Giulio Gasperini
AOSTA – A volte, tutto il mondo può stare in uno spazio ridotto all’impossibile. In Elevator, edito da Prospero Editore, Lucia Grassiccia gioca divertita con il lettore, di volta in volta calandolo e sollevandolo da storie che, come in un gioco a incastri inconsapevole, popolano – affollandoli – pochi metri quadri di scenario comune. Assecondando il movimento di un ascensore, che sale e scende tra vari piani, accompagnando il ritmo quotidiano di tutti gli inquilini, la Grassiccia costruisce, lentamente, dettaglio dopo dettaglio, sequenza su sequenza, una storia che si attorciglia ma mai si perde, che si piega su sé stessa ma lascia sempre aperta la prospettiva profonda di un finale non scontato né banalizzante.
Ogni uomo e ogni donna sono confinati nelle loro solitudini tangenti, nei loro micromondi che, dipanandosi intorno a sé stessi, alla fine per qualche maldestro colpo di destino (o di caso) si sfiorano e si intrecciano, per poi sciogliersi di nuovo. Dentro queste solitudini, asfissianti nella loro quotidiana dittatura, le personalità sono definite e persino granitiche, in alcune sfumature. Tutto ruota, inizialmente, intorno a un rifiuto umano, a una presenza ingombrante ma ignorata, che lentamente comincia a destare interesse, curiosità, inizia a diventare il filo di un pensiero, per poi esplodere nella vera vita di tutto il condominio, nella vera esistenza che pare abbia qualcosa da dire, qualche ricchezza da proporre, qualche valore da manifestare.
I personaggi non hanno nome, non perché non se lo meritino, ma perché sarebbe inutile definirli in un’identità che vuole comprendere tutti, anche al di fuori delle pagine stampate; perché, in realtà, quel condominio si amplia, lentamente si ingrandisce e diventa quello di ogni lettore; ognuno, a ogni pianerottolo, avrebbe la possibilità di scoprire storie, di ascoltare narrazioni diverse, di penetrare pensieri e condizioni che troppo spesso rimangono nascosti, impediti dietro una porta chiusa e una serratura blindata. Il personaggio che, invece, in “Elevator”, è uscito dalla sua prigione urbana è quello che, alla fine, ne pagherà le conseguenze; ma nobilitanti, proprio perché inevitabilmente coraggiose.
Grassiccia usa le parole come trivelle; le usa per scardinare una realtà troppo patinata e idilliaca, ma toccando nervi e facendo saltare dal fastidio che certi tocchi provocano perché stridono con la rappresentazione più pacata (e preferita) della realtà. L’illusione non trova spazio, nel racconto di Grassiccia, e sono proprio le parole che, col loro significato, perforano la bolla d’indifferenza e la fanno svanire con pochissime asperità. Il condominio di Elevator è una metafora potente, ma anche una narrazione angosciante: perché l’assenza di pietà riguarda tutti, ed è oramai rovinata già nell’indolenza.
Elevator, l’indolenza del quotidiano.
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