ROMA – Quando una scrittrice ti regala due pagine del suo nuovo libro non puoi non essere felice. Felice perché la scrittrice in questione è Veruska Armonioso, autrice di VerbErrando. Veruska, che da qualche mese ci fa vivere nelle storie di altri autori o altre città, questa volta ci fa entrare nella sua storia, tra le sue righe. Nella settimana della 25esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino c’è un nuovo libro che sta prendendo vita sotto i tuoi occhi: Accadde così che imparai a nuotare con le sirene.
Veruska Armonioso regala a VerbErrando, a ChronicaLibri, le prime pagine del suo nuovo e atteso romanzo; una storia che comincia con una leggerezza fatta di ricordi, di attese e di parole.
Accadde così che imparai a nuotare con le sirene
di Veruska Armonioso
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I pensieri da bene, le elegie sulla costanza, sulle fedeltà… niente di quel che l’etica razionale sceglie è ineludibile… l’uomo… imbocco tabacco… voglio sentire che sapore ha un uomo… del tipo decadente o bukowskiano, un uomo che va a puttane o che legge un libro. Come donna mi auspicherei di morire giovane, conoscere la miseria e imparare a masticare tabacco.
Nacqui a sei anni con la memoria già pronta e con una voglia diluviante di essere Tersicore… Rita Hayworth in Down to Earth, avrei dato la mia mano destra per un suo piede sinistro… danzare, sfogliare… petali, pagine, ciglia… geografie anatomiche, alloggiamenti di fortuna… uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi.
Passavo giornate a fantasticare su moti di rivoluzione, opponevo la mia immaginazione ai provvedimenti draconiani delle suore che proprio non ci stavano a lasciare un bimbo in mano alla sua fantasia. Amavo fabbricare… fabbricai, avevo sei anni appunto, una barca di stecchini… ci misi tanto, da Natale a prima della fine dalla scuola. Poi le diedi fuoco. Mio padre pensò fossi piromane e chiamò subito il dottore. Volevo attirare l’attenzione, disse… così mi portarono per tutto il mese di giugno al lago… ogni sabato e ogni domenica, compleanno incluso. Mio padre mi aiutò a costruire un’altra barca con gli stecchini e poi mi invitarono a metterla in acqua. Solo che il lago non è come il mare, dal lago non si esce… le diedi fuoco, Anna gridò e smisero di portarmi al lago. Io volevo solo far salpare la mia barca di legno…
Norma era la casa di Polifemo… all’entrata del paese c’era un grande cartello con la sua icona… ci passavo tutti i mesi di agosto (questo lo so anche se non me lo ricordo). A Norma c’erano tanti pezzi… pezzi di sassi, pezzi grotte, pezzi di epica… quando i miei andavano a riposare, io correvo su per la collina e andavo a guardare i pozzi. Se esiste il pozzo c’è anche un secchio… solo che quei pozzi non avevano più acqua, così non c’erano i secchi. Io cantavo dentro al pozzo. Salivo su un vecchio cassetto di legna e cantavo. Cantavo bugie… e poi raccoglievo le bugie da terra e ci soffiavo sopra… sì… quei fiori che si rompono al primo soffio… distese di bugie attorno a pozzi senza secchi e me, a gridare bugie dagli echi fondi. Mi guardavo intorno… prato e pezzi di pietra. Immaginavo che Polifemo doveva proprio sentirsi solo, così alto e senza un occhio. Chi lo avrebbe amato se non io?… fingevo di essere la sua innamorata che lo aspettava e danzava per lui… ero Tersicore che danzava per il suo gigante. E poi il profumo del mare che arrivava a folate discontinue. Il mare era lì, all’orizzonte, e io danzavo, danzavo… danzavo… i pensieri arrivavano a mazzi, a grappoli… le suggestioni poi… ah, le suggestioni… che ricordo penetrante… un ricordo che sbaglia sempre i tempi… arriva, ti esplode tra le gambe, il freddo nella pancia, i brividi sul petto… se non fosse mai tornato?
L’anno dopo, a scuola, ci dissero che la terra dei Ciclopi era la Sicilia. Polifemo non era mai stato a Norma …smisi di cantare e rimasi seduta un’estate intera ad aspettare. Non sarebbe più tornato…non c’era mai stato, eppure io lo sentivo…avere le risposte, accoppiarle alle domande o starsene in silenzio dimenticando? Uscire da una conchiglia nuda di me, vestita di capelli rossi, lunghi, ondosi…
Cominciai a suonare per dimenticarlo… era a scuola, un gigante nero… feci la sua conoscenza passando le dita sulle listarelle nere, sempre le nere… suonava di me più una nera che tutte le bianche messe insieme…restavo in piedi dapprima, tiravo la linguetta che avevo scoperto essere una specie di regolatore di volume dal nome sordina… le carezze a punta di dita lì non funzionavano, se lo volevo sentir parlare dovevo pigiare… imparai a pigiare… poi a sedere… poi a non tirare più la linguetta e me ne innamorai.
Ci si innamora spesso per dimenticare un amore finito o un amore perso… fu l’unico amante che non tradii… così lui tradì me. Da un polpastrello esce più sangue di quanto non si pensi…