"Sia dato credito alla poesia", ovvero come si allacciano realtà e interiorità.

Giulio Gasperini
ROMA –
Tutti noi, generalmente, ricordiamo qualche Premio Nobel, soprattutto della letteratura: sia perché qualcheduno lo studiamo pure a scuola, sia perché è il Premio, tra i tanti, forse più accessibile, più immediato. Il giorno dopo, entrando in una libreria, ci troviamo già sommersi dai titoli dello scrittore vincitore pubblicati in traduzione, decorati con fascette e richiami luccicanti da casinò. Non so, però, quanti di noi sanno che ogni premiato, durante la cerimonia, deve tenere un discorso: e che tali discorsi, in molti casi, son diventati opere illuminanti, frammenti di grandezza, umana e/o poetica, assolutamente imprescindibili per conoscere meglio un autore e la sua produzione intera. È il caso del discorso del Premio Nobel del 1995, il poeta irlandese Seamus Heaney, che lesse un appassionato testo intitolato (in traduzione) “Sia dato credito alla poesia” (Archinto, 1997).


Se Montale, trent’anni esatti prima (era il 1975), ritirò il premio chiedendo provocatoriamente a sé stesso e al mondo se la poesia avesse ancora un ruolo nella società, Heaney rispose non solo affermativamente ma con grande decisione e senza nessun tentennamento: la poesia ha un ruolo fondamentale, una funzione imprescindibile. L’uomo non può progredire senza la poesia; non può definirsi tale, l’uomo, né pensare di poter sviluppare le sue capacità più sane e meritevoli, senza confrontarsi con la parola poetica. Perché la parola, per Heaney, ha una funzione reale, concreta, deittica: di relazione, ovvero, diretta con la realtà, col mondo vissuto, coll’umanità che giornalmente, praticamente, si trova a vivere e a sopravvivere. La Poesia, “onesta e fedele” (come anche sostenne Saba), ha “pietà del pianeta”, perché riesce a “creare un ordine fedele all’impatto della realtà esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del poeta”. La poesia è, infatti, “nave e ancora”, riuscendo, nello stesso istante, a rispondere in maniera compiuta e degna a due esigenze profonde (e dolorose) dell’uomo e dell’umanità intera: “Il bisogno, da un lato, di dire la verità, dura e punitiva; dall’altro, di non indurire la mente al punto di rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia”. Carne e spirito, dunque, per Heaney: ognuno portato ai massimi estremi ma mai lasciato estremizzare.
Il discorso di Heaney si fa ancora più profondo quando riesce, con una leggerezza e una perizia miracolose, a saldare la sua teoria poetica con la realtà quotidiana (“quel secchio nel retrocucina, cinquant’anni fa”) ma anche storica in cui lui si trovò a crescere: quella, ovvero, della sua Irlanda straziata, negli anni ’70, dagli scontri feroci nell’Ulster, tra cattolici e protestanti (“Il tempo di guerra, in altre parole, fu per me tempo anteriore alla riflessione”). E arrivò alla conclusione che “A volte è difficile allontanare il pensiero che la storia sia istruttiva quasi come un mattatoio”. Ma laddove la storia può fallire, arriva la poesia a smascherare l’inganno e a ripristinare le giuste rotte di navigazione.

Andrea Zanzotto, ultimo poeta del Novecento

ROMA – Se la fede, la calma d’uno sguardo

come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,

se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le piú occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,

i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sí gran parte specchi a me conformi.

Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura

e in armonie pur io possa compormi. 

“Notificazione di presenza sui Colli Euganei”

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 10.10.1921 – Conegliano 18.10.2011)

"I ca dao del Vietnam": la poesia del quotidiano che nutre l’uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
La poesia, si sa, nacque esattamente quando nacque l’uomo. Prima della narrativa l’uomo manifestò la sua coscienza artistica tramite versi, tramite il modulare di ritmi e suoni. Ed era una poesia, come Omero insegna, che discettava del quotidiano, che nella vita di ogni istante, di ogni attimo, sapeva gemmare ed elevarsi a voce dell’eterno, in un laccio così stretto e inscindibile tra la materialità dell’esistenza e la validità acronica dei sentimenti. I primi poeti furon tutti anonimi, senza voci né volti, proprio perché la visione poetica era di competenza comune. “I ca dao del Vietnam” (pubblicati dalla ObarraO edizioni nel 2000) proprio questa ricchezza possiedono: quella, cioè, d’esser stati composti da uomini comuni, da contadini, da barcaioli, che possedevano la ricchezza piena della lingua e sapevano accordarla sontuosamente con gli elementi naturali, coi loro moti interiori, coi profili degli altri uomini e delle altre donne.


La lingua vietnamita è una lingua dolce e complessa, dalla storia travagliata e dagli apporti consistenti dal cinese e da altri idiomi. Per questa la traduzione contravviene molto al messaggio originale. Però le immagini che codesta poesia sa evocare, i legami d’assoluta perfezione, disarmanti nella loro semplicità e purezza, la perfetta corrispondenza tra sensi umani e potenza naturale non si incrina, ma riluce splendida e cristallina anche tramite l’interpolazione d’un traduttore (“Io sono una goccia di pioggia che cade, cade nel pozzo, cade nel roseto. Io sono una goccia di pioggia che cade, cade sul palazzo, cade nella risaia”).
I ca dao hanno formato non soltanto la coscienza poetica del popolo vietnamita, ma finanche quella politica e sociale, perché diventarono uno strumento privilegiato della resistenza, un tentativo di non cedere e di mantenersi saldi al proprio impegno prioritario di libertà (“Mangio germogli di bambù, mangio bambù grosso, in giro vedo solo bambù, nessun amico”, “se non vado in miniera tu cosa mangi?”). E poi c’è l’amore, il perfetto argomento poetico, che qui si colora di note lontane dalle nostre tradizioni, e ci si presenta diverso, remoto, e ancor più interessante: “Ti amo, è la mia piccola sorte”, “tante tegole ha il dinh, tante volte ti amo”, “Amarsi, non c’è bisogno di letto e stuoia, basta una grande foglia per coprirsi della rugiada”. E poi c’è la tradizione, la saggezza, la ricchezza dei vecchi che vedono passare le stagioni e imparano come vivere, assecondandole e rispettandole: “Pioggia fine del nono mese, vento gelato, sollevo il secchio come mani tremanti”, “Vado a lavorare la risaia comune, scodella grande, soldi in mano”.
Oriana Fallaci ha scritto che questo piccolo paese, il Vietnam, ci aveva dato troppo: “Ci ha dato la coscienza d’essere uomini”. Lei parlava della guerra; io credo che si possa dire anche per la poesia.

"Giovanna d’Arco": le nuove confessioni d’una donna (forse martire e fatta santa)

Giulio Gasperini
ROMA –
Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orléans, morì veramente arsa sul rogo? Era Giovanna quella donna condannata e incappucciata che fu sacrificata alla punizione suprema, con l’accusa d’essere strega ed eretica ma con la reale motivazione d’una vergognosa e umiliante sconfitta militare? Maria Luisa Spaziani recupera non soltanto una versione differente e divergente della storia ma persino un metro popolare della poesia italiana per ridare voce, consapevole, all’eroina del Medioevo, a una donna che fu bambina, che fu soldato, che fu martire in uno spazio ridotto al capogiro, e alla fine, come riscatto dei colpevoli, riverita come santa. “Giovanna d’Arco” (Marsilio, 1990) è un poemetto in ottave, il metro dei canti popolari e poi cavallereschi (quello, per intendersi, dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata), anche se la Spaziani non lega gli endecasillabi con le rime, ma li lascia sciolti, più ariosi; li fa respirare e a noi ci culla nella loro musicalità ammaliante.

La primavera di Giovanna cominciò nel momento della sua vocazione, grazie a quell’angelo che scese sicuro e potente a chiamare chiunque all’azione: Giovanna sentì e Giovanna partì, giovane giovane e insicura persino del suo nome. Si fidò della voce. E la stessa voce la salvò, la preservò dalle fiamme che bruciarono un altro corpo e la protesse dall’offesa, dalla quale fu purificata e riscattata per un umano pentimento di chi, quella fanciulla, l’aveva sacrificata e fatta morire. Giovanna però visse, perduta in un luogo remoto, amata da un uomo che sapeva di non essere riamato e che, per non soffrire più, partì volontario per una terra dalla quale sapeva che difficilmente sarebbe tornato.
Giovanna soffrì, nell’esilio; soffrì la lontananza dai campi, dalla polvere, l’inedia che assoggetta anche l’animo più nobile. Lei volle sempre fare, agire, per servire un bene più grande di lei. In quel castello, umido e buio, non trovò amore, né gioia. In quel riposo forzato, in quella noia paralizzate, Giovanna si sentì fors’anche in colpa, per esser fuggita, suo malgrado, al destino per lei apparecchiato: nessuna fiamma l’aveva arsa, nessuna morte l’aveva accolta.
E decise di tornare, un’ultima volta, a calpestare quella terra che l’aveva vista protagonista di imprese leggendarie. Tornò, incauta, a Orléans; lì la riconobbero, perché la vera pure d’animo non si può nascondere. L’acclamarono quasi regina, la celebrarono già santa. Ma la Pulzella doveva esser morta, perché è “difficile spiegare, a chi è mortale, come la morte può fingersi vita”.

"Centoundici Haiku", l’opera di Bashò

Roma – Matsu Bashò è scoprire il volume “Centoundici Hiku”, pubblicato dalla casa editrice La vita felice. La poesia di Bashò, , frutto di una serrata ricerca letteraria e linguistica, condotta con gli strumenti colti propri della cultura classica cinese e giapponese e della filosofia Zen, è caratterizzata da un linguaggio chiaro e conciso, quasi rarefatto nella sua liricità.
La compresenza di elementi del vivere quotidiano, spesso umili, e dei segni delle emozioni del poeta, immerso nella natura e in colloquio con gli antichi, in una mescolanza di bellezze universali e di oggetti comuni, di banale e caduco e di sublime ed eterno, è forse la massima espressione dell’opera di Bashò.

"L’acino della notte": del ciclo stagionale, ovvero della nostra sopravvivenza.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’uomo non può vivere senza la natura. La natura, viceversa, può esistere (e indubbiamente lo fa meglio) senza l’uomo. E non è un discorso soltanto ecologista, questo, ma, come appunto si scopre dalle poesie di Giuliana Rigamonti, è anche un discorso poetico. Sì, perché l’uomo è sempre vissuto suddito del ciclo stagionale: sono stati i freddi e i caldi, i dì brevi e i dì lunghi, il ritorno di Zefiro e la sua partenza, a condizionare le scelte, quelle più quotidiane ma più fondamentali, del genere umano tutto, in ogni sua latitudine e longitudine. “L’acino della notte” (eccellente volumetto pubblicato dalla grande casa editrice Scheiwiller, nel non remoto 2006) è un cammino iniziatico, fors’anche un po’ misterico (e in questo senso si spiega l’abbondante ricorso della poetessa ai geroglifici egizi, al loro potere significante e alla loro vastità di significato), in un’educazione stagionale che ci permetta di ritornare all’origine del nostro cammino.

Così ci convinciamo, di nuovo, dell’indispensabilità che la natura sia rispettata (e, soprattutto, obbedita).
L’uomo vive se (e solo se) segue docile il ritmo delle stagioni, il loro lente e persistente convertirsi dall’una all’altra, dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, dall’estate all’autunno, dall’autunno all’inverno, rincorrendosi sempre in un ciclo continuo e costante; ma mai monotono – ed è questa la più straordinaria portata della poesia della Rigamonti. Ogni evento stagionale, pur nella sua prevedibile ciclicità temporale, lascia sempre l’uomo senza fiato, perché è pur sempre una prima volta: nulla è mai uguale, identico, se non l’idea che supporta il tutto. “Il grido di caccia / delle stelle”, le ombre che “cantano sempre da sole”, la “luce matura fra le persiane” sono tutti legami che (co)stringono l’uomo in un perenne debito di riconoscenza. La natura è feconda, generosa (“il geco scoppia di luna”); la natura è la referente di ogni declinazione d’umano (“Io comincio dove il tramonto brucia / nel tuo sguardo”); la natura vince e libera dalle avversità (“I limoni raschiano la nebbia”).
Ed è la natura la risposta al tutto. Anche in poesie di straziante contemporaneità, come quella intitolata “Clandestino”, nel quale Lampedusa si trasforma in pietosa spettatrice del dramma più sordo del nostro tempo: “Niente resterà di questo viaggio. / Per un giorno galleggerà il mio nome / nelle brevi di un giornale / tre righe che nessuno legge / nere / silenziosamente nere”.
Perché non rimane altro che perdersi nella natura, riconsegnarsi a lei, ingenuamente (nel senso pure del termine) e “spingersi oltre il limite delle dune / che non hanno limite e frugare le sabbie / che cadono fra le dita come giorni / nel granaio, per valutare il grano / rimasto e quello da versare”.

"La poesia è di casa": a Roma la poesia unisce l’altro e l’altrove.

ROMA – La poesia riesce a unire sempre l’altro e l’altrove: è la sua caratteristica peculiare, la sua potenza, la sua autorevolezza. L’ha detto anche Benigni, l’altra sera al Festival di Sanremo: è stato il momento più dolce, più affascinante in un momento come questo, in cui la crisi offre l’alibi per i tagli; e i tagli infieriscono, ovviamente, sulla cultura, perché pare che non “renda”, che non sia utile, che non sia voce attiva della bilancia commerciale.
Fortunatamente, ogni tanto, qualche azione coraggiosa viene intentata: come quella che, a Roma, ha permesso l’organizzazione di nove incontri di poesia, in tre luoghi diversi, in tre altrove: La poesia è di casa sarà una vera e propria festa della poesia, che riguarderà momenti e atteggiamenti diversi, dai grandi dell’epos di tutti i tempi ai nuovi poeti contemporanei, che con grande difficoltà stanno affermandosi sulla scena della poesia italiana.

Nella Sala Santa Rita (www.salasantarita.culturaroma.it), in Via Montanara 8 (vicino a Piazza Campitelli), si tiene un ciclo di incontri dal titolo Il flusso di parole, in cui verranno letti e riscoperti autori classici della letteratura italiana. Un incontro è già stato fatto, il 10 febbraio: Novecento italiano, in cui son stati letti i versi di poeti come Dino Campana e Cristina Campo. Il prossimo sarà il 10 marzo (h 17:30): Ritorno di Cima, incontro che servirà a celebrare la rima del verso italiano, la musicalità che produce, la dolcezza che lascia sulla lingua. L’ultimo incontro, il 20 aprile (h 17:30), sarà dedicato ai Nuovi poeti del flusso della parola e della visione interiore.
Alla Casa della memoria e della storia (www.casadellamemoria.culturaroma.it), in via San Francesco di Sales 5, invece, la poesia celebra l’Unità d’Italia con tre incontri, il primo dei quali si è già tenuto il 17 febbraio, con la serata Rapsodie garibaldine, in cui son state riscoperte poesie e rime di autori (come Ippolito Nievo) che celebravano, nella spensieratezza dell’ideale, gli animi eroici e i coraggiosi cuori di quei giovani, così poco famosi. Il 24 marzo (h 17:30) sarà la volta di Cecco Bilecco filastrocche e canzoni popolari mentre il 14 aprile (h 17:30) verrà lasciato spazio ai Nuovi poeti popolari.
L’ultimo luogo è la Casa dei teatri (www.casadeiteatri.culturaroma.it, Largo 3 giugno 1849, nella Villa Doria Pamphilj), dove i tre incontri celebreranno la poesia quando si converte in spettacolo: Dall’epos al ludus. Il primo incontro si terrà il 19 marzo (h 11:30), L’epos, in cui saranno recuperati, da Virgilio a Tasso, gli esempi più splendidi e meravigliosi dell’epica. Il 9 aprile (h 11:30), invece, toccherà al Ludus giocare i suoi assi, presentando poesia di Rodari, Orengo e Carpi. L’ultimo incontro si terrà il 14 maggio (h 11:30), con lo spazio dedicato ai Nuovi poeti ludici.
L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Per avere più informazioni ci si può collegare al sito www.culturaroma.it
Buon divertimento!

Poesia: "Tra melma e sangue" di Clemente Rebora

ROMA Il grande espressionismo linguistico di Clemente Rebora, uno dei più autentici poeti del Novecento, viene espresso con maestrìa nella raccolta di Lettere e poesie di  guerra curata da Valerio Rossi, “Tra melma e sangue” (Interlinea). Rebora testimonia la crisi drammatica della prima guerra mondiale, vissuta attraverso una vigilia tumultuosa e poi un’esperienza personale tragica «tra melma e sangue» che lascia una ferita indelebile. Nelle incandescenti lettere il poeta milanese parla di «esperienza non dicibile», di «mostruoso intontimento», di «Calvario d’Italia» e di «ammazzatoio di Barbableu» usando parole come «orrore», «tanfo», «imbestiamento». La guerra è abisso, è «inghiottitoio» e le poesie di Rebora (qui per la prima volta commentate) ne richiamano la natura vorace, la desolazione assoluta.
«Però se ritorni / Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / e la vita si intendono ancora». “Tra melma e sangue” testimonia che la Grande poesia non smette mai di parlare.

Settanta volte sette onde

Giulio Gasperini
ROMA –
Come si declina l’assenza della passione d’amore? Come si concreta un’ars amandi che fu? Come si oggettiva un antico possesso erotico? Come un letto che “campa di ruggine”; come un’assenza di stagioni; come luce disabitata negli occhi d’un’innamorata; “una penna di rapace / che ora nell’agenda divide il quattro / dal cinque luglio”; come foglie che si ammucchiano “nel cavo della sera”.

Potente è la poesia che Giuliana Rigamonti squaderna in questa silloge: “La settima onda” (ES Edizioni, 2003). Potente ma lieve, pura ma furiosa come un’improvvisa tempesta di neve: furente di tutto quell’erotismo che così prodigiosamente le sue sillabe, le sue parole sanno esprimere, sanno declinare.
Perché l’assenza di passione implica che una passione anteriore sia esistita, una passione che deflagrò mentre “l’auto corre fra campi di lavanda” della Camargue francese, o mentre sorprendiamo noi stessi nel ricordo di quando si contavano “i rimbalzi di ciottoli sull’acqua”. È una passione che si allea la natura intera (“Gonfie, le vigne a mezza costa / srotolano frenesie di vendemmie”; “Ti traduco il bosco che precipita / nel lago”); è una passione che si esagerava eterna, nelle solite promesse degli amanti (“Moriremo così, dici, / mano nella mano”); una passione che era incomunicabilità o forse solo gelosa brama di possesso (“Nessuno che colga / i segni incisi sulla pietra”).
Non è facile poetare l’erotismo: il rischio di diventar volgari, grossolani è facile e concreto. E una poesia sguaiata non è certo una poesia erotica. Sarà per questo che le donne son più abili, a scriverla. Rimane comunque la soddisfazione di leggere questo rosario di poesie, questi germogli che la Rigamonti – una delle migliori voci poetiche contemporanee e, per questo, ampiamente sconosciuta – inanella armoniosamente, che fa gemmare amabilmente. È come seguire, in una contabilità evangelica, settanta volte sette onde di erotismo, sbocciato nel quotidiano. Perché l’eros è cosa seria; quasi santa. Ma anche così normale; quasi casalinga.

Edizioni "Via del Vento", Fabrizio Zollo ci racconta la sua interessante realtà editoriale

via_del_vento a Pistoia, sede della ROMA – Portano l’antico nome della leggendaria via in cui si trovano, nascono da una grande passione per la tradizione letteraria e sono attente alla vera qualità: queste sono le Edizioni “Via del Vento”. La casa editrice di Pistoia, nata nel 1991, voluta e diretta da Fabrizio Zollo, è una piccola realtà che pubblica testi inediti e rari del Novecento italiano, con grande attenzione per la poesia straniera.

Dopo aver pubblicato la recensione di “Sono pesi queste mie poesie” di Nika Turbina e l’intervista al curatore Federico Federici, Chronica ha contattato Fabrizio Zollo che, con sua figlia Amanda e numerosi collaboratori esterni porta avanti il lavoro delle Edizioni “Via del Vento”, per conoscere meglio questa interessante realtà editoriale. 

Perché le Edizioni “Via del Vento” hanno deciso di pubblicare il volumetto di Nika Turbina “Sono pesi queste mie poesie”?
Il nome di Nika Turbina mi fu proposto per la prima volta nel gennaio 2007 dal poeta Federico Federici di Imperia che si era già occupato della poesia di Nika Turbina in modo costante, sino a farne una sorta di sua missione. Per farmene un’idea, mi documentai sulla rete e mi procurai il volume di sue poesie “Quaderno di appunti” che le Edizioni del Leone avevano pubblicato nel dicembre 1984, quando Nika Turbina aveva dieci anni appena compiuti. Quel volumetto, per la traduzione di Evelina Pascucci, vantava un saggio introduttivo di Evgenij Evtusenko, che ne parlava come di una bambina prodigio. Ma non fu per questo che decisi di pubblicarne una scelta di poesie nella mia collana di poesie straniera «Acquamarina», quanto perché i suoi versi mi avevano colpito in assoluto e non perché fossero stati scritti, quelli migliori, da una bambina di sette anni. Il suo volto bello e malinconico e la sua tragica vicenda personale sono stati elementi aggiuntivi, ma non determinanti. Il suo nome non sfigura accanto a quelli che troverete nel catalogo della collana, i grandi poeti russi che ho pubblicato non si saranno voltati dall’altra parte e l’avranno accolta certamente come sorella.
Edizioni Via del VentoQual è la vostra proposta editoriale?
Le Edizioni “Via del Vento” pubblicano nelle collane quadrimestrali di prosa «I quaderni di Via del vento» e «Ocra gialla» testi inediti e rari di grandi letterati italiani e stranieri del Novecento, quasi esclusivamente già antologizzati nella storia della letteratura mondiale, mentre la collana di poesia «Acquamarina» è riservata a grandi poeti stranieri, intendendo per ‘grandi’ quelli la cui poesia sia di grande spessore lirico, indipendentemente se siano già conosciuti dal largo pubblico, e comunque una poesia che corrisponda alla mia personalissima, e quindi opinabile, idea della poesia. Non solo la scelta dell’autore, ma anche la selezione delle poesie da pubblicare non sento di poterla delegare. I volumetti delle Edizioni “Via del Vento” sono composti da trentasei paginette, stampati su carta pregiata con una tiratura di duemila copie numerate ed avviati alle librerie per un prezzo di copertina di quattro euro. Ho un certo numero di abbonati, pochi, ma che mi obbligano a rispettare l’impegno di offrire tre numeri ogni anno che siano al livello di quelli che li hanno preceduti. Ad ogni loro uscita i volumetti vengono recensiti con risalto dalla grande stampa nazionale in quanto trattano, come detto, testi inediti in Italia, solitamente di grandi letterati.

Quanto è importante puntare sulle piccole opere di grandi scrittori e sugli autori emergenti?
Mi è facile rispondere solo alla prima parte della domanda: per me è stato naturale assumere come linea editoriale quella di pubblicare testi inediti o rari di grandi letterati italiani e stranieri del Novecento, in quanto in una nazione come la nostra, dove la propensione per la lettura è così bassa, mi è parso fondamentale iniettare piccolissime dosi di grande letteratura nel circuito del lettore per fargli desiderare di approfondire la sua conoscenza per quel determinato autore sino a spingerlo ad acquistare in libreria le sue opere più corpose e famose. Penso che il mio, nel suo piccolo, sia un servizio reso a tutta l’editoria italiana e alla diffusione della lettura nel nostro paese.
Mi resta più difficile rispondere alla seconda parte della domanda perché, alla luce di quanto ho detto sopra, solo raramente ho pubblicato autori sconosciuti alla storia della letteratura, ma le poche volte che l’ho fatto ho avuto conferme alle mie scelte. Ma qui il discorso si dilaterebbe. Mi congedo ringraziando il giornale telematico «Chronica», il suo pubblico della rete e la sensibilità di Giulia Siena della redazione cultura che mi ha ospitato con questa intervista.