Anteprima: aspettando San Valentino leggi l’estratto di "I love you, goodbye"

ROMA – Cosa si nasconde dietro il sentimento che fa girare il mondo? E’ poi vero che l’amore cambia la vita? A poco più di una settimana da San Valentino, Leggereditore porta in libreria un romanzo delicato, profondo e mai banale: “I Love you, goodbye” di Cynthia Rogerson. Aspettando la recensione di questa ottima idea regalo per il giorno più romantico dell’anno, vi proponiamo un estratto del coinvolgente “I love you, goodbye”.

Settembre

Evanton
È una cittadina nelle Highlands scozzesi che dallo spazio neppure si vede, neanche una macchiolina. Da Fyrish Hill invece sembra un mucchio di detriti in fondo a un crepaccio: case di pietra grigia che si snodano verso l’estuario. Se si entra in città al crepuscolo, si trasforma in una contea. Finestre illuminate da una luce confortevole, e sbuffi di fumo dai camini. Chi non vorrebbe mettere su casa in un luogo simile? Ma appena ci si avvicina un po’ di più, appena ci si accosta a queste finestre, le cose non sono poi così idilliache. Decisamente no. E non solo ogni sentiero caratteristico ha la necessaria infelicità,
ma anche ogni casa. E ogni persona.


Ania
Cos’altro conta, cos’altro è realmente misterioso e degno d’interesse, a parte l’amore? La morte, certo, ma è anch’essa anticipata o ritardata dall’amore. E la morte dell’amore è una
tragedia esclusivamente umana. Dev’esserci un fine evolutivo nel dolore che segue la perdita di un amore. Non so quale sia. Ma la morte dell’amore mi dà da vivere, perciò non posso
lamentarmene troppo. Mi sono immersa negli intimi spasmi d’agonia di cinquecento matrimoni ormai – una bella cifra per una che non ha ancora raggiunto i trent’anni –, ma d’altra parte ho sentito la vocazione molto precocemente, e ho consacrato la mia vita alla resurrezione dell’amore. La consulenza matrimoniale è un’arte. Di più, sono un medico di matrimoni all’ultimo stadio. Mi colloco al pronto soccorso delle relazioni e poi, se ho fallito, al reparto per malati terminali. Soprattutto, sono una filosofa dell’amore. Si saprà, se si è letterati, che tutte le famiglie felici sono simili, mentre quelle infelici lo sono ognuna a proprio modo. Non aggiungo altro. Le persone sono sole, incontrano qualcuno, e si innamorano. Sono migliori, innamorate, perciò è semplice amarle. Quando sono innamorate, le persone sono tutte uguali. In questa fase l’amore è totalmente basato sull’ignoranza e la mancanza di familiarità. Come ha detto W. Somerset Maugham: L’amore è quello che capita a un uomo e a una donna che non si conoscono.’ Per i miei clienti, dal momento in cui li incontro, spesso sposati da un quarto di secolo, è diverso. Non avete idea quanto sia affascinante osservare tutti i giorni il modo in cui gli umani si affannano a trovare sempre nuovi modi per ferirsi a vicenda.
Si conoscono tutte le loro paure circa la solitudine e sognano… una molteplicità di cose che l’amore non ha, finora, concesso. L’amore li ha delusi, com’è normale che sia. Sono nata con questa consapevolezza, il che non mi ha impedito di sposare Ian. L’ho messa a tacere per lui. Ache pro distruggere le sue illusioni? Sarebbe come dire a un bambino di due anni che un giorno certamente morirà. L’amore muore. Certo! Non dovrebbe sorprendere nessuno, ma colpisce comunque mariti e mogli alla stregua di una cannonata. La maggior parte degli individui crede di aver fallito, come se la rottura non fosse inevitabile. Le persone il cui amore dura tutta una vita sono rare. Per noialtri, perfino durante il primo bacio è possibile avvertire il sapore dolceamaro della fine. E a essere onesti, il tormento non ha la stessa squisita intensità della prima vampa di desiderio? Ci sono più poesie e canzoni sul perdere l’amore che sul trovarlo. La sofferenza è di certo preferibile alla lenta agonia della fase intermedia. E quando una relazione si chiude, definitivamente, non c’è più incertezza sul modo in cui andrà a finire. Ci si tormenta, ma in parte ci si sente sollevati, consapevoli che non può più andare, tornando poi a immaginare d’imbattersi in qualcuno che sia migliore.
Se ci fosse un ufficio governativo chiamato dipartimento dell’Amore umano, una grande stanza rosa piena di donne dai grembi soffici e di teneri uomini dagli occhi scuri, questi
verrebbero inondati di reclami e proteste ogni giorno. La gente intenterebbe causa all’Amore per danni inimmaginabili. Ma non può, così viene da me. C’è sempre un momento, dopo che suonano alla porta, in cui chiudo gli occhi e prego: Permettimi di aiutare questi cuori afflitti, domando a nessuno in particolare – l’atmosfera in movimento rotatorio oltre le stelle, l’aria nella stanza, e gli atomi del mio stesso corpo. Mi calma, chiedere aiuto. Poi apro la porta e li faccio entrare. Aproposito. È il campanello. Aiutami Rose. Ecco come parlo a mio marito: «Su, vestiti! Siamo in ritardo per l’appuntamento con la consulente matrimoniale. La camicia blu è stirata. Non lì, nell’armadio! Uffa. E devi comprarti le scarpe nuove, guarda qui le suole! Lunedì si va da Clarcks, c’è una svendita.»
Come se avesse sei anni. Non riesco a ricordare quando è cominciata quest’arrogante impazienza, questo autoritarismo, ma l’impulso è potente e ora non riesco a smettere, anche se credo che mi suiciderei se dovessi rivolgermi così a me stessa. «Pensavo mi avessi detto che non c’era disponibilità» fa Harry scontroso, come un bambino di sei anni che vuole rendersi indipendente dalla madre.

«Gesù, non ascolti mai? Te l’ho detto. C’è stata una disdetta. Abbiamo appuntamento con Ania alle sei.»
«Ania?»
«Sì, Ania.»
«Mi piace come suona. Straniero, ma ha qualcosa di rassicurante
e positivo. Di classe. Polacco?»
«Come faccio a saperlo? Sta’zitto e vèstiti.»

Non sono orribile?
Mi detesto.
«Un appuntamento con Ania. Sì! Che mi metto?
La camicia blu con quei nuovi jeans neri? Non sono troppo banali, no?»
«Nulla che non sia già la tua biancheria. Gesù, devi essere l’ultimo uomo di tutto il Regno Unito che indossa ancora quelle mutande. È sorprendente come fai ancora a comprarle.»
«Quindi non le trovi sexy? Certo, questo paio è sformato e ingrigito, ma posso metterne un paio nuovo.»
«Giusto, come se facesse differenza. Come se ci fosse qualcosa che possa fare differenza.»
«Se tu avessi indossato un perizoma carino di tanto in tanto, questo avrebbe potuto fare differenza» dice mio marito.
Pausa, mentre corrucciata strattono la spazzola sui capelli.
Stasera sono più brutta e vecchia del solito. Ecco l’effetto che mi fa mio marito. Mi imbruttisce. Una porta si chiude giù all’ingresso, e all’improvviso mi ricordo di essere anche una madre terribile, oltre che una terribile moglie. Entra in silenzio.
«Sam! Sam, tesoro, c’è qualcosa per cena nel forno, l’ho lasciato alla temperatura minima. Ricordati di spegnerlo dopo, va bene?»
«Dove andate?»
«Usciamo giusto per un drink veloce con gli amici. Non staremo fuori a lungo, promesso. Ti dispiace? Farai il bravo, vero? Lascio il telefono acceso.»
«Sì, certo che farò il bravo. State pure fuori tutta la notte se volete.»
«Sam, non fare così. Torna qui e dammi un bacio. Sam!»
Ma è andato nella sua stanza, e lì in piedi c’è mio marito, in mutande, con la sua pancia prominente dai peli bianchi, che dice: «E mi piace proprio questo nome. Ania.»
Così saliamo in macchina e partiamo. Vedo coppie ovunque, e nessuna di loro ha l’aria di essere diretta a una seduta di terapia matrimoniale. Sembrano tutti normali. Si tengono per mano, ridono. Scommetto che hanno delle canzoni che sono le loro canzoni. Noi non abbiamo mai avuto una canzone. Non so perché, ma abbiamo tralasciato questo passaggio. Mi chiedo se i matrimoni rispettino tutti lo stesso copione, e se non sia troppo tardi ora per procurarsi una canzone. Con ogni probabilità lo è. È una serata meravigliosa, ma l’incanto in me è inaridito. Anche questo mi irrita, questa incapacità di godermi la bellezza della sera.
«Ferma la macchina, l’ho visto. Ma aspetta, sarà questo? Sulla porta dice quarantasette, dev’essere questo. Ma sembra una casa.»
«Certo. Di sicuro cercano di non attirare l’attenzione» dice il mio sensibile Harry, che ha passato la vita a tentare di rifuggire le attenzioni. Mi sento strana a uscire dall’auto con Harry; che mi induce alla pazzia, all’infedeltà e alla bruttezza, ma che è il mio familiare
Harry. Attiro la sua attenzione e una risatina comincia a salirmi dalla pancia – c’è intimità nel nostro inferno privato. Comprende molte emozioni sgradevoli, ma non disagio. Tuttavia
è presente un impeto di ostilità: la rabbia consueta, una megera di cui sbarazzarsi, anche quando non effettivamente presente. È come se la sua ombra aleggiasse anche quando priva di consistenza.
«Suona il campanello. Su!» sbraito, visto che ha raggiunto la porta per primo.
Nessun rumore, ma c’è una luce all’ultimo piano.
«Stai arrossendo» mi fa notare.
«Sono imbarazzata. È la reazione appropriata alla situazione.
Saresti imbarazzato anche tu se fossi normale.»
«Sì, come se un uomo normale avrebbe sposato te.»
«Vaffanculo» rispondo automaticamente. «E ascolta, non parleremo ad Ania della nostra vita sessuale, d’accordo? Niente a proposito del sesso. So com’è… questa razza di terapeuti. Si
nutre dei dettagli della vita intima degli sconosciuti. Niente sesso» sibilo.
«Okay, nessun problema. Niente sesso.»
«Mai.»
«Niente sesso, mai? Quello che speri.»
E poi la porta si apre. Il mio cuore sta scalpitando, neanche si trattasse di un appuntamento vero e proprio. Rido in modo inopportuno, come se mi stessi innamorando.
«Buonasera» dice una giovane donna senza rughe. Ultimamente sono affascinata dalla pelle liscia. I suoi occhi brillano, come se ci conoscesse e fosse lieta di vederci.
«Voi dovete essere Rose e Harry. Sono Ania, prego.»
Anche Harry sembra innamorato, è diventato tutto rosso ed è ammutolito.
Poi, nel suo modo inappropriato rivela: «Ha un nome insolito, Ania.»
Lei si gira e risponde: «Sì, mio padre è polacco.»
Harry la fissa – è molto carina. In un modo languido.
«Ania è un nome polacco. Be’, in realtà è una variante di Anka, un altro nome polacco» dice molto lentamente, come se avesse già intuito quanto sia tardo Harry. «Che è il mio vero nome.»
«Polacca!» fa lui, come se essere polacchi corrispondesse a venire da Marte.
«Sì, ma ho sempre vissuto a Evanton. E anche mio marito è di Evanton» dice quasi per difendersi.
«Anche noi viviamo a Evanton! Ci siamo trasferiti da Leith.»
«Perciò siamo vicini» ribatte lei freddamente.
«E in che zona vivete?»
Per un attimo Ania s’irrigidisce; probabilmente esiste una prassi secondo la quale si usano nomi falsi e non si danno i propri contatti, nel caso in cui qualche coniuge separato e squilibrato tenti di vendicarsi.
«Harry, non essere così ficcanaso. Scusa, Ania.»
Lei esita, poi scuote la testa una volta, in modo misurato e preciso. Una donna riservata e disciplinata. Mi detesterà.
«Non lontano da voi.»
«Formidabile! E non ci siamo mai visti! Davvero incredibile.»
«Che coincidenza sorprendente!» dico.
Non riusciamo a smettere; siamo in competizione per chi di noi due è più espansivo. Sento che il disgusto verso me stessa sta per assalirmi, come nelle feste in cui all’improvviso avverto la mia risata fragorosa e mi accorgo che sto versando il mio quarto bicchiere di vino sul pavimento, mentre ballo musica che detesto, tipo gli Abba.
«Probabilmente ci siamo incontrati molte volte» dice Ania in modo gentile, per niente simile alla mia replica stizzita. «Per forza, Evanton è talmente piccola. Ci saremo visti senza farci
caso.»
Lo dice con una certa convinzione pacata e una specie di inquietante indifferenza professionale; noi rimaniamo in silenzio, e seguiamo questa bella visione per due rampe di scale. Superiamo porte di studi chiusi e acquerelli astratti fino a una mansarda dipinta di albicocca. Tre magnifiche soffici poltrone una di fronte all’altra. Nessun mobile per più di una persona. Scelgo per prima dove sedermi, come si trattasse di una gara. Erano anni che non mi sentivo così nervosa e che non mi divertivo tanto con mio marito. Da quella volta in cui pensavo che la sua segretaria avesse una cotta per lui.
«Ora mettetevi comodi» dice Ania. La sua voce è calda, profonda e tranquilla. Nessun accento, ma c’è qualcosa di non proprio scozzese. O forse il suo nome mi ha condizionato.
«Santo cielo, è delizioso. Comoda questa poltrona! E il colore delle pareti è magnifico!» Continuo a essere troppo entusiasta. Non riesco a evitarlo. Voglio piacere ad Ania. Voglio che
stia dalla mia parte.
«Grazie. Mi piace che le persone qui si sentano a casa. Dunque, abbiamo un’ora, ci mettiamo al lavoro?»
«Certo» replica mio marito con un tono insolitamente energico.
«Bene. Sono dell’opinione che sia necessario andare dritti al cuore della faccenda, perciò se vi va di dirmi quale pensate sia il problema, possiamo iniziare a definirlo. Quale vi sembra la
questione principale? Inizi lei, Harry. Cosa la rende maggiormente
infelice del suo matrimonio?»
«La nostra vita sessuale» risponde Harry.

Essendo la felicità pittoresca una cosa effimera, gli abitanti di
Evanton non vi ambiscono. In ogni caso, sono troppo occupati per
notarne l’assenza. Dategli un’occhiata – eccoli, vivere le loro vite tra
tutti gli altri abitanti del mondo. E a Inverness, che si trova a due
estuari di distanza da Evanton, c’è Ania, la consulente matrimoniale,
seduta nel suo ufficio color albicocca all’ultimo piano dell’edificio.
Sembra proprio un sacerdote che attende nel confessionale buio.

Anteprima: leggi il primo capitolo di "Presagi di tempesta", tra qualche giorno in libreria per Fanucci

ROMA – Giornata piena di novità è quella del mercoledì di Leggendo Crescendo. Infatti, la rubrica di ChronicaLibri dedicata alle letture dei più piccoli ospita anche nel pomeriggio il primo capitolo di un romanzo in libreria tra qualche giorno per Fanucci Editore. Ora è la volta di “Presagi di tempesta” il dodicesimo capitolo della famosissima saga La ruota del tempo, creata da Robert Jordan e Brandon Sanderson.

Prologo
Il significato della tempesta
Renald Fanwar sedeva sotto il portico, riscaldando la robusta
sedia di quercia nera intagliata per lui da suo nipote due anni prima. Fissava il nord.
E le nubi nere e argento. Non le aveva mai viste così prima d’ora. Ricoprivano l’intero
orizzonte verso nord, alte nel cielo. Non erano grigie. Erano
nere
scantinato a mezzanotte. Con lampi di luce argentea che li attraversavano
e fulmini a cui non seguiva alcun suono.


L’aria era densa. Densa per gli odori di polvere e terra. Di foglie
secche e pioggia che si rifiutava di cadere. Era giunta la
primavera. Eppure i raccolti non crescevano. Nemmeno un
germoglio aveva osato far capolino dal terreno.
Si alzò con lentezza dalla sedia, col legno che scricchiolava
e il mobile che dondolava sommessamente dietro di lui, e si
diresse al limite del portico. Masticò il cannello della sua pipa,
anche se ormai era spenta. Non riusciva a decidersi a riaccenderla.
Quelle nuvole lo paralizzavano. Erano così nere. Come
il fumo di un fuoco di stoppie, solo che nessun fuoco del genere
emanava un fumo che si levava così in alto nell’aria. E cosa
dire delle nuvole argento? Sporgevano tra quelle nere, come
punti in cui nel metallo incrostato di fuliggine spiccano parti
di acciaio lucidato.
Si sfregò il mento, abbassando lo sguardo verso il suo prato.
Un piccolo recinto imbiancato racchiudeva un appezzamento
di erba e arbusti. Gli arbusti erano morti ora, fino all’ultimo.
Non avevano retto all’inverno. Presto avrebbe dovuto
estirparli. E l’erba… be’, erano ancora solo stoppie invernali.
Non era spuntato nemmeno un filo verde.
Un rombo di tuono lo scosse. Puro, netto, come un fragoroso
cozzare di metallo contro metallo. Sbatacchiò le finestre
della casa, scosse le assi del portico e parve riverberarsi nelle
sue stesse ossa.
Fece un balzo all’indietro. Quella saetta aveva colpito lì vicino…
forse nella sua stessa proprietà. Fremeva dalla voglia di
andare a ispezionare il danno. I fulmini potevano provocare
incendi in grado di mandare in rovina un uomo, bruciando
tutte le sue terre. Quassù fra le Marche di Confine c’erano così
tante cose facilmente infiammabili: erba secca, ciottoli secchi,
sementi secche.
Ma le nubi erano ancora distanti. Quella saetta non potevaessere caduta sulla sua proprietà. I nuvoloni neri e argento si
amalgamavano e ribollivano, alimentandosi e consumandosi
a vicenda.
Chiuse gli occhi, calmandosi e inspirando a fondo. Si era
forse immaginato quel tuono? Stava iniziando a vaneggiare,
come lo scherniva sempre Gaffin? Aprì gli occhi.
E le nubi erano proprio lì, sopra la sua casa.
Era come se fossero venute avanti all’improvviso, con l’intenzione
di colpire mentre lui distoglieva lo sguardo. Ora dominavano
il cielo, estendendosi per parecchia distanza in ogni direzione,
massicce e opprimenti. Poteva quasi sentire il loro peso
schiacciare l’aria attorno a sé. Trasse un respiro carico di improvvisa
umidità e sentì del sudore solleticargli la fronte.
Quelle nubi turbinarono, cumuli scuri color nero e argento
scossi da lampi bianchi. Tutt’a un tratto ribollirono verso il
basso, come l’imbuto di un tornado che veniva a prenderlo.
Cacciò un urlo, sollevando una mano come farebbe un uomo
davanti a una luce accecante. Quell’oscurità. Quella sconfinata,
soffocante oscurità. Lo avrebbe preso. Lo sapeva.
E poi le nubi scomparvero.
La sua pipa colpì le assi del portico con un lieve schiocco,
gettando uno spruzzo di tabacco bruciato sui gradini. Non si
era reso conto di averla lasciata andare. Renald esitò, guardando
il cielo azzurro ora vuoto, rendendosi conto che stava
rabbrividendo per nulla.
Le nubi erano di nuovo all’orizzonte, lontane circa quaranta
leghe. Rintronavano in modo sommesso.
Raccolse la pipa con una mano tremante, chiazzata dall’età
e scurita da anni passati al sole. È solo uno scherzo della tua
mente, Renald, si disse. Stai uscendo di testa, certo come due
più due fa quattro.
Era sulle spine per via del raccolto. Quello lo metteva sulle
spine. Anche se con i ragazzi usava parole ottimistiche, non era
naturale e basta. Ormai sarebbe dovuto germogliare qualcosa.
Aveva coltivato quella terra per quarant’anni! L’orzo non ci
metteva molto a germogliare. Che fosse folgorato, no che non
ci metteva molto. Cosa stava succedendo al mondo di questi
tempi? Non ci si poteva fidare che le piante germogliassero, e
le nuvole stessero dove avrebbero dovuto.
Si costrinse a rimettersi a sedere sulla sua sedia, le gambe
che gli tremavano. Eh già, sto diventando vecchio…, pensò.
Aveva lavorato come agricoltore per tutta la sua vita. Non
era facile nelle Marche di Confine, ma se lavoravi sodo, potevi
ottenere una vita prospera coltivando raccolti resistenti. ‘Un
uomo ha tanta fortuna quanti semi ha nel campo’aveva sempre
detto suo padre.
Be’, Renald era uno degli agricoltori più prosperi della zona.
Tanto da comprare le due fattorie accanto alla sua e da poter
portare al mercato trenta carri ogni autunno. Ora aveva sei
bravi uomini a lavorare per lui, che aravano i campi e tenevano
in buono stato gli steccati. Non che ogni giorno non dovesse
calarsi nel letame e mostrare loro cosa voleva dire coltivare
per bene. Non potevi lasciare che un po’ di successo ti rovinasse.
Sì, aveva lavorato la terra, vissuto la terra, come suo padre
era sempre solito dire. Comprendeva il tempo atmosferico
meglio di chiunque altro. Quelle nubi non erano naturali. Rintronavano
piano, come ringhi animali in una notte buia. In attesa.
In agguato nei boschi circostanti.
Sobbalzò a un nuovo boato di tuono che parve troppo vicino.
Quelle nubi erano lontane quaranta leghe? Era questo che aveva
pensato? Ora che le esaminava, gli pareva che fossero a dieci.
«Non metterti in testa strane cose» borbottò fra sé. La sua
voce gli dava una sensazione buona. Reale. Era bello sentire
qualcosa di diverso da quel rombo e dall’occasionale cigolio
delle imposte al vento. Non doveva essere in grado di sentire
Auaine all’interno, intenta a preparare la cena?
«Sei stanco. Tutto qua. Stanco.» Frugò nella tasca del suo
farsetto e tirò fuori il portatabacco.
Un debole rimbombo provenne da destra. Sulle prime, immaginò
che fosse il tuono. Però questo rimbombo era troppo
stridulo, troppo regolare. Non era un tuono. Erano ruote in
movimento.
E infatti un grosso carro tirato da un bue sormontò la collina
di Mallard, appena a est. Era stato Renald stesso a darle quel
nome. Ogni collina che si rispetti ha bisogno di un nome. La
strada era chiamata strada di Mallard. Perciò perché non dare
lo stesso nome anche alla collina?
Si sporse in avanti sulla sedia, ignorando di proposito quelle
nuvole mentre strizzava gli occhi verso il carro, cercando di
distinguere il volto del carrettiere. Thulin? Il fabbro? Cosa stava
facendo, come poteva guidare un carro tanto carico da toccare
il cielo? Sarebbe dovuto essere al lavoro sul nuovo aratro
di Renald!
Anche se era snello per il mestiere che faceva, Thulin era comunque
muscoloso il doppio di qualunque bracciante. Aveva
i capelli scuri e la pelle abbronzata di uno Shienarese, e teneva
il volto rasato secondo la loro moda, ma non portava il
codino. La famiglia di Thulin poteva far risalire le proprie origini
fino ai guerrieri delle Marche di Confine, ma lui stesso era
solo un semplice campagnolo come il resto di loro. Gestiva la
fucina a Oak Water, cinque miglia a est. Renald aveva giocato
parecchie partite di sassolini con il fabbro durante le sere invernali.
Thulin stava invecchiando: non aveva visto tanti anni
quanto Renald, ma gli ultimi inverni lo avevano indotto ad accennare
al ritiro. Quello del fabbro non era un mestiere per
vecchi. Ovviamente non lo era nemmeno quello del coltivatore.
Chissà se esistevano dei mestieri per vecchi.
Il carro di Thulin si avvicinò per la strada in terra battuta,
giungendo presso il prato recintato di bianco di Renald. Questo
sì che è strano, pensò l’agricoltore. Dietro il carro procedeva
una fila ordinata di animali: cinque capre e due vacche da
latte. Stie di polli dalle penne nere erano legate all’esterno del
carro, mentre il pianale stesso era stracolmo di mobili, sacchi e
barili. La giovane figlia di Thulin, Mirala, sedeva a cassetta con
lui, accanto a sua moglie, una donna dai capelli dorati originaria
del Sud. Era sposata con Thulin da venticinque anni, ma Renald
pensava ancora a Gallanha come ‘quella ragazza del Sud’.
Su quel carro c’era l’intera famiglia, con i loro migliori animali
al seguito. Era ovvio che si stavano trasferendo. Ma dove?
In visita a dei parenti, forse? Lui e Thulin non giocavano
una partita a sassolini da… oh, ormai erano tre settimane. Non
era certo tempo di visite, con l’avvento della primavera e la
fretta della semina. Qualcuno avrebbe dovuto riparare gli aratri
e affilare le falci. Chi l’avrebbe fatto se la forgia di Thulin si
fosse raffreddata?
Renald infilò un pizzico di tabacco nella sua pipa mentre
Thulin arrestava il carro accanto alla sua proprietà. Il fabbro
snello e brizzolato porse le redini a sua figlia, poi scese dal carro,
con i piedi che sollevarono sbuffi di polvere nell’aria quando
colpirono il terreno. Dietro di lui la tempesta distante ribolliva
ancora.
Thulin aprì il cancello del recinto, poi si diresse verso il portico.
Pareva distratto. Renald aprì la bocca per salutarlo, ma fu
Thulin a parlare per primo.
«Ho seppellito la mia incudine migliore nel vecchio campo
di fragole di Gallanha, Renald» disse il fabbro. «Ti ricordi dov’è,
vero? Ci ho messo anche i miei attrezzi migliori. Sono ben
ingrassati e si trovano all’interno del mio forziere più resistente,
foderati per tenerli all’asciutto. Questo dovrebbe impedire
che si arrugginiscano. Per un po’, almeno.»
Renald chiuse la bocca, tenendo la sua pipa mezza piena.
Se Thulin stava seppellendo la sua incudine… be’, significava
che non aveva intenzione di tornare indietro per un bel po’.
«Thulin, cosa…»
«Se non torno,» disse Thulin, lanciando un’occhiata verso
nord «dissotterreresti le mie cose e faresti in modo di occupar-
tene? Vendile a qualcuno che ci tenga, Renald. Non vorrei che
fosse uno qualunque a battere su quell’incudine. Mi ci sono
voluti vent’anni per racimolare quegli attrezzi, sai?»
«Ma Thulin!» farfugliò Renald. «Dove stai andando?»
Thulin si voltò di nuovo verso di lui, appoggiando un braccio
sulla ringhiera del portico, con un’aria solenne negli occhi
castani. «C’è una tempesta in arrivo» disse. «Perciò ho pensato
che era meglio dirigermi a nord.»
«Una tempesta?» chiese Renald. «Quella all’orizzonte, intendi?
Thulin, pare brutta – ah, sì, che le mie ossa siano folgorate
– ma non ha senso scappare. Abbiamo avuto brutte tempeste
in precedenza.»
«Non come questa, vecchio amico» disse Thulin. «Questo
non è il genere di tempesta che si possa ignorare.»
«Thulin?» chiese Renald. «Di cosa stai parlando?»
Prima che lui potesse rispondere, Gallanha lo chiamò dal
carro. «Gli hai detto delle pentole?»
«Ah,» disse Thulin «Gallanha ha lucidato quelle pentole col
fondo di rame che a tua moglie sono sempre piaciute. Sono sul
tavolo in cucina che aspettano solo Auaine, se vuole andarle a
prendere.» Detto questo, Thulin fece un cenno col capo a Renald
e s’incamminò verso il carro.
Renald sedette stupefatto. Thulin era sempre stato un tipo
schietto: preferiva dire quello che gli passava per la testa, poi
andare avanti. Era parte di quello che a Renald piaceva di lui.
Ma il fabbro poteva anche passare attraverso una conversazione
come un macigno che rotolava in mezzo a un gregge di
pecore, lasciando chiunque sbalordito.
Renald balzò in piedi, lasciando la sua pipa sulla sedia e seguendo
Thulin attraverso il prato e poi fino al carro. Maledizione,
pensò Renald, guardando verso i lati e notando di
nuovo l’erba marrone e gli arbusti secchi. Aveva lavorato sodo
su quel prato.
Il fabbro stava controllando le stie dei polli legate ai fianchi
del suo mezzo. Renald lo raggiunse e allungò una mano verso
di lui, ma Gallanha lo distrasse.
«Ecco, Renald» disse dalla cassetta. «Prendi queste.» Gli
porse un cestino pieno di uova. Una ciocca di capelli dorati le
era sfuggita dalla crocchia. Renald allungò la mano per pren-
dere il cesto. «Dalle ad Auaine. So che siete a corto di galline
per via di quelle volpi dello scorso autunno.»
Renald prese il cestino di uova. Alcune erano bianche, altre
brune. «Sì, ma dove state andando, Gallanha?»
«A nord, amico mio» rispose Thulin. Superò Renald e gli
mise una mano sulla spalla. «Suppongo che verrà radunato
un esercito. Avranno bisogno di fabbri.»
«Per favore» disse Renald, facendo un gesto col canestro di
uova. «Almeno fermatevi qualche minuto. Auaine ha appena
infornato del pane, una di quelle grosse pagnotte al miele che
ti piacciono. Possiamo discuterne durante una partita a sassolini.»
Thulin esitò.
«Faremo meglio a muoverci» disse Gallanha in tono sommesso.
«Quella tempesta sta arrivando.»
Thulin annuì, poi salì sul carro. «Magari potresti venire a
nord anche tu, Renald. Se lo fai, portati tutto quello che puoi.»
Fece una pausa. «Te la cavi abbastanza con gli attrezzi da poter
fare qualche lavoretto, perciò prendi le tue due falci migliori
e convertile in alabarde. Le tue due falci migliori; non economizzare
con qualcosa che vada quasi bene o abbastanza
bene. Prendi le migliori, perché sono le armi che userete.»
Renald si accigliò. «Come sai che ci sarà un esercito? Thulin,
maledizione, non sono certo un soldato!»
Thulin proseguì come se non avesse udito quei commenti.
«Con un’alabarda puoi tirar giù qualcuno da cavallo e infilzarlo.
E, ora che ci penso, potresti prendere le falci meno buone e
farci un paio di spade.»
«E cosa ne so io sul fare una spada? O su come usarla, se è
per quello…»
«Puoi imparare» disse Thulin, voltandosi verso nord. «Saranno
tutti necessari, Renald. Tutti quanti. Stanno venendo
per noi.» Tornò a guardare Renald. «Una spada non è così difficile
da fare. Prendi la lama di una falce e la raddrizzi, poi ti
trovi un pezzo di legno che faccia da guardia, per impedire
che la lama del nemico scivoli giù e ti tagli la mano. Perlopiù
userai cose che hai già.»
Renald sbatté le palpebre. Smise di porre domande, ma
non poteva fare a meno di pensarle. Si ammucchiavano nella
sua testa come bestiame che cercava di passare a forza attraverso
un unico cancello.
«Porta tutto il tuo bestiame, Renald» disse Thulin. «Lo
mangerai – o lo mangeranno i tuoi uomini – e ti servirà il latte.
E comunque sia, ci saranno uomini con cui potrai commerciare
con manzo o montone. Il cibo scarseggerà, considerando
tutto quello che si sta guastando e le riserve invernali quasi
esaurite. Porta tutto quello che hai. Fagioli secchi, frutta secca,
tutto quanto.»
Renald si sporse all’indietro contro il cancello della sua proprietà.
Si sentiva debole e fiacco. Infine si costrinse a porre una
sola domanda. «Perché?»
Thulin esitò, poi si allontanò dal carro, appoggiando di
nuovo una mano sulla spalla di Renald. «Mi spiace essere così
brusco. Io… be’, tu sai come me la cavo con le parole, Renald.
Non so cosa sia quella tempesta. Ma so cosa significa. Non ho
mai tenuto in mano una spada, ma mio padre ha combattuto
nella guerra Aiel. Sono un uomo delle Marche di Confine. E
quella tempesta significa che la fine si avvicina, Renald. Dovremo
essere lì quando arriverà.» Si fermò, poi si voltò e guardò
a nord, osservando quelle nubi che si ammassavano come
un contadino poteva guardare un serpente velenoso trovato
nel mezzo di un campo. «Che la Luce ci preservi, amico mio.
Dovremo essere lì.»
E, detto questo, tolse la mano e montò di nuovo a cassetta.
Renald li osservò allontanarsi, pungolando il bue affinché si
muovesse, diretti a nord. Renald li guardò a lungo, provando
un senso di intontimento.
Il tuono schioccò in lontananza, come il rumore di una frustata,
riverberando contro le colline.
La porta della fattoria si aprì e si richiuse. Auaine uscì e venne
verso di lui, con i capelli grigi raccolti in una crocchia. Erano
così da parecchi anni, ormai; era ingrigita presto, e Renald
era sempre stato affezionato a quel colore. Argento, più che
grigio. Come le nubi.
«Quello era Thulin?» chiese Auaine, osservando il carro sollevare
polvere in lontananza. Un’unica penna di pollo nera veniva
sospinta dal vento lungo la strada.
«Sì.»
«E non si è fermato, nemmeno per una chiacchierata?»
Renald scosse il capo.
«Oh, ma Gallanha ha mandato le uova!» Auaine prese il cestino
e iniziò a trasferirle nel suo grembiule per portarle dentro.
«È così cara. Lascia il cestino lì per terra: sono certa che
manderà qualcuno a prenderlo.»
Renald si limitò a fissare verso nord.
«Renald?» chiese Auaine. «Cosa ti è preso, vecchio ceppo?»
«Ha lucidato le sue pentole per te» disse lui. «Quelle col fondo
in rame. Sono sul tavolo della sua cucina. Sono tue, se le
vuoi.»
Auaine rimase in silenzio. Poi lui udì un netto rumore di
qualcosa che si rompeva e si guardò indietro. Lei aveva lasciato
afflosciare il grembiule e delle uova stavano scivolando giù,
cadendo a terra con un tonfo e rompendosi.
Con voce molto calma, Auaine chiese: «Ha detto nient’altro?»
Lui si grattò la testa, su cui in realtà non restavano molti capelli.
«Ha detto che la tempesta stava arrivando e che dovevano
dirigersi a nord. Thulin ha detto che dovremmo andare anche
noi.»
Rimasero immobili per un altro momento. Auaine tirò su il
bordo del suo grembiule, conservando la maggior parte delle
uova. Non degnò di un’occhiata quelle che erano cadute. Il
suo sguardo era fisso verso nord.
Renald si voltò. La tempesta aveva fatto un nuovo balzo in
avanti. E pareva essere diventata in qualche modo più scura.
«Penso che dovremmo dar loro ascolto, Renald» disse
Auaine. «Io… io andrò a preparare quello che ci occorrerà portare
con noi dalla casa. Tu puoi andare a radunare gli uomini.
Hanno detto per quanto staremo via?»
«No» rispose lui. «Non hanno nemmeno detto davvero
perché. Solo che dobbiamo andare a nord per la tempesta. E…
che questa è la fine.»
Auaine trasse un brusco respiro. «Bene, tu pensa a far preparare
gli uomini. Io mi prenderò cura della casa.»
Si precipitò dentro, e Renald si costrinse a distogliere lo
sguardo dalla tempesta. Girò attorno alla casa ed entrò nell’aia,
chiamando a raccolta i braccianti. Era gente robusta, bravi
uomini, tutti quanti. I suoi figli avevano cercato fortuna al-
trove, ma i suoi sei lavoratori per lui erano quasi come figli.
Merk, Favidan, Rinnin, Veshir e A’damad si radunarono attorno
a lui. Sentendosi ancora intontito, Renald mandò due di loro
a riunire gli animali, altri due a imballare grano e provviste
che avevano lasciato per l’inverno e l’ultimo uomo ad andare
a prendere Geleni, che era andato al villaggio per dei semi
nuovi, nel caso in cui la semina fosse andata male rispetto alle
loro scorte.
I cinque uomini si sparpagliarono. Renald rimase lì nell’aia
per un momento, poi andò nel granaio per prendere la sua
forgia leggera e portarla alla luce. Non era solo un’incudine,
ma una forgia completa e compatta, fatta per essere trasportata.
L’aveva montata su ruote: non si poteva lavorare a una
forgia dentro un granaio. Tutta quella polvere poteva prendere
fuoco. Sollevò i manici, portandola fuori nell’angolo apposito
a lato dell’aia, costruito con solidi mattoni, dove poteva effettuare
piccole riparazioni quando necessario.
Un’ora più tardi aveva attizzato il fuoco. Non era esperto
come Thulin, ma aveva appreso da suo padre che essere capace
di lavorare un poco i metalli faceva una grossa differenza.
Avolte non si potevano sprecare ore per andare e tornare
dalla città solo per aggiustare un cardine rotto.
Le nubi erano ancora lì. Cercò di non guardarle mentre lasciava
la forgia e si dirigeva nel granaio. Quelle nubi erano come
occhi, che sbirciavano da sopra la sua spalla.
Dentro il granaio la luce filtrava attraverso crepe sulla parete,
cadendo su polvere e fieno. Aveva costruito lui stesso quella
struttura, circa venticinque anni prima. Continuava ad avere
intenzione di rimpiazzare alcune di quelle travi del tetto
incurvate, ma ora non ci sarebbe stato tempo.
Giunto alla parete degli attrezzi, allungò una mano verso la
sua terza miglior falce, poi si fermò. Trasse un profondo respiro
e prese invece dal muro la migliore. Tornò fuori alla forgia
e le tolse l’impugnatura.
Mentre gettava da parte il legno, Veshir – il più anziano dei
suoi braccianti – si avvicinò tirando un paio di capre. Quando
Veshir vide la lama della falce sulla forgia, la sua espressione
si rabbuiò. Legò le capre a un palo, poi si diresse verso Renald,
ma non disse nulla.
Come fare un’alabarda? Thulin aveva detto che erano buone
per strattonare un uomo giù da cavallo. Bene, avrebbe dovuto
rimpiazzare il lungo manico ricurvo con un’impugnatura
dritta e più lunga di legno di frassino. L’estremità flangiata
del manico si sarebbe estesa oltre la parte terminale della lama,
foggiata in una punta grezza e rivestita di un pezzo di stagno
per una maggiore forza. E poi avrebbe dovuto riscaldare
la lama e percuotere la punta fino a mezza strada, formando
un gancio che avrebbe potuto strattonare un uomo giù da cavallo
e forse ferirlo allo stesso tempo. Fece scivolare la lama in
mezzo alle braci ardenti per arroventarla, poi iniziò ad allacciarsi
il grembiule.
Veshir rimase lì per un minuto circa, a osservare. Infine si
fece avanti, prendendo Renald per il braccio. «Renald, cosa
stiamo facendo?»
Renald si liberò dalla sua stretta. «Andiamo a nord. La tempesta
sta arrivando e noi andiamo a nord.»
«Andiamo a nord solo per una tempesta? Ma è follia!»
Era quasi la stessa cosa che Renald aveva detto a Thulin. Un
tuono risuonò in lontananza.
Thulin aveva ragione. I raccolti… i cieli… il cibo che si guastava
senza preavviso. Renald lo sapeva perfino prima di aver
parlato con Thulin. Dentro di sé lo sapeva. Questa tempesta
non sarebbe passata sopra le loro teste per poi svanire. Doveva
essere affrontata.
«Veshir,» disse Renald, tornando al suo lavoro «sei un bracciante
in questa fattoria da… quanto, quindici anni, ormai? Sei
il primo uomo che ho assunto. Ho sempre trattato bene te e gli
altri, non è così?»
«Mi hai trattato bene» disse Veshir. «Ma, che io sia folgorato,
Renald, non hai mai deciso di abbandonare la fattoria prima
d’ora! Questi raccolti si ridurranno in polvere se li lasciamo.
Questa non è un’umida fattoria del Sud. Come possiamo andarcene
così?»
«Possiamo,» rispose Renald «perché se non ce ne andiamo,
non avrà importanza se avremo seminato o meno.»
Veshir si accigliò.
«Figliolo,» disse Renald «tu farai come dico io, e questo è
quanto. Va’a terminare di radunare il bestiame.»
Veshir si allontanò a grandi passi, ma fece come gli veniva
detto. Era un brav’uomo, anche se era una testa calda.
Renald tirò fuori la lama dalle braci. Il metallo era ora incandescente.
La appoggiò contro la piccola incudine e iniziò
a percuotere la sezione bitorzoluta dove l’angolo inferiore della
lama incontrava la barba, appiattendola. Il rumore del martello
sul metallo pareva più forte del normale. Riverberava come
il fragore del tuono, e i suoni si fusero. Come se ogni colpo
del suo martello fosse esso stesso parte della tempesta.
Mentre lavorava, quei rintocchi sembrarono formare delle
parole. Come se qualcuno stesse borbottando in fondo alla
sua testa. La stessa frase, più e più volte.
La tempesta sta arrivando. La tempesta sta arrivando…Continuò a martellare, mantenendo il filo sulla falce, ma
raddrizzando la lama e formando un uncino alla fine. Ancora
non sapeva perché. Ma non aveva importanza.
La tempesta stava arrivando e lui doveva essere pronto.
Mentre osservava i soldati con le gambe incurvate che legavano
su una sella il corpo di Tanera avvolto in una coperta, Falendre
si oppose all’istinto di ricominciare a piangere e al desiderio
di vomitare. Era la più anziana e doveva mantenere un
minimo di compostezza se si aspettava che lo facessero anche
le altre quattro sul’dam sopravvissute. Cercò di dirsi che aveva
visto di peggio, battaglie in cui era morta più di una sola
sul’dam, più di una sola damane. Le riportò alla memoria il
modo esatto in cui Tanera e la sua Miri avevano incontrato il
loro destino, però, e la sua mente si ritrasse da quel pensiero.
Rannicchiata al suo fianco, Nenci piagnucolò mentre Falendre
accarezzava la testa della damane e cercava di inviare sensazioni
calmanti attraverso l’a’dam. Quello pareva funzionare
spesso, ma oggi non così bene. Le sue stesse emozioni erano
troppo in subbuglio. Se solo avesse potuto dimenticare che la
damane era stata schermata, e da chi. Da cosa. Nenci piagnucolò
di nuovo.
«Consegnerai il messaggio come ti ho ordinato?» disse un
uomo dietro di lei.
No, non un uomo qualunque. Il suono della sua voce agitò
la pozza di succhi gastrici che Falendre aveva nello stomaco. Si
costrinse a voltarsi per guardarlo, si obbligò a incontrare quegli
occhi freddi e duri. Cambiavano a seconda dell’angolazione
della sua testa, ora azzurri, ora grigi, ma erano sempre come
gemme lucenti. Falendre aveva conosciuto molti uomini
duri, ma ne aveva mai incontrato uno che lo era a tal punto da
perdere una mano e solo pochi istanti dopo comportarsi come
se avesse perso un guanto? Si inchinò in modo formale, dando
uno strattone all’a’dam cosicché Nenci facesse lo stesso. Finora
erano state trattate bene, per essere delle prigioniere in
quelle circostanze: era stata data loro perfino acqua per lavarsi
e, a quanto pareva, non sarebbero rimaste prigioniere a lungo.
Eppure chi era in grado di dire cosa poteva far cambiare
quella situazione, con quest’uomo? La promessa di libertà poteva
far parte di un qualche piano.
«Consegnerò il tuo messaggio con la cura che richiede»
esordì Falendre, poi esitò. Quale onorifico aveva usato lei?
«Mio lord Drago» si affrettò a concludere. Le parole le seccarono
la lingua, ma lui annuì, perciò doveva essere bastato.
Una delle marath’damane apparve attraverso quell’impossibile
buco nell’aria. Portava tanti gioielli quanto un membro
del Sangue e, addirittura, un puntino rosso nel mezzo della
fronte. «Per quanto hai intenzione di rimanere qui, Rand?» domandò,
come se quell’uomo dagli occhi duri fosse un servo,
piuttosto che ciò che era. «Quanto siamo vicini a Ebou Dar?
Questo posto pullula di Seanchan, sai, e probabilmente fanno
volare dei raken tutt’attorno.»
«Ti ha mandato Cadsuane a chiedermelo?» disse lui, e le
guance della donna si imporporarono un poco. «Non resteremo
ancora molto, Nynaeve. Qualche minuto.»
La giovane donna spostò lo sguardo verso le altre sul’dam
e damane, che prendevano tutte ordini da Falendre, fingendo
che non ci fossero marath’damane a sorvegliarle e specialmente
non uomini con giubbe nere. Le altre si erano rimesse in ordine
meglio che potevano. Surya aveva lavato via il sangue dal
proprio volto e da quello della sua Tabi, e Malian le aveva fasciate
con lunghi rotoli di garza tanto che sembrava che indossassero
dei bizzarri cappelli. Ciar era riuscita a ripulire buona
parte del vomito che aveva sporcato la parte anteriore del suo abito.

Fanucci Editore tutti i diritti riservati.
“Presagi di tempesta”, R. Jordan – B. Sanderson, collana Collezione Fantasy, Fanucci Editore, Roma, 2011, 944 pp, 25 euro.

Gennaio ricco di Novità Editoriali

Giulia Siena
Roma – Tantissime le novità editoriali del nuovo anno; infatti, il 2011 si presenta come una stagione ricca di romanzi, guide, saggi e letture per bambini. ChronicaLibri ha scelto le ultime pubblicazioni di alcune interessanti case editrici.
 Aliberti (Roma) pubblica il libro-inchiesta “Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania” di Leonardo Facco. Falzea (Reggio Calabria – Bologna) porta in libreria “In fondo ai suoi occhi” di Roberto Bonfanti e “Stai come vuoi. Manuale di equilibrio emotivo” di Claudio Maffei.
La casa editrice Zero91 (Milano) ci segnala tra le novità di questo gennaio 2011″Quasi innocenti” di Marin Ledun. Astraea (Bologna) inserisce “Lingerie. Piccola guida all’abbigliamento della seduzione” di Francesca Tripodi nella collana “Pink Book”.

Fanucci (Roma) presenta “I figli di Abramo” il nuovo thriller targato Robert Littell, “La città sostituta” dalla visione magica di Philip K. Dick e per i ragazzi “Radiance” una nuova e commovente storia di Alyson Noel. Da Pendragon (Bologna) è in libreria da qualche settimana il romanzo “Il rotolo di tela” di Alba Piolanti e le nuovissime guide “Roma senza vie di mezzo” di Achille Corea e “Milano senza vie di mezzo” di Paolo Melissi. :duepunti edizioni (Palermo) pubblica”L’invenzione della cultura eterosessuale” di Louis-Georges Tin. Le letture tutte dedicate ai bambini sono: “Quel ramo del lago di Como… La storia dei Promessi Sposi” di Ermanno Detti e le illustrazioni di A. Ferrara pubblicato dalle Nuove Edizioni Romane (Roma); la “La casa sull’altura” – in libreria dal 26 gennaio – di Nino De Vita con illustrazioni di S. Massi edito da Orecchio Acerbo (Roma) e l’ultimo libro di Emanuela Nava e Desideria Guicciardini pubblicato dalla Lapis (Roma),”Il mio ciuccio per te”.


 

"assaggenda duemilaundici": da Sinnos l’agenda più gustosa che c’è

Giulia Siena
ROMA “E poi… leggere è contagioso. Contagio pericoloso per chi ci vuole tristi e apatici, ma straordinario virus di energia, passione ed intelligenza per chi vuole vivere la vita. Per questo vi auguriamo che il 2011 sia un contagiosissimo anno di libri e letture”. Questo è l’augurio della Sinnos editrice per le nuovissime pubblicazioni che accompagneranno il lettore per tutti i giorni dell’anno: l’ Assaggenda duemilaundici e il Calendario Interculturale. L’invito della casa editrice romana è quello di riscoprire il piacere del conoscersi e del festeggiare attraverso i sapori della tradizione, il gusto della scoperta culinaria e il viaggio attraverso il cibo.
Infatti, l’Assaggenda – nata da un’idea di Antonio Spinelli, illustrata da Monica Auriemma e con le ricette e le parole di Anna Colarossi – è una pratica agenda che si può portare facilmente dalla cucina all’ufficio, dall’università al supermercato, accompagnando qualsiasi nostro viaggio. Quest’anno l’assaggenda è dedicata alle minestre e tutti gli antichi sapori che gravitano attorno a questo piatto tanto sano quanto semplice: 365 giorni per scoprire gli ingredienti, i segreti e i luoghi delle minestre del mondo. Ogni terra ha una sua storia, ogni luogo ha i suoi ingredienti e tutti andrebbero esplorati, per questo l’assaggenda offre ricette e storie di posti lontani, facili da raggiungere grazie a un cucchiaio di buona minestra!
L’Assaggenda duemilaundici potrebbe essere il regalo che state cercando!

Oggi leggi anche la ricetta a tema di ‘Chronache Culinarie’, solo su Chronica

Novità Editoriali

ROMA – Sono tante le novità di questo novembre 2010! In questi giorni le case editrici di tutta Italia non solo si preparano a uno degli appuntamenti più importanti in campo editoriale (Più Libri Più Liberi a Roma dal 4 all’8 dicembre), ma presentano anche tante nuove uscite per l’autunno.
In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre), Mursia pubblica “Io e le spose di Barbablù” di Ada Celico, un diario/testimonianza di una donna ora cinquantenne che in mezzo alle violenze – domestiche – ci è passata davvero.
 La storia di Amanda è la storia di una Donna Maltrattata che ce l’ha fatta, che ha detto no a un marito violento e crudele e se ne è andata con una valigia piena di libri per iniziare un lungo viaggio che, in realtà, assomiglia a un esilio. Proprio come quello iniziato cinque anni fa da Ada Celico quando ha abbandonato Cosenza ed è arrivata a Milano dove ora si dedica alle Donne Maltrattate dando voce anche a quelle che non ce l’hanno fatta. In occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, Mursia pubblica, nella collana Inchiostri, “Garibaldi in Sicilia”, il lungo reportage pubblicato a puntate nel 1960 su “Il Giorno” di Gian Carlo Fusco (La Spezia 1915-Roma 1984). Con il suo stile sapido, ricco di umori, ironico, anche affettuoso, il grande giornalista rievocava, esattamente un secolo dopo, le camicie rosse, Garibaldi, i picciotti alle prese con la più straordinaria impresa del nostro Risorgimento. E sin dalle prime battute, metteva sapientemente a fuoco clima e spirito che animarono i volontari accorsi all’appello del Generale.
Le Edizioni Ambiente presentano “Nucleare: a chi conviene?” di Gianni Mattioli e Massimo Scalia, con l’introduzione di Gianni Silvestrini. I temi ambientali sono centrali in questa inchiesta: Non serve a contrastare il riscaldamento globale, non ci rende indipendenti dal petrolio, è rischioso e costa molto di più delle fonti rinnovabili: perché tornare al nucleare? Un’analisi precisa e aggiornata delle tecnologie che ci mette in guardia sulle false promesse del nucleare e fa chiarezza sui rischi e sui crescenti costi di costruzione degli impianti e di smaltimento delle scorie.
In occasione dell’uscita al cinema del film The Killer inside me, prevista per il 26 novembre 2010, Fanucci editore propone una nuova edizione del romanzo di Jim Thompson, capolavoro del genere noir: “L’assassino che è in me” esplora l’inferno privato di uno psicopatico attraverso una narrazione audace e innovativa. Un’impietosa corsa verso il disastro e il fallimento, che non lascia spazio a nessuna speranza o futuro possibile.
Novità in audiolibro da Emonsaudiolibri è la versione integrale “Madame Bovary” di Gustave Flaubert letta da Alessandra Bedino.
L’Editoriale Magenes propone “Dormire in un faro” (di F. Cosi, A. Repossi, F. Soldavini), la Guida alle vacanze nei fari più belli del mondo.
Ennepilibri segnala l’uscita de Il monumento all’arco nei trionfi dell’antica Roma. Un saggio sull’architettare” (collana “Grandi temi dell’architettura”) scritto da Rinangelo Paglieri e Nadia Pazzini.

“CorpoOtto. Scelte di carattere”: la vita scritta e disegnata di Franco Bevilacqua

Marco Di Luzio
ROMA –  Raccontare una vita, la propria vita, non è mai un’impresa facile. Ci sarebbero milioni di fatti, milioni di aneddoti, esperienze, emozioni che si vorrebbero scrivere e che si vorrebbe far conoscere. Se non bastasse già di per se, l’arduo compito di selezionare i ricordi, ci si aggiunge anche il problema, affatto trascurabile, di correre il rischio di annoiare il lettore; concentrandosi troppo su un periodo particolare della vita o spendendo parole eccessive per esprimere un pensiero che sembra bellissimo ma che magari, chi legge, trova quanto mai logorroico.
Non sappiamo se Franco Bevilacqua si sia posto o meno tutte queste domande mentre componeva il suo “CorpoOtto: scelte di carattere”, pubblicato dalla casa editrice Ponte Sisto, ma sappiamo di certo che il suo libro scorre. E nello scorrere, piace. E’ una biografia, pura e semplice. Bevilacqua nasce a Roma nel 1937 e dunque i suoi primi ricordi sono inevitabilmente legati alla Grande Guerra, vista dagli occhi di un bambino e chiusa nel piccolo mondo di una Roma non più “città aperta” ma preda degli umori dei nazisti. Crescendo, la passione giovanile per lo sport, si trasforma in amore per la carta stampata e successivamente per la grafica: “Passavo per Piazza Colonna e Via del Tritone, e dalle finestre aperte al pianterreno dei palazzi del Tempo e del Messaggero, rimanevo estasiato ad ascoltare il ticchettio della linotipe, le enormi macchine da scrivere che producevano, con la fusione del piombo, le righe tipografiche, a respirare l’aria pregna dell’odore dei solventi e degli inchiostri“.

Una vita professionale in continuo movimento, non alla ricerca di un posto sicuro o di uno stipendio invitante ma a caccia di nuove sfide, sondando terreni spesso inesplorati  e sperimentando anche a rischio di pagarne sulla propria pelle lo scotto. “Paese Sera”, “La Repubblica” (di cui è uno dei fondatori), “L’Europeo”, “L’Espresso” ecc… sono solo alcuni dei grandi giornali con il quale lavorerà, collaborerà e darà il proprio contributo alla ristrutturazione grafica e al rilancio sul mercato. Il “colpo” della carriera lo darà la geniale campagna pubblicitaria ideata per il lancio della Fiat Uno, realizzata con Guido Vanzetti e Giorgio Forattini: “Così il primo bozzetto che mostrammo fu un punto esclamativo su un’intera pagina di quotidiano. Poi il punto esclamativo, a tutta altezza, su due colonne, infine il logo Uno seguito dal punto esclamativo“. La campagna pubblicitaria sarà un successo, come un successo si è rivelato quasi tutto quello a cui Bevilacqua ha lavorato. Eppure, il libro non è un’autocelebrazione di se stesso ma un racconto ironico e a volte anche critico, su come un uomo semplice, senza dover dire grazie a nessuno e sempre fedele ai propri principi, sia riuscito nel compito più difficile che un uomo possa avere: realizzare i propri sogni.