Edizioni Alegre: un’autobiografia
Giulio Gasperini
AOSTA – Un curioso volume, quello edito da Edizioni Alegre, nella collana WorkingClass: questo Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter è un ibrido difficilmente catalogabile. Corre sul filo del romanzo di formazione, ma è un’autobiografia che sconfina in un saggio sociologico e antropologico. Non farne capire la definizione, effettivamente, fa parte dell’intento dell’autore, che ama destabilizzare il lettore in un flusso di narrazione incessante e straniante. L’obiettivo finale è esplicitato più volte: quello, cioè, di far navigare il lettore attraverso “la tempesta di merda del capitalismo razzista e patriarcale in cui viviamo”.
Hunter è un “chav”, ovvero un coatto, termine dispregiativo utilizzato per “disumanizzare un vasto gruppo di persone che reagisce con noncuranza nei confronti di chi ha beneficiato della loro espropriazione”. Una parola, complessa, insomma, utilizzata in maniera feroce e brutale per catalogare e lasciare ai margini. Con Hunter, questa parola si fa ribellione, c’è il tentativo di risemantizzarla e utilizzarla come atto di rivendicazione, per tutti quei corpi sottomessi e lasciati agonizzanti sulle soglie della collettività sociale.
Hunter ci accompagna nell’inferno della sua vita; in una narrazione che non tiene tanto conto dello svolgimento cronologico ma che si satura di un’umanità sofferta e sofferente, di drogati e abusatori, di carnefici e di secondini crudeli, di giovani arrabbiati e apparentemente inermi. Non nomina quasi nessuno, perché il nome non è importante in questa disamina: però ci fa intravedere corpi e volti, in una giostra vertiginosa nella quale cadiamo con il narratore, protagonista di ogni vicenda narrata. A fianco del racconto, però, si disfa la matassa di un complesso ragionamento politico e sociale: “La cosa più bella che ho visto è quando le persone povere si prendono cura di altre persone povere”, laddove la povertà coincide con la condizione, per lo più, di working class, che cozza e impatta con la gestione e la pervasività dello stato centrale: “Senza il sostegno di una comunità, prevarrà la gestione statale, ossia quelle stesse istituzioni che hanno creato il sistema in cui si sono formati i tuoi problemi”. Alla base, c’è uno stravolgimento del concetto di uguaglianza, viziato dai soldi e dal capitale, dall’atteggiamento di innalzare la capacità individuare di guadagnare la ricchezza e di conservarla.
È una lotta tra immateriale e corpi, corpi che si presentano nella loro rabbia più feroce, nella loro corporeità più cruda e senza filtro alcuno: “Our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno”. Quello di Hunter è un duro attacco alla società contemporanea, ai suoi meccanismi di controllo e di potere, così subdoli da non essere immediatamente evidenti e da colpevolizzare coloro i quali da quegli stessi meccanismi si trovano nelle condizioni di vulnerabilità più estreme e sofferte, apparentemente senza via d’uscita se non sottomettersi al potere. Come in una catena di produzione che non lascia margini di autonomia né di autodeterminazione: trappola nella quale, spesso, cadono anche coloro che pensano di combattere dalla parte giusta, per gli ideali corretti: “Si continua a rifiutare l’idea che debba essere l’oppresso a decidere la propria forma di resistenza”.
Alla fine, però, traspare chiaramente come l’obiettivo ultimo del libro sia quello di mostrare un’altra via: cioè come saldare e rafforzare la solidarietà tra “coatti” della società, gli abitanti di quella working class che troppo a lungo ha sofferto e patito il controllo dei poteri forti; perché “l’autodifesa contro i potenti è possibile”.