Giulio Gasperini
ROMA – Vero o presunto è il diritto alla felicità? È dovuto o supposto? Esigibile o auspicabile? La Dichiarazione d’Indipendenza americana, già nel 1776, sancì, con forza, che gli uomini, creati eguali, sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili “by their Creator”, tra i quali “life, liberty and the pursuit of happiness”; vita-libertà-ricerca-della-felicità. Il diritto alla felicità è anche l’assillante esigenza che muove Severa, la protagonista de “L’amore negato”, l’ultimo romanzo della ahimè dimenticata Maria Messina, edito nel 1928 dall’editore Ceschina. È così urgente la sua pretesa di felicità da soffocare gli altri istinti, da reprimerli inconsciamente, pensando unicamente al fare, all’agire, alla “roba”; proprio quella “roba” di verghiana memoria. Se, infatti, Maria Messina non può iscriversi nell’ambito della letteratura verista, è pur vero che Verga fu l’unico personaggio del mondo letterario col quale la giovane donna ebbe contatti. Maria Messina nacque, guarda caso, a Palermo, fu siciliana: sicché non le fu estranea la “filosofia della roba”, così magistralmente teorizzata soprattutto nelle novelle verghiane. Colpisce, il romanzo, infatti, soprattutto per la spietatezza della vicenda, per l’ineluttabilità dei comportamenti, per il disincanto che la vita oramai pare aver gettato nel cuore di una giovane donna e scrittrice, già consapevole che la sua malattia, la sclerosi multipla, l’avrebbe condotta a una morte attesa e prevedibile; che fu da tutti ignorata.
Severa (che bell’invenzione, il nome!, così altero e austero) disdegna la madre, la sorella, il fratello un po’ picchiato, che finisce per annegare, chissà quanto casualmente, in un fiume tumultuoso. Disdegna la loro vita di povere, le confina nelle stanze che un tempo furon ripostigli, perché il resto della casa le serve per fondare e guidare un’impresa di sartoria: soprattutto di cappellini che, all’inizio, le signore altolocate corron a comprare e farsi fare su misura; poi, virata la sorte, se ne vanno altrove, e a Severa resta l’umiliazione di veder fallire l’impresa nella quale aveva investito ogni più misero soldo di un’eredità ricevuta per grazia d’una vecchia, malata immaginaria ma abbandonata, accudita non per sincero spirito caritatevole, né per mutuo soccorso, ma per gelido tornaconto.
Fallisce, Severa, per causa sua: per la rudezza dei suoi modi, per gli scostanti atti, per una naturale superbia che le derivava dal suo pretendere, senza il minimo dubbio, la felicità. Fu troppo convinta di meritarsela, ché la sua vita era stata indefessa e rigidamente rivolta alla conquista della felicità stessa (che non si può chiamare in altro modo), in un circolo di cause ed effetti che subito, senza troppe illusione, collassò nel dolore. E anche l’amore la stordì: si illuse d’un legame mai allacciato, d’un sentimento mai provato, d’una passione mai esplosa. Si illuse e illudendosi si scoprì fragile, vulnerabile, esposta all’assedio e facile da espugnare: tutto quello che di lei non avrebbe mai voluto né vedere (lei stessa) né rivelare (agli altri).
E per vendetta, nei confronti del mondo, non si concederà la capitolazione, non si accorderà la resa; fuggirà ogni legame, soprattutto quelli familiari, e si negherà ogni altro possibile amore.
“L’amore negato” e il presunto diritto alla felicità.
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Qualcuno mi ha detto che “la propria felicità e quella degli altri viene per le cose semplici, per il rispetto e per i gesti più piccoli gesti che possono fare le persone che ci stanno accanto e ci accompagnano nel nostro percorso di vita”…. Credo che Severa non abbia fatto questo e si è ritrovata in questa situazione…. Come sempre, bellissimo articolo…
Direi che chiunque ti abbia detto quella frase sia proprio un uomo molto molto saggio! E consapevole di quel che è, forse, l’unica strada praticabile per puntare al pursuit-of-happiness…