operò una svolta radicale nella sua vita e in quella della storia dell’arte.
Lavorando a tempo pieno come pittore e, non vendendo un quadro, sperperò in meno di un anno i risparmi accumulati costringendo la sua famiglia a trasferirsi a Copenhagen dove sperava di avere l’appoggio economico dei famigliari di Mette. Ciò non avvenne, non solo, l’atteggiamento verso di lui in Danimarca era di derisione e commiserazione allo stesso tempo. Effettivamente stava obbligando la famiglia alla fame, ma se doveva scegliere fra i suoi cari e la pittura, i primi non avevano chance. Abbandonò la moglie e i bambini per tornare a Parigi, portando con sé il figlio prediletto Clovis, scelta che gli costerà cara, poiché nonostante la sua prolifera produzione, visse dell’elemosina dei suoi amici, non vendendo nulla e riducendo Clovis a pelle e ossa. Paul era costretto a mangiare ogni tre giorni, spesso non aveva un tetto sulla testa o di che scaldarsi, eppure era ossessionato da un altro problema: doveva trovare la sua “sensazione”, voleva che i suoi quadri racchiudessero in un’immagine le sue reazioni di fronte ad un soggetto. “È tutto lì, in quella parola”: così dichiarava. Inseguendo la sua personale “sensazione” ruppe con la cerchia degli impressionisti, e cominciò il suo pellegrinare in cerca di luoghi che lo aiutassero in quel processo che sentiva rodergli dentro, ma che non sapeva afferrare. Fino a quel momento l’unico exploit c’era stato con l’opera “Studio di nudo” nel 1861, che Huysmans definì un capolavoro, ma poi si era fermato lì. Doveva trovare un suo paradiso per trarne ispirazione, gli altri potevano anche starsene nei caffè dei boulevard a Montparnasse, a lui serviva la natura incontaminata, un luogo per riscoprirsi selvaggio, e lo trovò nel lato meridionale della penisola bretone, a Pont-Aven. Mai scelta fu più felice, ben presto intorno a lui si raccolsero giovani pittori desiderosi di sperimentarsi, fra tutti essenziale fu l’arrivo di Émile Bernard, con cui fonderà successivamente anche una scuola denominata di “Pont-Aven”.
Nel frattempo intratteneva con la moglie una fitta corrispondenza, informandola dei suoi progressi e enfatizzando le aspettative future, lei di rimando gli chiedeva denaro e si lamentava dell’abbandono. A lui non erano mancate altre donne, ma per tutta la vita tentò di riallacciare i rapporti con la moglie invitandola a seguirlo nelle sue imprese.
Chi invece reclamava la sua presenza con una tenacia senza eguali, era uno strambo olandese che rispondeva al nome di Vincent Van Gogh. Gauguin era sospettoso nei riguardi di quell’artista dagli evidenti problemi di nervi, ne aveva compreso l’estrema vulnerabilità, tuttavia era lusingato dalla venerazione che quell’uomo solitario e incompreso riversava nei confronti del “grande Gauguin”. Rifiutò più volte il suo invito a trascorrere insieme del tempo in Provenza, ma dopo un’impresa catastrofica in Martinica, dove era partito col giovane Laval in cerca di fortuna e nuove esperienze pittoriche, accettò l’ospitalità di Van Gogh, più per calcolo che per piacere. Vincent era infatti fratello di Theo, mercante d’arte alla galleria Goupil.
Gli esiti dell’incontro fra i due sono rimasti alla storia: uno fuggì terrorizzato, Gauguin, l’altro si tagliò un orecchio in atto di disperazione, ovviamente il povero Van Gogh. Eppure, anche in quella circostanza carica di dolore, l’arte ebbe la meglio. Le opere dipinte da Vincent per Paul, le xilografie giapponesi che l’olandese aveva mostrato all’amico, scossero l’animo di Paul, sempre in cerca di nuovi spunti. Sempre disposto ad osare.
Con la scoperta del simbolismo sintetico, e l’importanza dei colori puri, a Gauguin l’Europa non bastava più. Voleva la luce accecante, il sole rosso, la natura abbagliante: voleva Tahiti, laddove nessun artista si era ancora spinto. Ed ecco le sue donne, i suoi nudi, la scoperta degli idoli, il senso di precarietà e il contatto col sovrannaturale. Prese una “vahine”, una moglie tahitiana, non era che una ragazzina, eppure lo introdusse al mistero che quelle isole, nonostante la colonizzazione, si ostinavano a mantenere. Felice fu il connubio fra la pittura che aveva portato quell’avventuriero europeo e i soggetti polinesiani.
Nell’immaginario collettivo Gauguin è rimasto impresso maggiormente per la produzione polinesiana: i fiori dai colori sgargianti, i cani rossi, i nudi di donna possenti ed eleganti allo stesso tempo, le pose azzardate ma mai volgari. Mentre l’uomo veniva consumato dagli stenti e dagli ostacoli, l’artista trovava pace e di dissetava ad una fonte primigenia: il selvaggio in lui era stato dunque accontentato.
Tornò ancora in Francia, ma il tormento che lo aveva sempre caratterizzato lo spinse ancora a Tahiti, poi nelle Isole Marchesi. Produceva instancabilmente, eppure sentiva vicina la propria fine. Aveva contratto la sifilide, sapeva che il suo tempo era limitato. Dipinse così: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, un quadro che sintetizzava tutta la sua esperienza umana e artistica.
Gauguin morì in solitudine a Hiva Oa, assistito da uno stregone e da un pastore protestante. I suoi figli preferiti l’avevano preceduto, Aline e Clovis, e della dipartita di quest’ultimo non fu nemmeno avvisato. Sperimentò tutto il possibile in vita, ma non ebbe mai la gioia di riabbracciare la sua famiglia.
Nella biografia degli Hanson si percepisce la forza tenace e il dramma dell’artista, condannato per il suo genio all’incomprensione dell’epoca e alla solitudine che inevitabilmente segna la via della grandezza. Un ritratto sincero, uno scavo profondo nell’esistenza di un uomo spesso spocchioso, difficilmente umile e provocatorio come pochi. Una ricerca affrontata con la dedizione e l’affetto che si deve ad un eroe, il cui apporto alla ricerca artistica fu fondamentale affinché nelle generazioni future si potesse esprimere liberamente il proprio estro. Una lettura fluida, mai dispersiva, sebbene la ricchezza dell’esistenza di Gauguin potesse far indugiare su molti particolari o digressioni. La ricostruzione è semplice, in parte basata sulle lettere che per tutta la vita Gauguin scrisse alla moglie danese, per questo la promessa viene mantenuta: si scopre l’artista attraverso l’uomo, si comprendono le soluzioni pittoriche attraverso la vita, gli scenari e le persone incontrate di volta in volta. Una scelta che sarebbe stata avallata da Gauguin stesso, se pensiamo a quanto da lui scritto negli ultimi giorni di vita:
“E’ vero, invece: sono un selvaggio. La gente civilizzata lo intuisce perché nella mia opera non c’è niente che sorprenda o che sfugga, se non il fatto che sono un selvaggio senza volerlo. Questa è la ragione per cui non può essere imitata. L’opera di un uomo è la spiegazione della sua personalità.”