ROMA – “Striscerai sul ventre e mangerai la polvere per tutti i giorni della tua vita”.
Dopo il fallimento della congiura contro il Grande Padre, gli angeli colpevoli del complotto sono stati puniti crudelmente e scaraventati nell’Abisso. In “Eden” il desiderio di libertà di un intero popolo finisce per essere ‘schiacciato’ dall’implacabile furia di Yahweh. Umiliati ed esiliati per sempre, il destino dei sopravvissuti sembra ormai essere quello di strisciare fra i cadaveri sino alla totale estinzione. E’ con questo scenario che si apre “Ad Lucem” il nuovo audace romanzo di Alessandro Cortese, edito da ARPANet. Per Lucifero ha inizio un lungo e doloroso viaggio alla scoperta dei profondi meandri dell’oscurità. L’angelo ribelle, colui che sfidò il Monarca Supremo, diventa il punto di riferimento di tutti coloro che hanno sperato nella libertà, ma che adesso sono costretti a vivere nel baratro, vessati da infinite sofferenze. Il desiderio di riscatto e la vendetta, guideranno il Custode del Lume alla ricerca di nuovi alleati per costruire la “Città del Fuoco”: Ade. Nuovi interrogativi e sconvolgenti rivelazioni porteranno i protagonisti di “Ad Lucem” alla scoperta della verità. Arpie, grifoni, ciclopi, chimere seguiranno l’Angelo nel suo progetto di risalita al regno del Grande Padre. In “Eden” Lucifero aveva amato Eva fino alla rovina, adesso l’entrata in scena di Lillith – la creatura ribelle creata dalla polvere esattamente come Adamo – stravolge completamente quel sentimento che lo aveva totalmente annichilito. Dopo la terribile punizione divina, il Signore degli Inferi “non avrebbe permesso all’amore di fare altro danno” e soprattutto non avrebbe più permesso al Despota di sfruttare le sue debolezze.
Misticismo, esoterismo, antiche leggende, contribuiscono a conferire un tono di estrema solennità a tutto il romanzo. L’eterna battaglia fra il bene e il male sembra ormai essere il ‘leit motiv’ che anima la narrativa di Alessandro Cortese. Ancora una volta, nulla è lasciato al caso, ma ogni elemento contribuisce ad arricchire l’intreccio. La stessa struttura del libro, diviso in prologo e cinque parti: “Ministero nell’Abisso”, “Adunanza”, “Lo Schema”, “L’arte della Guerra” e “Le regole del gioco”, ne è un chiaro esempio.
Ancora una volta, Cortese spinge il lettore a interrogarsi sulla “Creazione dell’Universo”, sulla vera natura del Supremo e sulla Sua reale bontà divina.
Categoria: novità
“L’estate di Camerina”: una sconvolgente normalità
ROMA – Mancanza di certezze, personaggi tormentati o trepidanti, storie destinate a non avere un epilogo. Sono questi i tratti principali de “L’estate di Camerina”, suggestiva raccolta di racconti di Mauro Tomassoli (Avagliano Editore).
Partendo da situazioni quotidiane, talvolta persino banali, l’autore, con una narrazione incalzante e mai scontata, ci trasporta su un terreno insidioso e inafferrabile, quello delle emozioni. La gioia per un’amicizia ritrovata, il timore di un gesto violento, l’inquietudine e la curiosità suscitate da tutto ciò che non si conosce. Ci sono emozioni che sfuggono spesso al controllo soprattutto quando, nella vita, irrompe l’imprevedibile, quel qualcosa di inatteso capace di sconvolgere ogni piano. Uno spavento notturno, coincidenze e presentimenti inspiegabili, una meta che sembra a portata di mano, eppure continua a essere irraggiungibile.
Tutte le situazioni descritte nei nove racconti lasciano presagire una svolta. Ed è proprio di fronte a questa possibilità che le reazioni umane si rivelano estremamente eterogenee. A volte prevale la razionalità, altre l’istinto di sopravvivenza, altre ancora il desiderio di riconciliarsi con il passato o di condividere un segreto.
Si cerca di usare la testa, ma spesso si finisce per fare i conti con pulsioni e istinti incontrollabili che riescono, a poco a poco, a insinuarsi nella mente, facendo vacillare anche le più ferree convinzioni. Capita, così, che alcuni si lascino trasportare, attratti dall’idea di rendersi protagonisti, di misurarsi con una sfida impossibile, altri invece preferiscano abbandonarsi al corso degli eventi, rassegnandosi a un ruolo di spettatori.
E poi c’è la paura, quell’emozione che può confondere e rendere impotenti tanto da prospettare una sola via d’uscita: “invertire la marcia e scappare”.
Il Vaticano, protagonista indiscusso tra fantasia e realtà.
Marianna Abbate
ROMA – Di libri sui segreti complotti del Vaticano ne sono stati scritti molti. Alcuni sono esageratamente fantasiosi, altri inquietanti. E poi c’è “Il curatore segreto del Vaticano” di Umberto Vitiello, pubblicato da qualche settimana da Lupo Editore.
Il romanzo immagina un futuro vicino, dove la Chiesa sta cercando di riorganizzarsi, lottando contro le impurità interne nell’intento di ritornare alle origini del cristianesimo. Trama abbastanza ingenua e irreale, se non fosse che l’attualità sembrerebbe quasi dare ragione all’immaginazione dell’autore. Per Vitiello la trasformazione dovrà avvenire durante un segretissimo concilio, da svolgersi in un luogo misterioso e isolato come una tranquilla abbazia montana. Ovviamente la pacifica location è tutt’altro che sicura, a tratti ricorda moltissimo l’impervio monastero del “Nome della rosa”, e diventa subito dalle prime pagine teatro di un terribile omicidio su un aspirante monaco dalla storia complicata e dal passato sospetto.
Grazie all’aiuto di uno dei monaci che abitano l’abbazia, che per caso era dottore in economia, si risolvono e vengono svelati i terrificanti segreti della banca vaticana.
Il libro è interessante dal punto di vista della costruzione, tuttavia devo ammettere che a volte l’innegabile erudizione dell’autore rallenta un poco la trama: forse è questo il punto debole del romanzo. Tuttavia tutte le fila sembrano ricongiungersi in maniera abbastanza nitida, e questo è sicuramente un punto a favore dell’esperienza di Vitiello.
Più che un vero e proprio thriller, nonostante gli ingredienti fondamentali siano mistero, omicidio e deduzioni, si tratta di un romanzo suspense con una strizzata d’occhio alla storia e, inaspettatamente, all’attualità.
Il pericoloso “circo” della Truffa
Luigi Scarcelli
Parma – Alzi la mano chi, alla parola truffa, non pensa alla scena del film TOTO’TRUFFA ’62 in cui il celebre attore napoletano tenta di vendere ad uno sprovveduto turista italoamericano la Fontana di Trevi. Un modo comico di rappresentare un reato molto presente nella nostra società, forse perché è una distorsione dell’arte di arrangiarsi di cui noi italiani siamo maestri.
Lo scrittore Giuseppe D’Alessandro, avvocato esperto prevalentemente di materia penale e responsabilità professionale, ha voluto riprendere lo stesso tono ironico di quel film per raccontare il mondo della truffa nostrana nel libro “Truffe, truffati e truffatori”, pubblicato da Angelo Colla Editore.
Il libro è diviso in capitoli a seconda del tipo di truffa trattato (immobiliare, di gioco, a sfondo sessule…) permettendo al lettore di iniziare la letture in maniera “arbitraria” dal capitolo contente l’argomento più di suo interesse.
Ogni truffa viene descritta tramite una lunga serie di casi reali presi da sentenze o dalle cronache giornalistiche. La scrittura è volutamente ironica e affronta in tono leggero, ma comunque informativo, un problema molto presente nella società moderna. Gli esempi descritti, come detto, sono molti e forse in qualche punto l’autore avrebbe potuto soffermarsi in maniera più dettagliata su un numero minore di casi in modo da dare più “respiro” alla lettura. Il risultato comunque è molto buono dato che la scelta stilistica si sposa bene al tema della truffa che di per se è tragicomico.
Quello che scaturisce dal libro è un mondo fatto di astuzie, ingenuità, malizia e soprattutto furbizia, anzi mi si passi il termine “furbettizia” riferendomi a quel tipo di furbetti tanto di moda nel nostro Paese che cercano in maniera scorretta o sleale di aggirare ostacoli di qualsiasi tipo allo scopo di trarne un vantaggio personale. Il bello è che i furbetti non sono solo i truffatori, ma anche i truffati stessi, che abboccano a promesse di facili “guadagni” di qualsiasi tipo rimanendo vittime della loro stessa ingordigia da finti “dritti”.
L’autore descrive prevalentemente casi dell’epoca recente, soffermandosi anche in paragoni con sentenze per truffa dell’inizio del secolo scorso. Il lettore potrà notare la palese differenza di gravità tra quelle che erano considerate (e punite come tali) le truffe negli anni ’30 (ad esempio il caso di una persona condannata nel 1933 per il “riutilizzo” di una busta per lettere affrancata) e quelle di oggi. Se ciò sia dovuto ad un profondo cambiamento della nostra mentalità e del nostro stile di vita (magari più egoistico e smaliziato) o solo al diverso sistema giuridico dell’Italia di allora (ricordiamo che si parla dell’Italia Fascista) può essere un ulteriore spunto di riflessione per il lettore di questo libro, che non mancherà di far riflettere sorridendo.
Uri Orlev, avere 13 anni nel campo di concentramento
Marianna Abbate
ROMA – Avere tredici anni è di per sé abbastanza complicato. Viviamo le nostre tragedie personali: ai maschi cambia la voce e le femmine cambiano significato. Avere tredici anni è un po’ una maledizione: pensiamo di sapere già tutto, ma nessuno ci crede.
Avere tredici anni ed essere un poeta è terribile. Gli amici ci prendono in giro, i grandi ci guardano con quell’indulgenza che odiamo.
Trovarsi in un campo di concentramento è inspiegabile al profano. Il campo è un posto fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Non è solo una prigione per il corpo: il campo è un ladro di anime. Il campo ci trasforma, ci rende mostri ai nostri stessi occhi.
Tredici anni e il campo di concentramento non sono due cose che vanno d’accordo. A tredici anni siamo troppo assorbiti dalla nostra tragedia interiore per comprendere appieno quello che accade intorno a noi, soprattutto se siamo dei poeti.
E se l’uomo adulto non riesce a cantare col piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, nel poeta bambino vince la creatività. Non solo: si tratta di una creatività vivace.
I versi del tredicenne Uri Orlev non sono disperatamente tristi. Lo spirito fanciullo desidera sfogare la propria creatività, nonostante tutto. Uri riempie il suo preziosissimo taccuino di versi, ricopiati con attenzione dall’asse di legno usata per la brutta copia. Oggi queste poesie sono pubblicate in italiano ed ebraico da Giuntina, nel piccolo tomo “Poesie scritte a tredici anni a Bergen- Belsen (1944)”.
E’ evidente il contrasto tra le rime semplici e la scrittura infantile, in contrapposizione alle tematiche gravissime e ad una innaturale autocoscienza. Il bambino cresciuto troppo presto, non riesce a vedere con nitidezza tutti i significati della realtà che lo circonda, tuttavia ha sviluppato un ottimo senso dell’osservazione. La trasposizione poetica della realtà vista con gli occhi curiosi di Uri, assume un’ironia involontaria quasi grottesca. Lo sguardo invidioso del ragazzo che vede gli altri detenuti grattare il fondo della pentola, mentre lui stesso cerca di frenare i morsi della fame con le rimanenze di quell’educazione, che una volta aveva un significato totalmente diverso, ci colpisce al cuore. Perché quei volti scarni, quelle teste rapate, quei numeri sul braccio tornano ad avere un nome, una storia.
Queste poche poesie non hanno un gran valore letterario. Come vi ho accennato le rime sono semplici e la struttura basilare. Le metafore, poi, non sono proprio azzeccatissime.
Quello che è interessante è il significato socio-antropologico di questi testi. Se a scrivere una poesia sul lager fosse stato un adulto, la parola tragicommedia nel titolo della poesia ci avrebbe indignati. L’invidia stessa ci avrebbe indignati.
Nella poesia “E la vita va avanti” troviamo un punto di vista molto interessante. Il piccolo poeta contrappone la quotidiana banalità delle conversazioni, alternandola anche graficamente verso per verso, agli orrori della guerra. L’intenzione di Orlev era quella di mostrare quanto il desiderio di sopravvivenza, il bisogno di parlare di banalità, permettano all’uomo di estraniarsi dagli avvenimenti che lo circondano. Questa sagace e intelligente osservazione avvicina i suoi versi a quelli della poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska. La stessa poesia è stata poi corretta e sistemata da un compagno di prigionia con più esperienza.
Effettivamente l’opera corretta, mostra appieno il potenziale del poeta.
Orlev da grande ha fatto lo scrittore per ragazzi, scrive prevalentemente in ebraico, ma queste prime poesie sono state scritte in polacco. Le sue opere sono state insignite, tra l’altro con il premio Andersen, il riconoscimento più alto per un autore di libri per l’infanzia.
Orecchio Acerbo: arriva “Effetti di un sogno interrotto”
ROMA – In libreria da qualche giorno per Orecchio Acerbo, “Effetti di un sogno interrotto” è l’albo illustrato che fonde insieme autori celebri e giovani illustratori. Dalle parole di Luigi Pirandello e le immagini di Michele Rocchetti, questo libro si apre a riletture e sguardi insoliti, adattamenti e interpretazioni.
Tra i meandri dei “Racconti fantastici” di Luigi Pirandello, in una vecchia casa, regno indiscusso della polvere, sulla mensola del camino si trova una grande tela secentesca, che ritrae la Maddalena in penitenza, con il seno scoperto e che s’infiamma di sensualità al caldo lume di una lucerna. Il protagonista del racconto non è il proprietario del quadro perché ha avuto la casa – e tutto ciò che essa contiene- tanti anni prima in garanzia di un vecchio debito. Ma un uomo, presentatogli da un antiquario, vuole acquistare quel quadro a ogni costo e si agita al vederlo. La moglie appena defunta – spiega l’uomo – somiglia così tanto a quella Maddalena che lui non può tollerare che un altro possa vederla nuda. Fortemente impressionato dalle reazioni del vedovo, il nostro eroe la notte stessa sogna la donna venir fuori dal quadro e amoreggiare con il marito. Il sogno è così intenso che al risveglio gli pare di vedere il vedovo scappar via e la Maddalena seguirlo con lo sguardo.
Terrorizzato fugge dalla casa e si precipita dal vedovo, deciso a liberarsi del quadro. E lo trova con quello stesso pigiama a righe che indossava nel suo sogno…
“Quanto son cari questi uomini sodi che, davanti a un fatto che non si spiega, trovano subito una parola che non dice nulla e in cui così facilmente s’acquetano. Allucinazioni. ”
Le chiamano allucinazioni o transizioni tra il sonno e la veglia: le chiamano fantasie. “Ispirazione notturna” e “psicologia misteriosa” vengono così colte dalle visionarie illustrazioni di Michele Rocchetti attraverso richiami surrealisti, trame futuriste e composizioni vicine al cubismo di De Chirico.
Novità: “Flora e il fenicottero”
ROMA – L’amicizia è una bellissima danza… E così la descrive Molly Idle in “Flora e il fenicottero”, una delle ultime uscite Gallucci Editore.
Un bizzarro incontro si trasforma nella magnifica amicizia tra una bambina di nome Flora e un grazioso fenicottero. Sfogliando le pagine si assiste a un gioco fatto di piroette, inchini e capitomboli di questa strana coppia di amici. Molly Idle racconta una storia delicata ed emozionante, nella quale umorismo e sentimento balzano da ogni pagina e crea due personaggi indimenticabili da applaudire a scena aperta.
Lettura: dai 3 anni
“Heartland”, continua lotta metropolitana
ROMA – “Suo padre aveva firmato qualche autografo sui volantini con le formazioni o su fogli sparsi, non parlava quasi, non ce n’era bisogno. Aveva fatto il calciatore, Rob lo sapeva, da giovane aveva giocato con i Lupi del Wolverhampton, poi si era infortunato ed era andato a lavorare come tutti i papà. Fino a quel giorno non gli era sembrata una cosa importante.” Ma Rob crescendo impara che le cose importanti ci sono e una di queste è la lotta alla xenofobia; un tunnel nel quale la città di Dudley sembra essere risucchiata. Anche se Rob volesse essere altrove, per esempio con Jasmine, Adnan o Andre, Rob sa che alla partita di calcio tra Cinderheath Fc e la compagine musulmana di Dudley, la sua città, ci deve essere. E’ in questo distretto siderurgico delle West Midland, infatti, che Rob è cresciuto, ha cominciato a giocare ed è diventato insegnante. Ma lui, questa partita non ha voglia di giocarla. Rob è il protagonista di “Heartland”, il romanzo di Anthony Cartwright pubblicato da 66than2nd.
Siamo nel 2002 e l’Inghilterra di Backham sfida l’Argentina di Veron; la sfida calcistica è la metafora della lotta intestina che sta attraversando la provincia britannica. Negli anni, la periferia delle città del Regno Unito sono diventate il centro dell’insofferenza multietnica e in questa partita che divide bianchi e neri della stessa città Rob vuole capirci di più. Schierato nelle fila dei bianchi, il protagonista del romanzo si trova ad affrontare Zubair, il fratello dell’amico scomparso Adnar.
“Heartland” è il romanzo «più manifestamente politico» di Cartwright. Infatti, “quest’urlo narrativo” dello scrittore manovale (data la sua lunga gavetta lavorativa) lo annovera di diritto nella grande famiglia del realismo sociale inglese (in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle) ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.
«Tutti i romanzi, per quanto realistici, sono sempre e comunque opere di fantasia»
“Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, evitarle anche prima di incontrarle
Giulia Siena
ROMA – “Non importa quanto amore ti professano, a un certo punto la voglia di sparlare di te con il gruppo delle seguaci sarà troppo forte, e si mostreranno per quello che realmente sono. Delle api regina in cerca del consenso della folla, sia esso composto da seienni o da dodicenni. Il palco è il loro regno, lo scherno il loro strumento, la maldicenza è la loro arma.” Questa è la descrizione che fa Irene Vella delle stronzamiche. Loro, numerosi esemplari di falsa affettuosità, sono sempre in agguato nella vita di ogni donna: dall’asilo all’università, nascoste nella parentela e sul lavoro, la loro è una seriale escalation nelle vite degli altri.
Per questo nasce “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza” (pubblicato nella collana Dieci! di Laurana Editore), il libro scritto da Irene Vella per mettere in guardia la figlia dodicenne da queste sedicenti figure che indossano i panni dell’amica per ferirti con sempre maggiore astuzia e precisione. E’ questo, infatti, lo scopo delle stronzamiche; sin dalla nascita hanno questa “dote” e, con il tempo, non fanno altro che affilare la tecnica. Così la giornalista e scrittrice toscana ci porta a scoprire i 10 modi per sopravvivere alle stronzamiche attraverso questo piccolo manuale di salvezza.
Partiamo dalla base: le stronzamiche sono quelle che credevamo amiche, invece erano stronze. Stronze perché ci hanno fatto credere nell’amicizia, nella condivisione e nella complicità per poi voltarci le spalle e sparlare di noi. E in questo modo ci feriscono perché ci sentiamo prese in giro, sentiamo che la fiducia che abbiamo posto in loro era ingiustificata, diventiamo diffidenti e sole. Questa consapevolezza, però, nelle amiche “tradite” cresce con gli anni e con l’esperienza, ma come si può salvaguardare le fanciulle innocenti dalle stronzamiche? Irene Vella è anche una madre e come tale parla, attraverso questo libro, alle altre madri per proteggere i propri figli da questa strana forma di “bullismo”. Sì, perché le stronzamiche si comportano per avvicinare, ferire ed emarginare le persone più deboli, o semplicemente più buone.
“Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, una piccola guida che già si preannuncia un grande successo poiché mai nessuno ci ha insegnato a evitare le stronze prima di incontrarle.
“Nessuna esperienza richiesta”: felici e precari
Marianna Abbate
ROMA – Ho conosciuto un tale di quarant’anni con il posto fisso statale e più di cinquemila euro (!) di stipendio che amava definirsi “precario della vita” (sic!). A nulla è valsa la mia faccia disgustata e il mio tentativo di spiegare che “precariato” non è una condizione dovuta alle scelte personali, all’inettitudine e alla pigrizia, ma uno stato di disagio sociale strutturale. Il precario non si arrende, il precario rema controcorrente, insiste. Se si fosse arreso, quel contratto a breve scadenza non l’avrebbe mai trovato, o sarebbe già scaduto. I precari non sono dei falliti: è il sistema ad essere fallimentare.
Descentio, il protagonista di “Nessuna esperienza richiesta“, edito da Intermezzi, non è un fallito. Nonostante ci si senta fortemente.
Gianluca Comuniello ci ritrae con la tecnica del cubismo pittorico, tutti gli aspetti della sua personalità, tutti gli aspetti della sua vita, senza mai svelarlo completamente. Cambi repentini di narratore aiutano a mostrare quel senso di instabilità, di insoddisfazione e sempre più tangibile disagio che accompagnano Descentio in tutta la sua storia.
Perché Gianluca si sente un po’ Descentio, e forse l’unica cosa che non li accomuna è questo nome parlante, che sembra segnare disgraziatamente il destino dell’uomo di carta. Un nome volutamente altisonante, che invoca una gloria passata in opposizione all’attuale ineluttabile discesa.
Uno stato che non affligge solo il protagonista, ma un po’ tutti i suoi conoscenti, dall’amica sfortunata, all’esule calabrese. Tutti tranne una: Greta, la ex che non sbaglia un colpo. quella che quando dice cosa ha studiato, nessuno le fa le condoglianze.
Bhè io le farei le condoglianze ad uno che ha studiato agraria, non per amore della terra ma per mero calcolo. Ma che ne posso sapere io, che faccio l’impiegata contabile, dopo la mia bellissima e commovente laurea in lettere.
L’ultima nota va all’editore: Intermezzi si conferma un unicum nel panorama editoriale italiano. La capacità di scegliere libri complessi, innovativi anche nella forma e la scelta di scommettere sul “vero” nuovo, dà una piacevole ventata di freschezza e porta la speranza che giovani scrittori capaci esistono. Forse servirebbe un pelino in più di editing.