Giulia Siena
PARMA – “Amo le storie / di chi non fa la Storia. / La pazienza di chi bussa / alla porta di una casa vuota. / La forza di chi sceglie la salita / e la dolcezza di chi si guarda indietro. / Non so raccontare / il mio sentire più profondo / ma lo porto con me / in quella valigia / che non disferò mai”. Flavio Pagano ha aperto quella valigia e ha lasciato che il suo sentire più profondo trovasse la strada della parola; una parola – quella di Pagano, scrittore e giornalista – che in Città senza mura si fa interprete delle emozioni più recondite e immediate. La parola emerge attraverso suoni delicati e accordati a ritmo del tempo trascorso e della melodia presente. In questa raccolta, pubblicata nella collana di poesia Rosso Sospeso da Fuorilinea Editore, confluiscono gli scritti poetici che hanno dato rifugio e lucidità, stasi e asilo all’autore napoletano. Sono versi sciolti e poesie strutturate in esametri, settenari ed endecasillabi, simbolo di una scrittura immediata o soppesata, causa e conseguenza di una sensibilità acutizzata dall’analisi, dall’ironia e dalla sofferenza.
Città senza mura è resa e richiesta; abbandono al cospetto della vita e preghiera di amore scevro da limiti o imposizioni. Le composizioni – divise secondo la tipologia e il periodo – sono state scritte lungo un arco di tempo molto esteso; solo l’ultima sezione, “Diario di un addio”, sono testimonianza della partecipazione al dolore e alla malattia e narrano la durezza del distacco. Quest’ultima sezione, infatti, chiude un’ideale trilogia insieme ai romanzi “Perdutamente” e “Infinito presente”, firmati da Pagano negli ultimi anni.
La poesia di Città senza mura, oltre alle emozioni, esplora i luoghi che, attraverso le parole, acquistano mani per accarezzare, occhi per accompagnare e braccia per sorreggere. “La poesia è una valorosa guerriera” e, allo stesso tempo, una accogliente dimora dove riposare e ristorare i pensieri. Cos’altro può essere la poesia? Lo abbiamo chiesto a Flavio Pagano (nella foto in basso).
“Città senza mura” raccoglie versi composti in differenti periodi della tua vita. La poesia è una compagna costante o mezzo espressivo circoscritto ad eventi importanti?
La poesia è Tutto.
“Non sono certo un poeta / da scrivere nel mezzo del cammino / ma il mio giro di boa pure l’ho compiuto”. In “Post scriptum”, tra le prime pagine del libro, confessi questa “necessità – dovere” di scrivere poesia. È stato un dovere, un’esigenza o un esercizio?
Scrivere in versi è una delle più grandi, entusiasmanti, profonde e dolorose gioie che la vita possa regalare. E leggere poesia è la stessa cosa: ogni lettore, ogni volta, riscrive la poesia che legge.
Sono poesie bellissime e strazianti, ironiche, immediate o soppesate; poesie, queste, che raccontano l’impalpabilità del sentimento, la forza dei luoghi, la complessità dei legami. “Città senza mura” prende il titolo dalla poesia “Felicità”, lirica simbolo di una raccolta che celebra il sentire e l’essere. Perché la felicità è una città senza mura?
Lo dico nell’ultimo verso: “difesa da una strada senza fine”. Perché la felicità è irraggiungibile (e quale difesa è più efficace….) ma esiste. È un miracolo, come la poesia, che non è musica, ma parola, e non è parola, ma musica.
In questi scritti emerge un legame particolare e profondo con i luoghi: gli Alburni, il loggiato della casa da cui si intravede il mare, i tratturi, i giardini odorosi di ulivi e limoni e le stanze chiuse da mattoni di carta, fatte di libri. Un legame, quello che racconti, che rimanda ai grandi poeti del passato (Leopardi, Pavese, Montale). Quanto influiscono i luoghi sulla percezione di un poeta?
Moltissimo, ed è un’influenza reciproca. Due dei poeti che hai citato, mi accompagnano da quarant’anni costantemente, con Ungaretti, che è stato l’ultimo in ordine di tempo, e Gozzano. Loro stessi, i loro versi, sono per me un luogo. Fuor di metafora le località che cito sono Petina, nel Cilento, Agerola e Furore, in Costiera amalfitana (dove ho scritto gran parte dei miei libri e dove, a Furore, ho l’onore di avere una mia frase incisa su una delle panchine maiolicate dei meravigliosi giardini pensili comunali) e poi la mia casa, la mia vera casa: la mia biblioteca, i miei libri, mattoni di quella la città senza mura che porto ovunque con me. O, se vuoi, che ha portato me ovunque.
L’ultima parte di “Città senza mura” (Diario di un addio) conclude una ideale trilogia – con “Perdutamente” e “Infinito presente” – dedicata a una malattia, l’Alzheimer, che cancella il passato, mette in subbuglio i ricordi, ma non azzera il sentimento e l’attaccamento alla vita. Come si può descrivere il dolore, la sofferenza e il distacco causato dalla morte? È stato un esercizio salvifico, questo?
Ho scritto l’ultima parte di “Città senza mura” in tre mesi, in ospedale, accanto a mia madre morente dopo 10 anni di Alzheimer. La poesia è stata l’unico spiraglio di speranza, l’unico rapporto con l’umano, l’unico rifugio in un momento di profondissimo dolore e solitudine. La solitudine è una condizione essenziale della vita, ma l’Umano è cosi grande da combattere anche le battaglie perse, forse soprattutto quelle: la poesia è una valorosa guerriera, che non si arrende davanti a nulla e crede nella vita e nell’amore anche quando tutto sembra perduto.