“Ogni mattina”
GIULIA SIENA – 5.30.
Ogni mattina.
Ogni mattina alla stessa ora, 5.30, l’ora di quando apro gli occhi e sono già umidi. Poi i rivoli caldi bagnano le gote, si aggiungono i singhiozzi e mia madre, che è corsa di sopra per mettermi fretta – devo essere veloce – fa un gesto stizzito, antico, dimenticato, nostalgico. Ora mi guarda come si guarda una bambina affranta, sull’orlo delle lacrime, anche lei.
5,55.
Ora, come ogni mattina, devo correre giù per la strada lasciandomi alle spalle l’odore tostato della moca, attraversare quella piazza che è stata a guardare i miei anni di assenza, ripararmi sotto la pensilina e aspettare. Pochi minuti. Salire, obliterare, chiudere gli occhi e non pensare. Scendere, aspettare, risalire e nascondersi dietro il brusio di quei pendolari assidui. Il mare a sinistra, la luce vera, forte e abbagliante di quando vieni al mondo in faccia, dall’altra parte.
Ogni mattina. Continua
Categoria: VOLEVAMO SOLO RIDERE CHRL
“Lettere azzurre”, il racconto di Antonella Bergamasco per la sezione a tema libero di Volevamo solo ridere
“Lettere azzurre”
ANTONELLA BERGAMASCO – Quel Lido le era sempre andato stretto. Da quando frequentava il primo anno del liceo Pietro Orseolo aveva perso i soliti amici. Suo padre l’aveva iscritta in un istituto dell’isola quando lei avrebbe voluto frequentare il liceo di Venezia. Tornando da scuola percorreva sempre a piedi lo stradone grigio di via Sandro Gallo. L’autunno era davvero una stagione incolore e inodore per lei. Alzando gli occhi al cielo provava un senso di oppressione. “Perché i suoi fratelli avevano potuto frequentare le scuole di Venezia e lei no? Forse perché era femmina e doveva rimanere vicina a casa?”
L’inverno era grigio e brumoso. Continua
Il buio che è dentro; Federica Magri per Volevamo solo ridere
“Il buco nero”
FEDERICA MAGRI – Nel silenzio notturno della mia stanza mi ritrovo seduta sul letto, qualche foglio bianco qua e là e una penna in mano. È una penna nera, come questa notte che non passa mai. Nera come questa notte che ascolta i miei pensieri e che sembra essere pronta ad accogliere le mie confessioni, le mie parole, le mie paure. Nera come il sangue arrabbiato che mi scorre nelle vene, a volte lento, altre veloce. E vorrei poter scrivere, qui, ora, adesso, tutto quello che quel maledetto sangue nasconde e porta con sé, tutto quello che porta in giro per il corpo e lo mescola ai globuli e piastrine.
Vorrei poter scrivere, velocemente, che tutto quello che c’è dentro di me è nero, è solo sangue nero, un misto di petrolio, chimica e poco altro. Continua
“Un lavoro nuovo di zecca”: Cristiano Bacchieri per Volevamo solo ridere, Racconti d’Estate
“Un lavoro nuovo di zecca”
CRISTIANO BACCHIERI – Ripensando alla mia fugace carriera di bambino, mi tornano alla mente pochi episodi salienti, ma molte sensazioni. Ricordo chiaramente che il desiderio più grande e ricorrente era uno solo: essere “grande”. Perché gli adulti si divertivano molto di più: potevano andare dove volevano, dire ciò che volevano e mangiare gli spinaci solo se volevano. Che conquista!
Il modo migliore per sublimare quell’ardente desiderio, io e i miei due cuginetti lo trovavamo giocando “ai mestieri”. Mia cugina, che ha la mia stessa età, solitamente gestiva un bar o un ufficio postale (o, spesso, entrambi). Mio cugino, di un anno più piccolo, era generalmente percepito come presenza non gradita. Infatti non ricordo nemmeno che mestiere facesse. Qualcosa di manuale, comunque. Continua
“Perché sei venuta a prendermi, mamma”; interrogativi, bullismo e disagio nel racconto di Elena Lattes
“Perché sei venuta a prendermi, mamma”
ELENA LATTES – “Ciao tesoro!”
Mongo aveva un’espressione cupa e, invece di correrle incontro con entusiasmo, come faceva quasi sempre, arrivò con lentezza e quasi controvoglia.
“Perché sei venuta a prendermi?”
“Amore, ti vengo sempre a prendere il lunedì, non te lo ricordi? Com’è andata la scuola oggi?”
Mongo non rispose e, dopo aver deglutito, ripeté la domanda: “Perché mi sei venuta a prendere, mamma?”
Anna si fermò, si abbassò e lo guardò intensamente: “Cosa vuoi dire?”
“Voglio dire… perché sei venuta in Africa e hai scelto proprio me?” Continua
“Sempre sì”, anche di fronte alla violenza. Il racconto di Daniela Distefano per Volevamo solo ridere
“Sempre sì”
DANIELA DI STEFANO – E’ guardando una vetrina che ti ho scoperto.
Non avevi che due occhi, un naso diritto, capelli stampigliati, un alone di tenerezza, poi ti sei presentato.
Dicevi di essere questo, di fare quell’altro, di occuparti di alcune cose, di partecipare ad altre, mi hai conquistata. Ero stata promossa in Amore. E San Valentino era dietro l’angolo.
Perfetta armonia tempistica.
Otto anni sono tanti o pochi, per me sono diminuiti, volevo crescere professionalmente, tu eri una compensazione placida.
Dolci alla frutta, torte montagnose, crostate elaborate… Sei un po’ ingrassato, ti sta bene la pancetta, ma io coltivo altre passioni. Mi piace correre, allenarmi in palestra, ho un corpo modellato, tonico, scalpitante. Sembriamo goffi insieme, mi dici.
Io sorrido, e ti bacio mentre ci scattiamo un selfie. E’ ora di viaggiare. E’ estate, è tempo di mettere a mollo le idee, di scaricare i nostri malesseri di coppia.
Tu dici di sì, tu dici sempre sì. Qualunque cosa io chieda mi stai appiccicato con la tua bocca gonfiabile, con i tuoi occhi oramai spenti.
Non ti specchi più nel mio riflesso, siamo diversi. Da qualche anno ancora di più.
Allora è deciso, cioè io ho deciso che si va al mare, a trovare Rosa e Paolo, alloggeremo in un Bed and breakfast, mi insegnerai a tuffarmi, non ne sono mai stata capace.
Mi dirai sì, sempre sì. Poi ti volterai, e camminerai a testa in giù perché è il tuo carattere, perché è il tuo ruolo, perché non ti riesce proprio essere come me che sono dinamica, fast, curiosa, ginnica, esuberante, diversa.
Arriviamo a sera inoltrata, Rosa e Paolo ci accolgono nella loro casa a due passi dalla spiaggia.
E’ una serata stellare, e tu mi stai incollato per non sprofondare nel menu a base di pesce fresco.
Domani andremo al largo col gommone, mi dimentico di appartenerti perché ti sento addosso come fossi tua madre. E infatti fai la parte del figlio ribelle, non mi aiuti mai quando ci sono da svolgere mansioni casalinghe.
Mentre torniamo al nostro alloggio, ti prendo la mano e camminiamo così per due, tre metri, sei stanco. Io accelero l’andatura, tu hai il fiatone.
Oltrepassiamo la nicchia di una Madonna col Bambino, ti guardo, mi chiedo se un giorno avrò figli, se dovrò averli con te, se lo vorrò.
Eri dolce la prima volta che ti ho visto, eri un altro la seconda volta.
E’ notte, e prego, non mi capita mai, non so perché. E perché oggi lo faccio. Tu sei già nel mondo onirico, sembri in letargo, ma domani ti sveglierai e ricomincerà la nostra azione teatrale, mentre la vita di tutti è viva, io mi sento fuori posto.
Io sono altrove, sono in giro per il globo, vedo gente di ogni razza, lingua, aspetto, sono come un temporale che arriva e scaccia l’arsura estiva, mi butto l’occhio su uno specchio che spaccia felicità, sono sana, sono entusiasta.
E noi due insieme sembriamo una metà.
Cosa devo fare, cosa pensare, come agire. Non si può andare avanti così, però oggi c’è il gommone, ci sono Rosa e Paolo che sono felici di vederci come una coppia solida.
E’ mattina, è ora di preparare panini per il pranzo a sacco, tu sei di buonumore, sto eseguendo io tutto il lavoro di routine logistica.
Vabbé, ti aiuto, dici. Era ora, faccio io. Prendi i panini, li dividi a metà, prendi prosciutto, formaggio, e li disponi a casaccio. Poi fai cadere le briciole sul tavolo, sul pavimento.
Ti guardo di spalle, hai un rivolo di sudore che ti attraversa la schiena, mi disgusta questa immagine mattutina. Ti rimbecco, guarda cos’hai fatto, tutte queste briciole ora chi li raccoglie.
Sei sempre il solito, ti comporti come un bambino menefreghista. Mi ascolti, mi senti adesso, adesso, adesso.
Tu mi fai sempre pena quando ti sgrido, non oggi, non in questo momento, non so perché hai preso quel coltello se non ti serve più per tagliare i panini.
Non ho mai saputo prima d’ora quant’è facile morire, quant’è mostruoso se avviene per delle briciole di pane.
© Racconto di Daniela Distefano per “VOLEVAMO SOLO RIDERE”, iniziativa di ChronicaLibri.
Tutti i diritti riservati.
© Foto web
Volevamo solo ridere: “Diario di un bullo”, Giorgia Sbuelz dà voce a un disagio
“Diario di un bullo”
GIORGIA SBUELZ – Mattia: “Ciao sfigato, domani porta i soldi che ti ho chiesto o ti spezzo le ossa”.
Edoardo: “Non so dove prendere altri soldi. Ti ho dato tutti quelli che avevo messo da parte, non lavoro mica!”
Mattia: “Ma i tuoi genitori sì. Prendili da loro e portameli, capito?”
Edoardo: “Faranno delle domande… e allora gli racconterò tutto e andranno dal preside”.
Mattia: “Tu racconta e io metto online il video che ti abbiamo fatto nello spogliatoio di educazione fisica, quando ti abbiamo lasciato in mutande e ti abbiamo messo sotto la doccia gelata. Ti ricordi quanto hai pianto? Puoi prendere i soldi senza chiederli. Ma ti devo spiegare tutto io? Sei proprio uno sfigato!” Continua
“I sogni di Clara” e le speranze vane nel racconto di Giovanni Mistrulli per Volevamo solo ridere
“I sogni di Clara”
GIOVANNI MISTRULLI – Attendono che Clara esca da scuola, la sorprendono sempre in quella stradina stretta. La deridono, la spintonano, e prima di andarsene dicono quelle parole, che fanno più male degli spintoni e degli schiaffi. Tornatene al tuo paese, sporca negra.
Ma loro non sanno che Clara un paese non ce l’ha più, o forse non ce l’ha mai avuto. Lei e sua madre sono arrivate su uno di quei barconi che si vedono in televisione, uno di quelli carichi di quelle facce stravolte e di quegli occhi terrorizzati. Continua
“Un insolito ritorno”, il racconto a tema libero di Alessandra Guenci per Volevamo solo ridere
“Un insolito ritorno”
ALESSANDRA GUENCI – Non ci sono dubbi che il paesino non sia niente di che. È semplice, curato, ma a questo tipo di bellezza, a questa natura pressoché inviolata, non siamo più abituati.
Lo abbiamo girato in lungo e largo, osservandolo prima dal punto panoramico in cima al castello, con le cime innevate dell’Appennino sullo sfondo. Poi camminando lungo il corso del paese, dove fra una macelleria, una tabaccheria e un bar, si snoda il centro. Cambiato il punto di vista, non abbiamo colto sensazionali novità. Anzi il centro è quasi commovente, nella sua povera e autentica semplicità.
Il “rudere” come lo chiamano a casa, è in fondo a una piccola strada in discesa che parte dal corso. Continua
“Il mio ragazzo”, il racconto di Ermanno Tamburrano per Volevamo solo ridere
“Il mio ragazzo”
ERMANNO TAMBURRANO – I tempi a cavallo tra la scuola elementare e le medie mi sono rimasti impressi, cuciti addosso, stampati nella memoria. I motivi credo siano riconducibili ai ricordi che mi appaiono, nitidi, oggi più di ieri, come le figure che mi rilassavo a disegnare quando il maestro ci lasciava la libertà di immaginare. Ed io mi divertivo tanto. Alcuni miei compagni si annoiavano, pensando a chissà cosa, li vedevo strani, distanti. Ricordo il sole, e mentre cambiavo i colori fra le mani guardavo spesso fuori. Cercavo sempre di avere un banco che desse sul cortile, una finestra che mi permettesse di sognare, perché dopo un po’, lo devo ammettere, ascoltare la lezione mi stancava. Continua