Silvia Notarangelo
Roma – Economia sostenibile, attenzione alle risorse e ad una loro più equa distribuzione, sicurezza alimentare, sono questi alcuni dei temi affrontati da “State of the world 2011”. Il volume, curato da Gianfranco Bologna per Edizioni Ambiente, propone un ventaglio di possibili soluzioni per “cambiare il modo in cui coltiviamo ciò che mangiamo”, cercando di risolvere uno dei problemi più esecrabili, la fame nel mondo. E lo fa dedicando particolare attenzione al continente africano, in possesso, purtroppo, di tristi primati in materia. La premessa è chiara, il sistema attuale non funziona, o meglio, non è più in grado di rispondere alle esigenze di una popolazione mondiale in crescita costante. I numeri non mentono: un miliardo di affamati, quasi tredici milioni di bambini malnutriti nella sola Africa Subsahariana dove una percentuale del raccolto, che oscilla tra il 25 e il 50 per cento, non riesce neppure a raggiungere le tavole.
E allora, cosa fare per garantire ciò che la comunità internazionale ha riconosciuto come un diritto al cibo? Innanzitutto, prevenire gli sprechi ed evitare il rapido deperimento dei raccolti. Può sembrare una banalità, ma si tratta del metodo più efficace ed economico: se recuperato, quel cibo consentirebbe non solo di sfamare i 2/3 della popolazione mondiale ma anche di scongiurare pericolosi impatti ambientali e sociali. Per sconfiggere la fame, però, questo non basta. Occorre investire nel settore agroalimentare, prendere le distanze da logiche di mercato contingenti, adottare strategie a lungo termine. Sarebbe, pertanto, opportuno favorire una diversificazione delle colture e una più attenta gestione delle acque piovane, assicurare un’adeguata formazione agli agricoltori di domani, abbandonare forme puramente assistenziali a vantaggio di aiuti che sappiano promuovere un’economia locale. E ancora, salvaguardare le tradizioni, tutelare la biodiversità, incoraggiare il consumo di prodotti del luogo nella convinzione di riuscire, così, a rafforzare la coesione all’interno delle comunità.
Da ultimo, ma non per questo meno importante, valorizzare il ruolo delle donne attraverso specifiche politiche di aiuto e di sostegno, garantendo loro pari opportunità nell’accesso, ad esempio, a forme di credito e programmi di divulgazione.
Piccoli successi, esperienze positive da prendere ad esempio non mancano, basta citare il caso dei forni solari, adottati in alcune località del Senegal, o del burro di Karité, una produzione tutta al femminile capace di imporsi sul mercato mondiale.
Forse si potrebbe partire da qui, da questi ancora sporadici tentativi, per affermare un nuovo modello di sviluppo, in cui l’agricoltura rivesta un ruolo determinante grazie alla sua capacità di “mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, ridurre le patologie legate all’alimentazione e i costi connessi, creando posti di lavoro in un’economia globale stagnante”.