Joseph S. Nye, Jr e i gufi del declino U.S.A.

Fine del secolo americano_il Mulino_chronicalibriDaniela Distefano
CATANIA 2626, autore del saggio Fine del secolo americano? (il Mulino), è un politologo statunitense, professore nella prestigiosa John F. Kennedy School of Governement di Harvard; ha ricevuto come riconoscimento per il suo servizio il “Distinguished Honor Award”. Come esperto di Politica ai massimi livelli non ci sta ad affondare il coltello dentro un corpo ancora vivo e pulsante come quello degli Stati Uniti. Forse non sono tempi d’oro per nessuno, però l’America è ancora – sotto molti aspetti – una terra della cuccagna e non ha rivali credibili quanto a influenza culturale e potenza militare.

“Nye – afferma Angelo Panebianco nell’Introduzione del volume – mostra che né sotto il profilo della potenza economica né sotto quello della forza militare, né, infine, sotto quello del soft power, si può negare, dati alla mano, che gli Stati Uniti siano ancora il paese che mantiene un indiscutibile primato. Nessuno dei due confronti che si fanno abitualmente, con la Roma imperiale o con la Gran Bretagna, colgono nel segno.
Roma si disgregò a causa delle sue divisioni interne.
La Gran Bretagna, anche nel momento di sua massima potenza, non ebbe mai una posizione di preminenza (economica, militare e di soft power) paragonabile a quella degli Stati Uniti dopo il 1945”.
Il secolo americano ha come data di nascita il 1941; la data di morte è incerta. Ma chi sono – secondo Nye – gli avversari di questa Nazione tuttora imprescindibile?
Forse la minaccia ha gli occhi a mandorla?

Se il Giappone dovesse allearsi con la Cina la combinazione di risorse dei due paesi creerebbe un potente attore sulla scena internazionale, ma a causa delle dispute territoriali nel Mar cinese orientale e del trauma mai del tutto rimosso della guerra sino-giapponese (1937-1945) un’alleanza fra i due paesi è quasi impossibile.

Certo, entro i prossimi vent’anni quella cinese sarà probabilmente la più grande economia del mondo, però non ancora la più avanzata: la Cina rimane debole nell’innovazione scientifica e tecnologica. I cinesi spesso si lamentano di produrre iPhones jobs, ma non degli Steve Jobs. Quindi Gli Stati Uniti diffondono il loro soft power in modo quasi monopolistico. Ma cosa si intende esattamente per “soft power”?
Il soft power di uno Stato si basa su tre risorse: la sua cultura, i suoi principi e le sue politiche estere.
Gli U.S.A. “si ricreano continuamente” attraendo i più brillanti cervelli e fondendoli in una diversa cultura della creatività.
Nel 2014 i brevetti americani registrati sono stati 133.000 pari al 48% di quelli mondiali.
Un vantaggio che però – si badi bene – è innestato in una Regione del pianeta dove, soprattutto nel campo economico, il governo svolge un ruolo meno interventista, più defilato.

C’ è scarso investimento in beni pubblici, come le infrastrutture.
Le dinamiche competitive del mercato sono più forti, mentre le reti di sicurezza sociale sono più deboli. Siamo nel cuore del civiltà imprenditoriale. I mali di questa terra sono: l’enorme debito, la scadente istruzione secondaria, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito etc.
I suoi punti forti, invece, la favorevole tendenza demografica, un elevato livello tecnologico, risorse energetiche, aperta cultura imprenditoriale…
Giudicate con Nye se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto.
La verità quasi sempre sta nel mezzo; e questa non è ancora la fine dell’ormai maturo Nuovo Mondo.

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