10 Libri per un pomeriggio noioso

ROMA – Un pomeriggio di gennaio come tanti altri. Un pomeriggio noioso in cui si vorrebbe essere altrove o, semplicemente, fare qualcosa di diverso o proiettarsi in qualcosa di diverso, come un libro. Ecco “10 Libri per un pomeriggio noioso”, scegliete la vostra storia e tuffatevi.

 

1. “Io speriamo che me la chiavo. I fans scrivono alle pornostar”, AAVV, 80144 Edizioni;
2. “La vera storia dei Simpson”, John Ortved, ISBN Edizioni;
3. “Il trionfo dell’uovo”, Sherwood Anderson, Piano B Edizioni;
4. “Vienna è un giro in carrozza”, Michele Monina, Laurana;
5. “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, Irene Vella, Laurana;
6. “Oziando si impara”, Tom Hodgkinson, Rizzoli
7. “Trascrivere la vita”, Edouard Manet, Via del Vento Edizioni
8. “Breviario per nomadi”, Vanni Beltrami, Voland
9. “La ninfa incostante”, Guillermo Cabrera Infante, Sur
10. “Il ritratto di Venere”, Riccardo De Paolo, Cavallo di Ferro

Ernesto Ferrero: Perec, l’umano e la letteratura

Giulia Siena
ROMA
 – Una delle presentazione de “Il Condottiero” di Georges Perec avviene a Roma durante Più Libri Più Liberi. Per conoscere meglio lo scrittore francese, noto per il suo amore quasi morboso per elenchi, liste ed enumerazioni, membro dell’OuLiPo e padre incontrastato del Novecento Letterario Francese intervistiamo Ernesto Ferrero, traduttore de “Il Condottiero” (Voland).

 

Ernesto Ferrero traduce in Italia per Voland “Il Condottiero”, uno dei primi lavori Georges Perec. Come ha affrontato questa avventura?

Ho affrontato questo lavoro con molta simpatia perché tradurre mi piace tantissimo e non succedeva da diverso tempo quindi, quando Daniela di Sora di Voland mi ha proposto questo, lavoro ho accettato. L’ho fatto perché faccio il tifo per i piccoli editori, per la loro capacità, la loro passione e il loro ammirevole coraggio. Allora mi sono avvicinato a questo testo con molta curiosità, affascinato anche dal tema dell’umano, il tema del falso e dell’arte. Poi, portandomi dietro il ricordo dell’affetto che Italo Calvino aveva per Perec, è stato ancora più piacevole affrontare “Il Condottiero”.

 

Infatti, Perec e Calvino, un legame letterario e umano che Lei descrive molto bene nella postfazione de “Il Condottiero”.

Calvino era un uomo schivo, quasi burbero, ma per Perec aveva l’affetto di un fratello maggiore e gli piaceva il rigore costruttivo, la capacità di Perec di arrivare alla narrazione attraverso la macchina costruita molto minuziosamente. Una stima verso lo scrittore francese che portò Calvino a produrre scritti molto belli per la morte di Perec trenta anni fa, riuscendo a dire con una chiarezza e una lucidità grandiosa quello che andava detto. Perec voleva scrivere molte cose – come poi effettivamente fece – cambiando registro, genere e argomento poiché aveva la grande facilità di giocare con elementi combinatori con i quali riempiva il suo vuoto affettivo.

 

“Il Condottiero” è l’esempio della grande capacità di Perec di descrivere con minuzia di particolari le figure, i sentimenti e le azioni  dei suoi personaggi. Ma la trama di questo libro potrebbe anche riflettere il dissidio affettivo dello scrittore? 

Questa è la storia di un uomo, di un falsario che per dodici anni si limita a replicare in maniera perfetta opere altrui, ma arriva poi il momento in cui entra in crisi perché vuole esprimere se stesso e decide di farlo. Ma questa sua iniziativa scatena, però, una crisi esistenziale che lo porta a un delitto che vive come una liberazione. Ed è questo rapporto committente-falsario che Perec vive come un rapporto morboso e delicato tra padri e figli, un rapporto che lo scrittore francese ricerca e dal quale vuole inconsciamente liberarsi.

 

Secondo Perec la letteratura è un mosaico e tutti gli scrittori contribuiscono a creare questo mosaico con le proprie opere. Oggi cos’è la letteratura secondo Ernesto Ferrero?

Per me continua ad essere la migliore attività conoscitiva che possiamo donare a noi stessi. Quest’arte ha la licenza di una rilettura verosimile che forse riesce ad arrivare più vicino a quella verità più umana e più poetica che l’uomo cerca. E oggi dobbiamo continuare a sfruttare questa possibilità e continuare a porci aperti alla ricerca attraverso i libri; la letteratura, di risposta, deve esplorare e cercare. Vedo, però, che l’andamento generale è diverso; pare stia vincendo l’intrattenimento a discapito del nostro tempo che sì, ve n’è sempre di meno, ma viene speso con leggerezza.

 

Siamo a Più Libri Più Liberi e mi sorge spontanea un’ultima domanda: la piccola e media editoria diventerà mai grande?

Se avessimo governi degni di questo nome sarebbe normale studiare dei provvedimenti per far sì che la piccola e media editoria (si può anche parlare di librerie indipendenti) crescesse senza snaturarsi, ma la realtà è un’altra. C’è chi dice che per sopravvivere deve crescere, però crescendo potrebbe essere costretta a cambiare, ad acquisire elle inclinazioni commerciali che minerebbero il progetto editoriale iniziale. Perché la piccola e media editoria che a noi piace, e secondo il mio parere ben fatta, è quella che fa ricerca e laboratorio. Allora spero che sì, diventi grande in questo senso, ma rimanga piccola nelle scelte editoriali, quelle che non fanno libri solamente per scopi commerciali.

 

“Il tempo di Mahler”, una ricerca troppo difficile da accettare

Luigi Scarcelli
ROMA
“[…] Senza passato, senza futuro e senza presente, il tempo…dov’è?”
Il Tempo e l’irreversibilità del suo scorrere: un argomento antico quanto l’uomo è quello affrontato da Daniel Kehlmann, filosofo e scrittore, nel romanzo “Il tempo di Mahler” una delle ultime uscite Voland.

 

Chi sa davvero cosa sia il tempo? Immagine mobile dell’eternità, eterno ritorno o percorso escatologico? Il protagonista del libro, David Mahler, dedica tutta la sua vita e le sue energie alla ricerca della risposta. È un fisico, e come tale indaga la natura nei suoi meccanismi più profondi, pur sapendo che una volta scoperta la Verità questa potrebbe essere troppo pesante da accettare. È un genio, un ex bambino prodigio che decide di passare inosservato perché oscuri presagi lo mettono in guardia circa il suo cammino verso la scoperta. È un uomo, e per questo viene schiacciato dalla sua stessa conoscenza, non si arrende al suo destino pur non sottraendosi ad esso.

 

Kehlmann filtra il mondo di ogni giorno dando nuovi occhi al suo personaggio. Gli eventi non sembrano più gli stessi visti da una nuova prospettiva e l’autore dà una sfumatura quasi onirica alla trama, gioca con il tempo attraverso lunghi flashback e descrizioni dettagliate di singoli istanti. Le leggi della natura sembrano vacillare, ma il protagonista non è pronto a ciò, e tantomeno lo sono le persone che gli sono attorno: Marcel, amico fedele sino all’ultimo istante, Katja la sua pseudo fidanzata, i colleghi e la gente comune; tutti lo vedono come un pazzo.

Un po’ Zarathustra, un po’ Santiago e un po’ Gregor Samsa, David Mahler si prende la responsabilità della sua nuova consapevolezza fino alla fine del romanzo.

 

“Il tempo di Mahler” è un libro denso di significati e dalla trama suggestiva, caratteristiche indispensabili per appassionare il lettore.

“La mano destra del diavolo”, smooth criminal

Marianna Abbate
ROMA – Un sicario si prepara alla prossima missione. Ascolta i fatti, segue i suggerimenti e prepara le armi. Ogni tanto legge poesie e racconti radical chic e sorseggia un bicchiere di latte per placare la gastrite.

Nelle prime due pagine ho faticato a districare le fila dei nomi stranieri che sfilavano davanti ai miei occhi, ma già a pagina cinque avevo capito molte cose…

Presa da un fremito ansioso, ho frugato il libro alla ricerca della data della prima pubblicazione, che non ho trovato (è questa l’unica nota dolente della pubblicazione Voland, che per gli altri versi è veramente pregevole, anche da un punto di vista grafico). Da vero lettore degli anni ’10, mi sono armata di Google e ho scoperto che si trattava di un libro del 1967. Tutto ciò per dirvi che la mia brillante associazione intuitiva agli spaghetti western era esatta.

Sulla quarta di copertina ho trovato un mistero legato all’autore Dennis McShade, alias Dinis Machado, ma questa volta Google non mi è stato di grande aiuto, nonostante mi sia presa la briga di leggere la voce di Wikipedia in portoghese.

Così non siamo rimati che io e lui. Io e il libro si intende, a fronteggiarci e a cercare di capire il più possibile dell’altro. Questo subdolo individuo ha cercato di sedurmi addirittura citando Dvorak, un colpo basso e veramente immeritevole.

Ma devo riconoscere che ne sono uscita ammaliata. Sentivo quasi il caldo afoso, l’aria della vendetta, il sale della sconfitta e la puzza della paura. Sarà che è giugno, si muore di caldo e forse sarebbe ora di farmi una doccia- ma credo che sia tutto merito dell’autore.

Anche senza Google avrei potuto datare questo libro con certezza, una volta le parole sapevano emozionare da sole. Non c’era bisogno dei miseri escamotàge da scrittura creativa, né di vocaboli  eccessivamente volgari.

Da leggere, magari quest’estate- e da passare a tuo marito.

 

I viaggiatori viaggianti che trovano a “Marrakech” il loro altrove

Giulio Gasperini
ROMA – Esther Freud
ha un cognome pesante, gravido di responsabilità: figlia del pittore Lucian Freud e pronipote del grande Sigmund, intraprese un percorso d’arte dissimile a quello dei membri del suo albero genealogico, ma non per questo meno ficcante e utile. Il suo romanzo “Marrakech” (che, nell’originale, si intitola “Hideous Kinky”, due termini ovvero intraducibili in italiano senza perdere completamente il loro sapido significato di ‘orrendo perverso’), edito dalla Voland nel 2011, in una collana – Amazzoni – riservata alle femminili “stelle guerriere”, traccia un percorso di crescita che concretamente si configura come un percorrere sentieri e impolverarsi i piedi.
Cosa c’è, infatti, di più utile e migliore che camminare davvero sulle strade del mondo? Che essere viaggiatori viaggianti alla ricerca di una nuova curva di orizzonte? Il romanzo della Freud è geometricamente perfetto: comincia all’approdo in Marocco di uno sconclusionato manipolo di personaggi e finisce sui movimenti della loro partenza. Come sempre accade, è un congedo che non è mai un addio, perché le scoperte e le ricchezze dell’esplorato nuovo mondo rimangono aggrappate alle anime dei viaggiatori: loro stessi ne fanno tesoro e impastano al proprio sé tutti i dettagli di quella che sarà un’evoluzione del proprio intimo.
La genialità del romanzo della Freud sta nel presentare la vicenda con un’attenzione spasmodica alla descrizione dell’evento, del gesto, dell’atto. Il romanzo è comparabile con un vero e proprio rosario di situazioni descritte nel loro svolgimento, senza concentrarsi troppo – o troppo manifestamente – sull’analisi chirurgica dell’interiorità. I pensieri, i tremori, gli entusiasmi, l’inevitabile crescita che ogni personaggio edifica sullo sfondo esotico della kasba quasi mistica o del suq affollato e straripante di oggetti e persone son tutti presentati al lettore in sottrazione, mai in aggiunta: una serie, ovvero, di fotogrammi in sequenza, allacciati tra di loro, che completano un affresco di inaudita potenza narrativa e descrittiva.
Brulica, il romanzo, di personaggi, di volti, di nomi e di facce. Di sorrisi e di lacrime. Di insetti e di carezze. Ma soprattutto di piedi, tutti impolverati e pesanti di viaggio. Camminano tutti, in questo romanzo, anche chi pare arrendersi e non voler più proseguire; anche chi pare perdersi o volontariamente latitare; anche chi pare fuggire e poi tornare. La mèta è sempre quella che ci poniamo noi, senza nessuna pretesa di esser la più giusta o l’unica corretta. Esther Freud pare proprio voler dirci questo: qualsiasi altro nostro altrove è giusto, se lo decidiamo noi (per noi). Basta soltanto che, nel futuro (prossimo o anteriore) non recriminiamo.

Voland: "Il denaro e le parole", l’editoria nell’era del business

Silvia Notarangelo
ROMA –
Il mondo dell’editoria è veramente in crisi? È ancora possibile salvaguardare la sua indipendenza dalle pressioni del potere politico ed economico? Sono questi gli interrogativi a cui André Schiffrin tenta di dare una risposta nel suo ultimo libro “Il denaro e le parole”, appena pubblicato da Voland. L’autore francese presenta un panorama editoriale in difficoltà: il numero dei lettori di quotidiani è letteralmente crollato negli ultimi anni, le piccole librerie faticano a sopravvivere dovendo, spesso, contrastare la concorrenza di supermercati sempre più forniti e con prezzi altamente competitivi.

Del vecchio mestiere di editore resta ben poco. A dettare legge sono il mercato e i profitti che possono derivarne. Per questo si sceglie di produrre meno libri, concentrandosi su quanti, potenzialmente, sono in grado di garantire cospicui introiti.
Tende ad allargarsi, così, la forbice tra i maggiori gruppi editoriali, forti dell’appoggio della grande distribuzione, e le case editrici indipendenti, la cui produzione, spesso di notevole valore intellettuale, non riesce ad assicurarsi un’adeguata promozione né a trovare il giusto spazio sul mercato.
Quali strategie potrebbero, allora, sostenere il settore dell’editoria?
Schiffrin suggerisce di puntare su aiuti economici regionali e locali, sulla creazione di “alleanze”, purtroppo ancora isolate, tra case editrici e istituzioni culturali, prime fra tutte le università. Ricorda, inoltre, la positiva esperienza di cooperative gestite direttamente dai lavoratori del mondo editoriale e guarda, con favore, alla possibilità di trasformare piccole case editrici in organizzazioni senza scopo di lucro, così da assicurare loro almeno alcune agevolazioni fiscali. Ampio spazio viene, inoltre, dedicato ad una riflessione sulla politica culturale della Norvegia, che ha saputo rendere il pluralismo dell’informazione un presupposto indispensabile della sua democrazia, diventando un modello a cui ispirarsi. I giornali, ad esempio, sono esenti da imposte, le testate minori sono destinatarie di appositi fondi, gli editori possono contare, ogni anno, sull’acquisto da parte del governo di un determinato numero di volumi distribuiti, poi, alle biblioteche comunali. Simili iniziative, secondo lo scrittore, possono contribuire ad alimentare la speranza di una ripresa dell’editoria, a patto che siano integrate da ponderate scelte personali perché “ognuno può scegliere di sostenere un giornale o una libreria” al fine di poter fruire di media indipendenti, “essenziali per qualunque autentico dibattito”.

, le case editrici indipendenti, trascurate da una grande distribuzione attenta solo a quei best seller capaci di incrementare il proprio volume d’affari, non se la passano certamente meglio. Una situazione complessa, ulteriormente aggravata dalla diffusione di Internet, dalla recente comparsa di libri elettronici, da agenzie pubblicitarie che sembrano, ormai, snobbare la carta stampata a vantaggio di altri media.

“I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni". ChrL intervista Luigi Farrauto

Giulio Gasperini
ROMA –
Non potevo certo esimermi dall’intervistare Luigi! Troppe le passioni comuni, dai viaggi ai suq dell’oriente; troppi gli stessi richiami ad attrarci, le stesse seduzioni a vincerci. Troppo appassionante è stata la lettura del suo romanzo per non avere mille e una domanda da rivolgergli; troppe curiosità che volevano, perentoriamente essere soddisfatte. Ne è venuto fuori un confronto amichevole e stimolante, come se due vecchi amici si fossero fermati, per un attimo, e si fossero ritrovati sotto un medesimo cielo, a distanza di tempo in quantificabile; e si volessero confidare a vicenda tutte le strade percorse. L’intervista è lunga, quasi una doppia confessione (e, come tale, non ho voluto tagliare neppure una virgola!); abbi la pazienza di arrivare sino in fondo. Perché non ne sarai per nulla deluso.

Io sono un adoratore di Oriana Fallaci. E lei scrisse un romanzo che, come il tuo, ha come palcoscenico privilegiato il Medio Oriente. In questo romanzo Oriana costruì la sua particolare teoria del caso e del destino. Nel tuo libro ugualmente queste due entità quasi mitiche hanno un ruolo fondamentale. È per caso la cultura mediorientale che, più di altre, pone irrimediabilmente di fronte a queste due grandi estensioni causali che riguardano l’uomo?
Caso e destino sono entità forse onnipresenti in ogni forma di cultura, tradizione, arte. Non so se in Medioriente queste due estensioni abbiano una valenza diversa, o tanto diversa dalla nostra. Non ho le competenze per dirlo con precisione.
Nel romanzo il mio rimando al destino è sempre a un “destino tangibile”, un destino modificabile come le impostazioni di una macchina fotografica. Dunque il destino di un’immagine diviene “il restare appeso a testa in giù, in attesa di un Giudizio Universale, e magari finire nel cestino in mille pezzi”, e il protagonista “è come un dio minore alle prese con esercizi di creazione”, come un padre che può decidere quale sarà il carattere di suo figlio…
Di sicuro fare esperienza del Medioriente espone al mito, al fascino della storia, perché sono ovunque, è impossibile per chi viaggia in quei paesi non notarlo. E come tutti i luoghi che sono anche ‘luoghi dell’anima’, il Medioriente porta a riflettere molto, forse anche su caso e destino, sul concetto di distanza e di sorte. Poi, credo sia il ‘destino’ di chi si innamora di quei luoghi, il doverli raccontare e condividere…
Nel descrivere lo scenario della narrazione ho cercato di evocare le atmosfere più magiche legate al termine “medioriente”. Quelle delle Mille e una Notte, un romanzo in cui il ‘destino’ è affidato al racconto: Sherazad vince la morte descrivendo mille vite, una dentro l’altra. Mille mondi. Quello è il mondo arabo a cui faccio riferimento: imperfetto e umano, atmosferico e sensazionale.
Riguardo alla Fallaci, non conosco la sua particolare teoria su caso e destino. Né ho letto i suoi romanzi ambientati in Medioriente. Oriana Fallaci ha raccontato per una vita, e con passione, quella terra che entrambi amiamo. Ma del mondo arabo abbiamo due visioni totalmente opposte. Quello che ho descritto io non è affatto lo stesso mondo, lei lo vedeva un po’ come una minaccia, per rimanere in tema ‘destino’… A mio avviso così facendo si alimenta il fuoco della paura, esotizzando il mondo arabo inutilmente. Io credo che il ‘destino’ dell’umanità sia creare ponti, e percorrerli in entrambe le direzioni. Onestamente non ho mai compreso questa sua paura di una “islamizzazione dell’Occidente”, mi piace vedere la contaminazione culturale come un valore, che può farci crescere tutti, creando significati nuovi e più ricchi. È un processo che dura da millenni…



Io non credo al destino. La trovo una presuntuosa maniera, dell’uomo, di scaricarsi di responsabilità: come se ci si volesse smarcare dal potere dell’iniziativa e dalla nostra capacità di saper contrastare le situazioni, sia avverse che alleate. Potresti esporci la tua personale visione del caso e del destino?
Sono d’accordo con te. Non ci credo nemmeno io, al destino; sono convinto che sia solo l’individuo l’artefice del proprio futuro. Però credo alle coincidenze. Di quelle il mondo è pieno. Di ‘casualità’. E se guardiamo la terra come una rete fittissima di connessioni, le coincidenze si spiegano facilmente. Niente metafisica o escatologia. Io sono una di quelle persone a cui si è inceppata la “sospensione del giudizio”. Non credo a niente che possa muoversi senza essere mosso. Non amo la fantascienza, nemmeno al cinema, non mi coinvolge.
‘Destino’ è una parola di cui si fa grande uso. Il romanzo ne è pieno. Nella mia mente, comunque, caso e destino differiscono solo per significante. “La fortuna è questione di geografia”.
Nella narrazione ‘caso’ e ‘destino’ hanno molta importanza. Sono le infinite combinazioni foto-chimiche di un’immagine, le infinite strade che si possono percorrere durante un viaggio. Sono le strade prese e quelle perse. È la consapevolezza che in un rullino ci siano concesse solo 36 foto.
Nella camera oscura, come nella finzione letteraria, non c’è limite, non c’è destino. C’è inventio e dispositio. Tecnica e sensiblità. Quello è il bello…


Questi tuoi personaggi, così distanti e manichei, a un certo punto si incontrano nella dimensione del viaggio, in quell’esperienza che Kapuscinski avrebbe definito del “varcare la frontiera”. Quanto ti sei divertito a immaginare i viaggi dei tuoi eroi? E ancora, quanto ti sei divertito (e ti diverti) tu in primis, a viaggiare?
Adoro Kapuscinski. Lui è uno che il mondo lo ha percorso per davvero, e con curiosità. Mi ha insegnato che il “Varcare la frontiera” non è solo un movimento del corpo. C’è un universo intero dentro quelle parole.
Il viaggio ‘vero’ mi dà dipendenza non perché mi diverte, ma perché mi arricchisce. Io visiterei qualunque paese del mondo, senza fermarmi mai, se solo potessi. Viaggiare soddisfa la mia curiosità, ma è una droga sottile ed efficace, difficile smettere.
I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni.
A piccole dosi. Progettare, descrivere e raccontare un viaggio immaginario, un viaggio di altri, è stato bizzarro. È un’attività emozionalmente complessa. Da un lato, la vertigine di libertà data dal poter raccontare, potenzialmente, di qualunque paese del mondo. Quindi in un certo senso ‘visitarli’. Anche quelli più sperduti, o in cui nessuno si sognerebbe mai di andare. Dall’altro lato, la frustrazione che evocare certi luoghi provoca, perché a furia raccontarli ci si affeziona, e ci si vuole andare davvero, e al più presto… Per cui si scende a compromessi, luoghi ed esperienze vissute e accessibili…
Scrivere di viaggi altrui è un po’ come lavorare per un’agenzia turistica: gratifica, apre l’immaginazione ma fa rosicare.


Come te, adoro i suq. Mi sono smarrito in quello di Gerusalemme, coi suoi quattro quartieri, sempre cogli occhi rivolti al cielo, ai colori, ai suoni e agli odori; mi son divertito in quello di Luxor, trattando per l’acquisto di due bellissime sciarpe di seta; ho mangiato il kebab più buono della mia vita in quello di Betlemme, in Palestina. Io cerco sempre di descrivere (e far capire) agli altri il fascino di questi luoghi, ma certe volte non son convinto di riuscirci. Tu come tenti, di solito, di stupire il prossimo nella scoperta di un luogo?L’unica soluzione è “mandarli a quel paese”. Nel vero senso della parola, intendo. Non c’è modo migliore, per comprendere le atmosfere del Medioriente, che andarci. Fare il passaporto e prendere un volo. A parole è difficile. Le foto un po’ aiutano, ma è l’esperienza diretta che colpisce. Il vento della Palestina, l’odore di Damasco, la vitalità del Cairo… le parole non bastano per raccontarli, non trovi? Occorre andarci di persona. Perdercisi dentro. Poi ne riparliamo. Per questo spero che il mio romanzo venga visto come un “invito al viaggio”, al valicare la frontiera…


Ps.: a Betlemme fanno anche l’hummus migliore di tutto il Medioriente!


Sai che la geografia sta letteralmente sparendo dai programmi scolastici? Come me provi un incontenibile moto di disgusto per queste infauste decisioni (io, tanto per dire, tengo appesa a una parete della mia stanza un enorme planisfero anticato della Terra)?
Sono contento che tu mi faccia questa domanda. La questione della geografia è preoccupante. Sono un appassionato di cartografia, sto facendo un dottorato sulle mappe e l’immagine della città, la mia è una sorta di perversione iconica per le mappe. Ne ho di ogni forma e colore, e sapere che faranno la fine dei vinili, dimenticati e schiacciati dalle tecnologie, mi rattristisce molto. Quando sfoglio un atlante provo le stesse sensazioni che si hanno guardando un animale in via di estinzione, destinato a diventare vintage e chissà pure un po’ chic.
A mio avviso il recente attacco alla geografia nelle scuole pubbliche è uno dei tanti simboli del degrado culturale che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni. Mi piace come hai definito la tua reazione, “incontenibile moto di disgusto”. Ecco, i termini sono quelli. La geografia dovrebbe essere una conoscenza propedeutica a qualunque studio, ma nel trivio e quadrivio dell’Italia non c’è spazio per queste conoscenze. Ma se ci pensi la tecnica funziona. Meglio non sapere che quasi condividiamo più cose col mondo arabo che con gli inglesi, meglio lasciare le città mediorientali nel retro delle nostre mappe mentali, nella parte più nascosta possibile, così continueranno a farci sempre più paura; meglio ignorare chi ci sta attorno, meglio lasciare la ragione al suo sonno, così i mostri saranno sempre più avvincenti…
Mi rendo conto che la geografia non sia proprio il problema principale del nostro paese, però è l’ennesima frustrazione.
Nonostante il mondo sia sempre più a portata di mano di chiunque, nonostante ora sia possibile in qualunque momento ottenere informazioni su tutti i meandri del mondo, la conoscenza della geografia è diventata obsoleta, retrò. Gli unici posti che appartengono alle nostre mappe mentali sono vaghi scenari di guerra e bombe, villaggi vacanze tutti uguali e città di cui si ha letto qualcosa. Per questo motivo ho voluto dare tanta carica simbolica alle mie descrizioni del Medioriente. Volevo aggiungere un pezzo alla mappa mentale dei miei lettori. Come ogni mappa offrendo una visione parziale e mediata, ma per una volta dalla curiosità piuttosto che dalla paura. Ho messo il mio. Almeno ci ho provato…
Tornando alla geografia, la società moderna ci ha illusi di conoscere il mondo solo perché abbiamo le tecnologie più moderne per attingere a dati e informazioni, in ogni momento. Ma la conoscenza del mondo è altro. Il mondo è fatto di connessioni, di contaminazioni, di storie, di significati, difficilmente inferibili con l’iPhone. Non c’è niente attorno alla mappa di Google Earth consultabile anche seduti sul water. Hic sunt leones. Tutta arabia, quella…


Luigi, adesso una domanda che noi di ChronicaLibri rivolgiamo spesso agli scrittori: quali sono le tue tre parole preferite?
Ma intendi per suono o significato?
Per il significato “contaminazione”, “chilometri” e “oriente”
Per il suono la mia preferita è “sicché”, anche se non la uso mai, e dovrei.

"Senza passare per Baghdad", quando è la strada a guidare il Caso.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse è vero che è tutto scritto nel destino; che tutti noi abbiamo, nei palmi delle nostre mani, la mappa della nostra vita. Ma è altrettanto vero (e forse più affascinante) pensare che le uniche mappe che ci potrebbero riguardare sono quelle dell’atlante, quelle del mappamondo che s’accende e brilla come lampada, quelle del planisfero appeso alla parete della nostra camera. Ed è altrettanto affascinante che per quelle strade del mondo sia il Caso a calarci, a guidarci divertendosi dei nostri imbarazzi, e delle nostre perplessità.
Luigi Farrauto di cartine se ne intende: ed è lodevole il suo tentativo di nobilitare la geografia come scienza della concreta vita, una specie di dimensione perfetta nella quale non possiamo non stare a nostro agio, addirittura sentirci più forti e vivi.
“Senza passare per Baghdad”, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice romana Voland, è il romanzo di un’affermazione e di una crescita, di due deviazioni che portano a una tangenza in un luogo dove nessuno avrebbe mai pensato.

Alex e Jari sono due amici, due opposti che proprio per questo si armonizzano alla perfezione, in un gioco a rincorrersi che si definisce anche dal continuo palleggiarsi i punti di vista: prima l’uno e dopo l’altro giocano a dare ognuno la propria versione dei fatti, confermando a noi (e a loro stessi) che chi si conosce realmente non ha bisogno di parole per comunicare. A loro, per esempio, son sufficienti le fotografie: entrambi, infatti, scattano foto da ogni angolo di mondo. Per esigenze diverse, è ovvio. Ma, a loro, le sillabe non appartengono, non servono più di tanto. Loro comunicano tramite le immagini; tramite i risultati dei loro scatti si descrivono le emozioni, si indagano a vicenda, si completano quei luoghi bui, inesplorati, che ognuno di noi ha, inevitabile, in un angolo del sé.
I chilometri li dividono, coinvolgendoli in esperienze diverse e fors’anche distanti. Però poi, complici incidenti e inevitabili sconfitte, il loro avvicinamento sarà determinante: l’autore non ci dice dove la strada condurrà queste due anime di ragazzi, ma ci fa intendere che Damasco è soltanto l’inizio. Che tutto il prima è stato soltanto un’anticipazione. E che non bisogna per forza passare per Baghdad per rendere il cammino più agevole.

Natale editoriale

ROMA – La casa editrice Voland aspetta tutti i suoi lettori per il “Brindisi d’inverno” giovedì 16 dicembre dalle ore 18.30 alle ore 22.00. Musica dal vivo, letture in anteprima e tante curiosità sul mondo editoriale rallegreranno un aperitivo natalizio tutto dedicato alle pubblicazioni Voland. A Roma, in via del Boschetto 129 (zona Monti) tutti gli appassionati, i lettori affezionati e i curiosi in cerca di acquisti di libri di qualità, potranno accedere ai volumi Voland a prezzi scontatissimi. Accorrete!

"Garbatella combat zone"

Giulia Siena
ROMA – E’ una città che brontola al suo interno, protettrice silente dei moti notturni dei suoi cittadini: Roma è diversa dalle foto turistiche che la ritraggono sempre in pose composte e piene di luce. In “Garbatella combat zone” Roma è lo scenario delle avventure di Valerio Natoli, personaggio protagonista della penna di Massimiliano Smeriglio. Pubblicato dalla Voland Edizioni, “Garbatella combat zone” è la storia di un trentenne che ha vissuto circa cinque anni nel Messico, tra volontariato e commercio di droga.
Ora, mentre suo nonno sta per morire, torna nella sua Garbatella e si nasconde sotto le vesti del precario per vivere di rapine preparate con accortezza e professionalità, comunque il suo sogno è quello di tornare in America. Ma qualcosa non va per il verso giusto: il carcere lo ferma, le forze dell’ordine vogliono incastrarlo e lui progetta di seppellire la sua identità. L’istinto di Valerio è sempre alla ricerca di sangue, di sfide, di combattimenti allo sfinimento e di fughe.
Massimiliano Smeriglio dimostra di conoscere il territorio nel quale ambienta il suo libro e da questo territorio, dai suoi legami, dalle sue insofferenze si lascia ispirare. Così porta il lettore in un romanzo d’azione fatto di violenza, solitudine e passioni.

Leggi l’intervista all’autore, Massimiliano Smeriglio