"Senza passare per Baghdad", quando è la strada a guidare il Caso.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse è vero che è tutto scritto nel destino; che tutti noi abbiamo, nei palmi delle nostre mani, la mappa della nostra vita. Ma è altrettanto vero (e forse più affascinante) pensare che le uniche mappe che ci potrebbero riguardare sono quelle dell’atlante, quelle del mappamondo che s’accende e brilla come lampada, quelle del planisfero appeso alla parete della nostra camera. Ed è altrettanto affascinante che per quelle strade del mondo sia il Caso a calarci, a guidarci divertendosi dei nostri imbarazzi, e delle nostre perplessità.
Luigi Farrauto di cartine se ne intende: ed è lodevole il suo tentativo di nobilitare la geografia come scienza della concreta vita, una specie di dimensione perfetta nella quale non possiamo non stare a nostro agio, addirittura sentirci più forti e vivi.
“Senza passare per Baghdad”, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice romana Voland, è il romanzo di un’affermazione e di una crescita, di due deviazioni che portano a una tangenza in un luogo dove nessuno avrebbe mai pensato.

Alex e Jari sono due amici, due opposti che proprio per questo si armonizzano alla perfezione, in un gioco a rincorrersi che si definisce anche dal continuo palleggiarsi i punti di vista: prima l’uno e dopo l’altro giocano a dare ognuno la propria versione dei fatti, confermando a noi (e a loro stessi) che chi si conosce realmente non ha bisogno di parole per comunicare. A loro, per esempio, son sufficienti le fotografie: entrambi, infatti, scattano foto da ogni angolo di mondo. Per esigenze diverse, è ovvio. Ma, a loro, le sillabe non appartengono, non servono più di tanto. Loro comunicano tramite le immagini; tramite i risultati dei loro scatti si descrivono le emozioni, si indagano a vicenda, si completano quei luoghi bui, inesplorati, che ognuno di noi ha, inevitabile, in un angolo del sé.
I chilometri li dividono, coinvolgendoli in esperienze diverse e fors’anche distanti. Però poi, complici incidenti e inevitabili sconfitte, il loro avvicinamento sarà determinante: l’autore non ci dice dove la strada condurrà queste due anime di ragazzi, ma ci fa intendere che Damasco è soltanto l’inizio. Che tutto il prima è stato soltanto un’anticipazione. E che non bisogna per forza passare per Baghdad per rendere il cammino più agevole.

“Brodo senza pollo”, da Giuntina un doloroso diario di vita

Alessia Sità
ROMA – Il dramma della Shoah, un rapporto madre-figlio tormentato e determinante, una continua ricerca di riscatto per un’esistenza ingiusta e dolorosa.
Partendo dalla propria esperienza personale, Frans Pointl in “Brodo senza pollo”, edito nel 2011 da Giuntina, nella collana Diaspora, ci offre una raccolta di racconti di vita sofferti, ma continuamente venati da una disperata ricerca di speranza e di riscatto. Fra ricordi, incontri, e fantasie necessarie per poter continuare a vivere, David Blumenthal ripercorre la propria esistenza, soffermandosi sulla tragedia dell’invasione tedesca dell’Olanda e le conseguenze che questa triste pagina di storia ebbe su ogni componente della propria famiglia.
Attraverso numerosi flashback, il protagonista ricostruisce la propria vita e la propria sofferenza, in cui resta centrale il dramma della madre, sopravvissuta ai campi di concentramento e mai più riavutasi da quella tragedia umana.
Un diario che viaggia nel tempo, in cui passato e presente si mescolano di continuo, delineando gradualmente un’amara vicenda individuale.
Lentamente, il lettore riesce ad inquadrare i singoli personaggi con tutti i loro trascorsi, le loro esasperazioni e i loro drastici cambiamenti.
Un senso di solitudine e di tristezza pervade ogni pagina. L’impossibilità di mettere la parola ‘fine’ ad un passato troppo doloroso è sempre presente.

Frans Pointl ci regala un racconto di vita sofferto, ma abbastanza lucido nel ricordo della ormai lontana tradizione ebraica e nella descrizione di una società indifferente ed egoista

"Il momento perfetto": basta un’estate per tutta una vita.

Giulio Gasperini
ROMA –
Che cosa sia “il momento perfetto” non ve lo dico, ovviamente. Però sappiate che tutto il romanzo è una ricerca, stagione dopo stagione, errore dopo errore, (quasi una battuta di caccia con appostamenti e trappole) di codesto momento. E la ricerca, come su un set cinematografico, si compone di fotogrammi, che si legano uno all’altro, in una striscia continua di primi piani e di fermo immagine. Gli inquadramenti, in effetti, in questo “Il momento perfetto” (romanzo primo di un, guarda caso, sceneggiatore: Lorenzo Minoli, pubblicato dalla bolognese Pendragon nel 2011), sono in sovrapposizione e in continuo spostamento, tra un flashback e una proiezione nel futuro.
Quella che si squaderna per tutto il libro è l’educazione sentimentale del protagonista, un giovane studente di giurisprudenza, che si trova a conoscersi e a lentamente smascherarsi durante soprattutto l’estate (a Punta Ala, nella Maremma grossetana), la stagione che più di tutte è stata scelta come miglior scenografia della maturazione e della presa di coscienza della nostra stessa libertà di scegliere, di un puramente umano libero arbitrio.

Il protagonista gioca, con la sua parvenza di timidezza, a costruirsi un futuro. Gioca a creare e disfare, a esagerarsi supremo giudice della piccola umanità che vede ruotare intorno a sé stesso e alla sua vita. Fino ad arrivare all’epilogo estremo, all’evento che in un’ottica di fatalismo da manuale conclude e suggella la sua crescita emotiva e umana, lasciandoci forse con un po’ di fiele per la non perfetta conclusione sentimentale, è tutto un accelerare di emozioni e di interpretate decisione, in uno scavo che soltanto apparentemente può parere superficiale, ma che perfora la superficie nei punti giusti, andando a toccare i nervi scoperti, quelli che, in ogni ferita, fanno più male.
Le educazioni sono sempre feroci, crudeli, persino un po’ sadiche. Ogni romanzo di formazione si sbilancia tra l’ansia della crescita e la crudeltà della consapevolezza. Le prove si susseguono, con i soliti padri autoritari, le madri soffocanti d’affetto, le fidanzate asfissianti, le crisi prodotte dalla fine delle illusioni: ogni volta la storia pare un copione perfetto, con ritardi più o meno bilanciati, ma pur sempre con tappe obbligate, che non possono esitare nel presentarsi. Lorenzo Minoli gioca a riscrivere la sua personale versione del perfetto copione del perfetto adolescente: che ogni volta ha un nome e un carattere diverso, un fisico e un colore di occhi nuovo, ma che, alla fine, indaga sempre per le stesse risposte. E ricerca sempre per il più perfetto dei momenti.

"La sposa e la vendetta" un viaggio nel fantasy

Marianna Abbate
ROMA – La sperimentazione della lettura di nuovi generi letterari è una mia ben nota passione. Orbene, il libro che sto per recensirvi è per me una novità assoluta in quanto potrei qualificarlo come romanzo fantasy-rosa-un po’porno ma ho letto anche che c’è chi l’ha definito erotico fantasy-storia alternativa. Tant’è che “La sposa e la vendetta” di Jaquelin Carey, pubblicato dalla casa editrice Nord,  è il secondo libro di una fortunata saga ambientata nelle terre d’Ange, una mitica Inghilterra celtica- che ricorda le nebbiose terre di Avalon. Gli esperti del genere perdonino la banalità dei miei paragoni, ma la mia unica fonte di metafore sono i poemi medievali in lingua d’oil studiati all’alba durante filologia romanza. 

Ma torniamo a noi: dopo una cinquantina di pagine di lettura abbastanza confusa nella quale non riuscivo a comprendere metà degli avvenimenti e stentavo a raccapezzarmi tra gli svariati Belrik, Dorelei e Imriel, mi sono resa conto che in realtà mi stavo divertendo un mondo!
La Carey ha una scrittura fluida e piacevole, da bestseller, e riesce a trasmettere immagini vivide e conturbanti. In poco tempo mi sono sentita trasportare in questo mondo fatato dove amore, odio, gelosia e potere si mescolano perfettamente, come succede nel mondo reale. Certo, le reazioni dei protagonisti sono un po’ esagerate, come gli avvenimenti che li vedono protagonisti sono un po’ fantasiosi, ma le emozioni sono vere.
L’unica pecca è che trattandosi di una saga la storia non giunge ad una conclusione soddisfacente- ma che ci possiamo fare: sono queste le regole del marketing. Credo tuttavia, di essere caduta in pieno nella sua trappola e aspetto con ansia la nuova parte di questa saga. 

Scoprire l’Argentina tra le pagine di "Buenos Aires troppo tardi"

Stefano Billi
Roma – “Buenos Aires troppo tardi” è un ottimo libro, scritto da Paolo Maccioni e pubblicato da Arkadia Editore, il quale racconta la storia e la cultura – soprattutto letteraria – dell’Argentina.
Protagonista della vicenda è un giornalista italiano, di nome Eugenio, che si reca proprio in sud America per compilare una guida turistica e, successivamente, si troverà a confrontarsi con il passato tragico del Paese ospitante.
Infatti, la memoria di questa nazione dell’America Latina ricorda ancora i terribili avvenimenti accaduti in quel territorio a partire dalla seconda metà del Novecento. Precisamente, la vita politica argentina si è caratterizzata, all’epoca, per il succedersi di golpe militari che poi hanno istituito dittature militari, le quali hanno fatto spregio dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Nel libro si richiamano, tra tutte le barbarie commesse da tali regimi, i numerosi sequestri e le innumerevoli torture che ha subito quella popolazione civile che era ritenuta sospetta – da parte delle autorità militari – di cospirazione.
Giornalisti, liberi pensatori, gente comune: nessuno poteva dirsi al sicuro in quegli anni, in Argentina.
Questo il Maccioni lo descrive egregiamente nel suo libro, che è costruito come un viaggio reale in cui il turista italiano si trova a sbattere contro una storia difficile da digerire e che va necessariamente raccontata, affinché questi tristissimi ricordi non rimangano ad appannaggio dei soli superstiti, ma possano essere anche conosciuti da chi non era là nel periodo più buio dell’Argentina.
L’opera, anzitutto, si contraddistingue per il suo porsi a cavallo tra la forma stilistica narrativa romanzo e quella del documentario: sullo sfondo,oltre all’originalità delle vicende di Eugenio, si collocano fatti accaduti realmente.
Il modus scrivendi dell’autore è molto scorrevole, lineare, e l’adozione di questa tecnica rende agevole la lettura, così che i ragguardevoli contenuti culturali del testo possano essere appresi ed apprezzati senza distrazione alcuna.
Merita un rilievo poi l’abilità di Maccioni, oggi merce rara, nel descrivere i “contatti” tra il protagonista del libro e un personaggio femminile che si affaccia tra le pagine, ovvero Silvina; senza scadere in squallide volgarità, tra le righe si delineano intensi momenti amorosi vissuti dai due, ove traspare quella bella istintività che porta l’uomo e la donna ad unirsi in virtù di un’attrazione magica e quantomai inspiegabile.
Da ultimo, sorprende la figura misteriosa che guida Eugenio nella comprensione di cosa sia accaduto davvero in Argentina e quale sia il giusto peso da attribuire agli eventi: una sorta di Virgilio, a cui è deputato l’arduo compito di far luce sul passato, raschiando via le ombre che sono talmente tanto pesanti, da stringere il cuore di fronte a quello che è stato un vero e proprio genocidio.
In sole circa duecento pagine , è condensato il dolore necessario che occorre provare per capire come stanno le cose, per distogliere la propria attenzione dalle banalità quotidiane e soffermarla su quello che è successo.
“Buenos Aires troppo tardi” merita molto, perché è un libro ben scritto, audace.
L’alta qualità con cui è stato redatto e l’originalità della storia, la quale, pur nella sua immaginarietà, non si esime dal divulgare preziosi contenuti storici che debbono essere conosciuti, rendono il testo prezioso e mostrano tutto il talento letterario di Paolo Maccioni.

"Quo vadis" un Nobel epico

Marianna Abbate
ROMA Come potevo non approfittare della rubrica vintage per tessere le lodi di un mio compaesano. “Quo vadis” il romanzo che nel 1905 valse il Nobel a Henryk Sienkiewicz è un’opera mastodontica. 
Grazie a questo romanzo Sienkiewicz raggiunse la fama internazionale, già molto conosciuto in Polonia per i suoi numerosi libri sulle vicende legate ai Cavalieri Teutonici.  La sua Trilogia, che tratta le vicende belliche polacco-prussiane gli ha conquistato l’eterno amore del popolo polacco, che lo ha celebrato regalandogli una villa, costruita appositamente per lui ad Oblegorek (proprio a pochi chilometri di distanza dal mio paesino). 

Questo romanzo conferma le sue doti di narratore epico e la sua abilità a ricostruire la realtà del’epoca, inserendo spunti romanzeschi originali, ma totalmente verosimili.
La trama, come è facile intuire dal titolo, tratta la tematica delle prime persecuzioni cristiane ad opera di Nerone. La vicenda dell’apostolo Pietro e dei suoi seguaci fa da sfondo alla tormentata storia d’amore tra Licia, nobile cristiana forestiera, e Vinicio, giovane patrizio Romano.
Se aggiungiamo che la giovane ha attratto l’interesse di un focoso e malvagio Nerone, e che a difenderla nell’arena sarà il fido gigante Ursus, ecco qui presentati tutti gli ingredienti per uno spettacolare Kolossal cinematografico.
E infatti “Quo vadis” è stato oggetto di diverse trasposizioni cinematografiche di cui la più importante è quella del 1951, vincitrice di 2 Golden Globe, che vede Robert Taylor nei panni di Vinicio e Peter Ustinov nei panni di Nerone.
Non è un caso, infatti, che tutti i film tratti dai libri di Sienkiewicz abbiano riscosso un notevole interesse in Polonia, decretando il successo di attori e registi.
Una lettura sempre appassionante per un romanzo senza tempo.

"La morte al cancello", il raffinato noir di Gianni Simoni pubblicato da TEA

Alessia Sità

ROMA – Una donna uccisa crudelmente, due miseri barboni eliminati perché ritenuti pericolosi e una città enigmatica, che nasconde un lato oscuro, troppo inquietante. Sono questi gli ingredienti del nuovo romanzo di Gianni Simoni, “La morte al cancello” edito da TEA nella collana Narrativa Tea.
Per il commissario Miceli, ancora una volta affiancato dall’instancabile ex giudice Petri, e per la sua squadra investigativa c’è un nuovo intricato caso da risolvere.
In una fredda notte bresciana, si consuma il barbaro delitto della moglie di un noto luminare di cardiochirurgia. Pochi giorni dopo, in città si apprende la notizia del ritrovamento dei cadaveri di due senzatetto. In apparenza, gli omicidi sembrano non avere nessun legame, ma andando avanti le indagini si incrociano inevitabilmente.

Il lavoro della polizia si fa sempre più meticoloso, non bisogna tralasciare nessun particolare, perchè anche il più abile killer può commettere errori o leggerezze. La pista principale seguita sembra essere quella di un omicidio su commissione, ma qualcosa nel quadro complessivo della vicenda non torna. Ci sono troppe domande senza risposta. Perché la donna è stata uccisa? E chi poteva avercela con due barboni disgraziati? Le ipotesi e gli indizi aumentano sempre di più e la pazienza, talvolta, sembra venir meno. La coppia Miceli – Petri però non si arrende. Le indagini continuano senza sosta, fino a quando anche l’ultimo tassello del complicato puzzle non trova posto.
Ogni personaggio, ogni evento è descritto passo dopo passo con estrema accuratezza. Gradualmente la soluzione prende finalmente forma. Attraverso una scrittura diretta, talvolta ricorrendo anche all’uso della lingua dialettale, l’ex magistrato riesce a coinvolgere il lettore in una complessa vicenda che nasconde un retroscena di tradimenti e infinito degrado. Il raffinato giallo di Simoni tiene col fiato sospeso fino all’ultima pagina, finché la giustizia non avrà fatto il suo corso.

"La solitudine degli anni dispari", lo speciale taccuino di Luca Pisanu

Silvia Notarangelo

Roma Un titolo curioso, “La solitudine degli anni dispari”, per il libro d’esordio di Luca Pisanu, appena pubblicato da Fermento.

Gli anni dispari sono quelli in cui la metà, forse i due terzi della popolazione italiana, si sente orfana, in balìa di uno strano malessere legato ad un’assenza che in tanti faticano a metabolizzare: da maggio tutti in vacanza, niente Europei, niente Campionati del Mondo, al massimo una insignificante Confederations Cup, in una sola parola, niente calcio.
E allora cos’altro fare se non seguire le ultimissime del calciomercato e attendere con trepidazione l’inizio “dell’inverno”, e cioè la prima del campionato 2009-2010?
Lo speciale taccuino di Luca Pisanu ripercorre le 38 giornate della stagione dal suo particolare punto di vista, quello di tifoso cagliaritano trapiantato nella Capitale.  

Nella città di Totti e Zarate, là dove “Il Corriere dello Sport” diventa la “Gazzetta Ufficiale”, è davvero difficile riuscire a sopravvivere per quanti coltivano una fede diversa da quella giallorossa o biancoceleste. E così, anche l’autore, deve rassegnarsi alle certo non favorevoli circostanze: sorbirsi le partite delle “grandi” con gli occhi puntati sui risultati che lampeggiano in sovrimpressione, arrendersi alla snervante attesa di un messaggio amico che lo aggiorni sulle vicissitudini rossoblù, aspettare la telefonata di turno condita da insulti o aperte manifestazioni di gioia.
Il tutto è ovviamente scandito da riti, scaramanzie, particolari casualità che un vero tifoso non può tralasciare e che rendono una partita già segnata in partenza, nel bene o nel male. Non si tratta di discutibili designazioni arbitrali, non c’entra l’assenza di giocatori infortunati o squalificati, Luca, come ogni tifoso degno di questo nome, ha le sue “particolari sensazioni” pre-partita, dettate da una logica discutibile ma che spesso si rivela infallibile. Perché, è vero, c’è sempre quella persona che ti chiama quando non dovrebbe farlo, che si sbilancia su un risultato “sicuro”, che si dice certa di una “stagione importante” perché i numeri parlano chiaro. Se poi, a queste profezie non richieste, si aggiunge una squadra avversaria reduce da imbarazzanti prestazioni o che, all’ultimo momento, schiera in campo proprio quel giocatore che non segna da una vita, allora le speranze stanno a zero: meglio dedicarsi ad altro perché il Cagliari denota una singolare capacità, quella di “resuscitare” calciatori ormai sul viale del tramonto concedendo, spesso, un’ultima possibilità ad avversari con un piede e mezzo in serie B.

E allora, come consolarsi da una domenica storta? Luca non ha dubbi, basta una Guinness nel solito pub, una serata a suonare con gli amici di sempre e, magari, un’occhiata in giro alla ricerca di una dolce compagnia capace di alleviare le sue sofferenze calcistiche.

"Il nome della rosa", l’intramontabile giallo di Umberto Eco

Stefano Billli
Roma – Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha portato, insieme ad innumerevoli festeggiamenti, anche ad una rinnovata curiosità per la storia e per il passato.
Allora, proprio sulla scia di questa emozione per i tempi che furono, vale la pena leggere “Il nome della rosa”, intramontabile romanzo scritto da Umberto Eco ed edito da Bompiani (la cui prima edizione risale al 1980).
Il libro è ambientato nel Medioevo e narra alcune vicende avvenute all’interno di un’abbazia cluniacense dislocata nell’Italia settentrionale.
I protagonisti, ovvero Guglielmo da Baskerville (frate francescano che fu inquisitore, prima di abbandonare questo turpe incarico) e Adso da Melk (giovane novizio appartenente all’ordine dei benedettini), si trovano infatti in questo luogo perché è lì che si dovrà tenere un importante incontro tra gli esponenti più eruditi e significativi di alcuni ordini religiosi, su tematiche proprie della Chiesa.

Tuttavia, durante la loro permanenza all’interno del monastero, Guglielmo da Baskerville sarà chiamato ad indagare – in virtù della sua passata “esperienza” – circa l’omicidio di un religioso avvenuto poco prima del loro arrivo.
Partendo da questa premessa, Umberto Eco intesse le fila di un romanzo giallo da leggere tutto d’un fiato (sebbene il testo abbia una dimensione non del tutto esigua!).
La narrazione presenta una straordinaria cura per il dettaglio e per i riferimenti alla storia: infatti, tutto il libro riflette il lavoro certosino dell’autore che, con “Il nome della rosa”, dà vita ad una delle opere più belle che il panorama letterario italiano abbia mai conosciuto.
Tra le pagine si compie poi un’opera di erudizione del lettore, che piacevolmente può abbandonarsi a vere e proprie lezioni di filosofia, letteratura e storia tenute da Umberto Eco.
Il modus scrivendi del libro è assolutamente ricercato e sublime: nell’opera si fondono insieme tecniche narrative diverse, le quali, una volta impresse sulla carta, disegnano un tratto stilistico peculiare ed assolutamente mirabile.
Di quest’opera è stata realizzata anche una versione cinematografica, di cui prendere visione soprattutto per l’elegante recitazione di Sean Connery, affiancata da un giovanissimo Cristian Slater.
Questo classico vintage è prelibato come un cognac d’annata, e perciò va assaporato lentamente, lasciandosi trasportare da ogni frase, persino dalle più piccole sfumature.
“Il nome della rosa” è un romanzo che stupirà il lettore, conducendolo alla necessità – una volta terminata la lettura – di scoprire tutti gli altri scritti di Umberto Eco, anch’essi emblemi di una “penna” tutta italiana, orgoglio della letteratura nazionale e mondiale.

"Dell’amore e di altri demoni", il romanzo del 1994 di Gabriel Garcia Marquez

Alessia Sità
ROMA – Se amate Gabriel Garcìa Màrquez e avete letto “Cent’anni di solitudine” e “L’amore ai tempi del colera” , di sicuro apprezzerete anche “Dell’amore e di altri demoni” pubblicato da Mondadori (prima edizione nel 1994), nella Collana letteratura Internazionale.
Dalla prefazione, apprendiamo che il libro prende spunto dal ritrovamento di un’antica tomba, rinvenuta presso lo storico convento delle clarisse. La singolare scoperta riportò alla mente di Màrquez un’antica leggenda, incentrata su una marchesina di dodici anni particolarmente venerata nei paesi dei Caraibi per i suoi miracoli. L’opera venne composta nel 1994 e nonostante l’intervallo di tempo che la separa dai lavori precedenti, lo scrittore sudamericano riesce, ancora una volta, a ricreare le atmosfere surreali e magiche dei due capolavori sopracitati.
Nella suggestiva Cartagena de Indias, fra l’ingiustizia dell’Inquisizione della Chiesa e antiche credenze popolari, si svolge la vicenda di Sierva Marìa de Todos Los Angeles, sospettata di aver contratto la rabbia in seguito al morso di un cane, e di Cayetano Delaura, il giovane prete chiamato ad esorcizzarla, che però resta vittima del mal d’amore.
Attraverso una scrittura essenziale e limpida, Gabriel Garcìa Màrquez ci regala una struggente fiaba dalle sfumature inquietanti e magiche allo stesso tempo.
Il lettore non può che restare affascinato dal continuo mescolarsi del sacro con il profano, dall’inesauribile passione che i personaggi riescono a scaturire, dall’amore che lascia lentamente il posto al demone latente che si cela in ognuno di loro.
Travolgendo i nostri sensi, “Dell’amore e di altri demoni” ci trascina in una tormentata storia d’amore che travalica la realtà, ma che comunque riesce ad emozionare fino al punto da lasciarci col fiato sospeso.