Giulia Siena
PARMA – Emmanuel Bove – come scrive Antonio Castronovo nella postfazione de L’equivoco – “aveva rischiato l’oblio: aveva scritto tra il 1924 e il 1945 una trentina di romanzi, vari racconti e un breve diario”. L’abbondante e veloce produzione narrativa, però, non bastò a fare emergere l’interessante voce narrativa dell’autore parigino tra il chiasso corale del dopoguerra. Eppure la scrittura di Bove (nato Bobovnikoff da padre russo e madre lussemburghese) attrae per lucidità, ricchezza e perspicacia. L’occasione per conoscerla, scoprirla o riscoprirla è, appunto, L’equivoco, il racconto del 1930 portato in Italia dalla sempre sorprendente Via del Vento Edizioni.
François Vaillant viene ammaliato dalla bella e giovane Simone Henné. Il desiderio si mescola presto al senso di colpa, la curiosità al dubbio, l’attesa all’incertezza e per Vaillant l’appuntamento datogli da Henné diventa presto un’ossessione da assecondare. Quella donna, così allegra e leggera, seppur compagna del chirurgo Formont, sembra il giusto riconoscimento per i suoi tanti sforzi. Vaillant cerca l’allegria e Simone, a differenza di Emilienne, la moglie che gli era stata accanto nei tanti momenti bui e quelli splendore, è così spensierata e vivace. Quel pomeriggio, entrando a casa di Simone, però, si innestano malintesi e menzogne che, insieme al flusso di pensieri e titubanze del protagonista, daranno vita a riflessioni personali e sociali. Emmanuel Bove costruisce un racconto in cui incertezza e precarietà si intrecciano rendendo al meglio i sentimenti di un uomo che cerca il tradimento per afferma se stesso in un mondo a cui anela e dal quale rifugge.
“Si raggiunge la felicità solo grazie a se stessi, pensava; ogni volta che diamo retta a un consiglio, ce ne allontaniamo”.