Silvia Notarangelo
ROMA – Lo confesso. Quando ho iniziato a leggere “Diecipercento e la Gran Signora dei tonti” (Autodafé) ero piuttosto scettica. Forse, senza volerlo, quel titolo apparentemente incomprensibile mi stava influenzando. Sono bastate poche pagine, però, per ricredermi. La storia e la scrittura di Antonella Di Martino sono riuscite a conquistarmi. Il viaggio del defunto Diecipercento nel suo passato, tra le pieghe di una vita non proprio cristallina, si rivela coinvolgente e non privo di risvolti imprevisti. ChronicaLibri ha intervistato l’autrice.
Lavora da anni nell’editoria come autrice di racconti e fiabe per bambini. Come è nato il desiderio di cimentarsi con un romanzo per adulti?
Il desiderio è nato perché mi piace, mi è sempre piaciuto sperimentare strade nuove. Inoltre, scrivere per i bambini comporta delle responsabilità, aggravate dai pregiudizi diffusi che trasformano i bambini in angioletti di cristallo, da salvaguardare con estrema attenzione. Questo problema non esiste con la narrativa destinata agli adulti: posso traumatizzarli quanto mi pare (sorride ndr).
Il protagonista Diecipercento realizza, forse, un sogno di tanti: osservare e trovare un perché a quei tanti, troppi interrogativi che durante la vita si sono lasciati in sospeso. “Dopo la morte aveva scoperto che esistevano altri modi di vivere, probabilmente più piacevoli”. I rimpianti possono davvero essere un peso insopportabile?
Scoprire di aver sprecato l’intera vita sarebbe davvero insopportabile, se fosse possibile. Per fortuna, è molto difficile raggiungere questa certezza nella vita reale. So che molte persone sono comunque tormentate dai rimpianti, ma non credo che sia davvero possibile sapere come sarebbe stato se… Il caso di Diecipercento è particolare: la sua fede nel decalogo era davvero irremovibile. Non credeva di avere scelta, perché il suo mondo era molto semplice e, al tempo stesso, molto crudele.
I valori di Diecipercento prendono, infatti, la forma di un “decalogo” in cui soldi, menzogne, divertimento rappresentano un vero e proprio modus vivendi. Non si può dire che manchino richiami all’attualità e alla condotta di una certa classe politica…
No, purtroppo non si può dire. Dirò di peggio: questi “valori” comprendono l’intera classe politica e oltre, sono apprezzati e messi in pratica ovunque. Il nostro paese ne è impregnato fino al midollo. Non voglio dire che “siamo tutti uguali”, anzi detesto queste generalizzazioni; ma anche chi non condivide per niente il decalogo di Diecipercento deve confrontarsi con questa deriva antropologica.
Margherita, la nipote del protagonista, sembra fatta di un’altra stoffa. Il suo senso di giustizia la spinge a ritornare sui luoghi di un passato doloroso, pur di scoprire la verità sulla morte dello zio. Ho l’impressione, però, che la donna compia questo viaggio anche per se stessa, per mettere un punto e andare avanti con la sua vita. È d’accordo?
Sì! Anche Margherita, soprannominata la Gran Signora dei tonti, è in viaggio per comprendere il suo passato, tracciare la sua linea di morte e andare avanti, libera dai fantasmi. Anche i fantasmi, come i valori di Diecipercento, sono molto diffusi. Ci avvelenano la vita: ognuno di noi dovrebbe guardarli in faccia, salutarli con affetto e consentire loro di morire davvero.
Attualmente sta lavorando a qualche progetto particolare di cui vuole parlarci?
Sto revisionando un nuovo romanzo, dedicato agli adulti. Ci saranno risvolti sociali, psicologici, sentimentali. Ci sarà anche un personaggio che aveva conosciuto Diecipercento. E presto sarà pubblicato un mio racconto, di un genere che non avevo mai provato, in una collana di ebook; ma non posso dire di più (sorride ndr).
Un’ultima curiosità. Nella sua biografia scrive che la Valle d’Aosta, dove è nata, è “un’isola felice ma non per me”. Può spiegarci perché?
Me ne sono andata dalla Valle d’Aosta perché detestavo viverci. L’ambiente è troppo freddo, troppo piccolo, troppo soffocante, in tutti i sensi. Allora, quando ci vivevo io, circolavano soldi e privilegi in abbondanza, ma questi vantaggi si pagavano a caro prezzo.
Per rendere l’idea sul tipo di mentalità che odiavo, vi racconto un episodio successo più di venti anni fa. La figlia di una mia amica, che allora aveva sei anni, era stata violentata. Era successo ad Aosta, mentre la bambina giocava sotto casa sua. Il violentatore si era presentato a volto scoperto, fingendo di dover consegnare un pacco. La famiglia aveva denunciato il crimine, insieme ad altre che avevano vissuto la stessa tragedia. Aosta non è mai stata una metropoli: oggi conta circa 35.000 abitanti, quindi non sembrava un caso troppo difficile da risolvere. Ma il colpevole non è mai stato arrestato. Allora circolava la voce, molto insistente, che le autorità conoscessero e proteggessero il responsabile. Non ho mai saputo se questa voce fosse fondata, ma so che molti ci credevano e lo consideravano un fatto normale. Niente di cui scandalizzarsi.
Ormai sono passati quasi vent’anni dal trasloco: il risentimento nei confronti della “Petite Patrie” è quasi svanito, ma resto molto soddisfatta della mia scelta.