Le ultime Novità Editoriali

ROMA – In libreria dalla settimana scorsa per Fandango c’è “Mustang. Un viaggio” il libro catalogo della mostra fotografica Click! 30 anni d’Asia di Tiziano Terzani poi, da qualche giorno, c’è anche “La cura” di Andrés Beltrami e “L’arte dell’inganno” di Vittorio Giacopini.
Tra le novità della Bompiani troviamo: “Bolle, balle e Sfere di cristallo. L’economia dell’inganno” del giornalista e scrittore Stefano Cingolani, “La rivoluzione dei gelsomini” di Tahar Ben Jelloun e “Più felice del mondo” di Umberto Pasti. Ugo Mursia Editore presenta “GLi angeli di Lucifero”, un libro di Fabrizio Carcano e festeggia l’Unità d’Italia con il libro “Il romanzo dei mille” di Claudio Fracassi. Candidato al Premio Strega 2011 è “Nina dei lupi” di Alessandro Bertante, l’ultima pubblicazione targata Marsilio.
In uscita per le Edizioni nottetempo troviamo “Cultura di destra” di Furio Jesi, “Mostrarsi” Andrea Canobbio e “Baba Jaga ha fatto l’uovo” di Dubravka Ugrešic, oltre che la terza ristampa de “La scoperta del mondo” di Luciana Castellina. Avagliano porta in libreria “Il silenzio del colore nero” di Serena Frediani e “San Gennaro non dice mai no” di Giuseppe Marotta. Tra qualche ora sarà disponibile su ChronicaLibri l’anteprima di “Brivido eterno”, un mix di azione e sensualità firmato Leggereditore, la casa editrice che porta per la prima volta in Italia l’apprezzata autrice Larissa Ione.

Da domani in libreria Orecchio Acerbo Comics, la nuova collana di fumetti dedicata ai bambini

ROMA – Nasce Orecchio Acerbo Comics, la nuova collana di fumetti dedicata ai lettori più piccoli. Da domani in libreria i giovani lettori potranno trovare due nuovi albi illustrati, ognuno al prezzo di 7.50 euro e 32 pagine a colori. Padrini di Orecchio Acerbo Comics sono i protagonisti dei due libri, Jack e TopoLino. Il primo alle prese con un giocattolo che non solo si anima e prende vita, ma è capace di sdoppiarsi, triplicarsi, e combinarne di tutti colori. Stupendolo, impaurendolo, divertendolo, confondendolo. Sempre stimolando fantasia e creatività. L’amico immaginario di ogni bambino.


TopoLino è invece impegnato nella quotidiana gimkana mattutina nella quale si cimentano
i bambini di tutto il mondo: vestirsi. Infilarsi le calze e i pantaloni, litigare con le asole della camicia, benedire i veltri che hanno sostituito i lacci delle scarpe. L’artista del prêt-à-porter.

Divertenti e divertiti Jack e TopoLino prendono per mano il piccolo lettore, giocano con lui, lo invitano a entrare nei disegni della storia, ma anche in quelle bianche nuvolette che escono dalle loro bocche. Sì, proprio così. Jack e TopoLino sono convinti che questo sia uno dei modi migliori per permettere ai bambini di prendere confidenza con quei disegnini che i grandi chiamano lettere. Di più. Sono convinti che dalla confidenza rapidamente passeranno all’amicizia, e che presto per leggere la storia non avranno più bisogno né del babbo né della mamma.

"Il Grande libro della Costituzione Italiana", dodici lingue per una legge uguale per tutti

Giulia Siena
Roma“Democrazia. Casa di tutti: una grande casa, la nostra casa, non soltanto la mia, dove ciascuno sta, ma non da solo, dove si vive in buona compagnia. Non una reggia dove il re comanda, o una caverna senza una ragione: ma una casa di gente che sceglie tra le cose cattive e quelle buone. Una gran casa dove ci si parla, aperta a nuove idee e a nuovi amici, dove si impara a diventare liberi, dove si prova a essere felici.” I valori della Costutizione italiana vengono raccontati ai bambini della penisola e non attraverso le parole di Roberto Piumini e le illustrazioni di Emanuele Luzzati ne “Il Grande libro della Costituzione Italiana” pubblicato da Sonda.

Con l’introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, il patrocinio della Presidenza della Corte costituzionale e quello della Presidenza del Consiglio dei Ministri, questo libro individua delle parole chiave – dalla democrazia alla pace, dal lavoro all’ambiente, uguaglianza, diritti umani, accoglienza dello straniero fino al dialogo tra le religioni – per spiegare ai bambini come la Costituzione può essere vicina ai cittadini di qualsiasi provenienza. Perché, come scrive Carlo Azeglio Ciampi nell’introduzione all’opera, “Ogni giorno di più impariamo quanto i principi di concordia e fratellanza, posti a fondamento della nostra Costituzione, siano essenziali per poter garantire convivenza e pace duratura fra i popoli.”
La prima parte del libro è dedicata alla spiegazione degli articoli della carta costituzionale in dodici lingue (italiano, albanese, arabo, cinese, ebraico, francese, inglese, portoghese, rumeno, russo, spagnolo e tedesco) con immagini che richiamano le tematiche e rendono colorato il modo di apprendere. Oltre che da tavole illustrate, le tematiche del libro sono divise da “citazioni” che ripropongono i temi basilari sui quali si fonda la nostra Nazione. Un modo divertente, intelligente e coinvolgente per sdoganare la Costituzione dai palazzi del potere e renderla interattiva (nell’ultima parte del libro viene dato ampio spazio a giochi, approfondimenti e suggerimenti didattici).

Novità Editoriali, tutti i libri di marzo

ROMA – Marzo: tante le novità per questo nuovo mese e siamo pronti per segnalarvene alcune davvero interessanti. Da domani su tutti gli scaffali per Bompiani troverete “La Rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba” di Tahar Bell Jelloun. Marsilio porta in libreria “Ciao, sono tua figlia. Storia di un padre ritrovato” di Vania Colasanti, il romanzo che sarà presentato ufficialmente giovedi 12 marzo ore 18.30 presso il Fandango Incontro (Roma, via dei Prefetti 22). Le ultime pubblicazioni Mursia sono “Gli angeli di Lucifero” di Fabrizio Carcano, “Anime in carpione” di Paolo Ferrero, “All’ombra del gatto nero” di Marina Alberghini e “Il volto del Terzo Reich. Profilo degli uomini chiave della Germania nazista” di Joachim C. Fest.
Fermento pubblica “Maionese impazzita. La ricetta dell’amore nel XXI secolo” di Giorgia Colli. Avagliano Editore festeggia l’Unità d’Italia con “Antonietta e i Borboni” di Emilia Bernardini e “E’ tornato Garibaldi” di Giovanni Russo. Le fotografie di Laura Salvinelli in “Hospital life in Afghanistan” pubblicate dalle Edizioni Postcart. O barra O manda alle stampe “L’apocalisse nell’Islam” di Jean Pierre Filiu. Le Edizioni Ambiente (Milano) presentano nella collana VerdeNero Noir “E’ tutto apposto” di Deborah Gambetta. Per i lettori più piccoli le novità sono portate dalla Sinnos con “Pioggia sporca” di Fabrizio Casa (presentazione venerdi 4 ore 18.30 presso la Libreria Amore e Psiche – via Santa Caterina da Siena 61 Roma) e dalle Nuove Edizioni Romane che pubblicano “Vamos” di Ferdinando Albertazzi e “Il segreto del quarto dono” di Pina Varriale nella collana I nuovi gialli.

Orecchio Acerbo Editore arriva alla centesima pubblicazione e si racconta a ChronicaLibri

Giulia Siena
ROMA – Una casa editrice rivolta ai bambini con letture che “non nuocciono” agli adulti, questa è la romana Orecchio Acerbo Editore. Nata nel dicembre 2001, oggi Orecchio Acerbo pubblica il suo centesimo libro e, noi di ChronicaLibri, vogliamo saperne di più intervistando Fausta Orecchio (direttore editoriale) e Simone Tonucci (direttore commerciale).  
Perché “Orecchio Acerbo” ?
Un omaggio dichiarato a Gianni Rodari e, insieme, una dichiarazione d’intenti. Nella filastrocca Un signore maturo con un orecchio acerbo, di quell’orecchio Rodari dice esplicitamente che è rimasto bambino “per capire le voci che i grandi non stanno mai a sentire”.
 È quello che abbiamo provato a fare nei nostri dieci anni di vita, con risultati alterni, sempre però con grande rispetto dei piccoli lettori, tentando di stare lontani dai luoghi comuni. E proponendoci più di porre domande che di dare risposte. In fine, anche un gioco. Il cognome di Fausta è infatti Orecchio…

Qual è la proposta editoriale di Orecchio Acerbo?
Molti dei nostri libri sono accompagnati da un “bugiardino”, del tutto analogo –anche nella forma- ai foglietti illustrativi che si trovano nelle confezioni dei medicinali. Un gioco che, come fanno i bambini, abbiamo preso molto sul serio, affidando a lui la descrizione della nostra proposta editoriale. E così alla voce “indicazioni”, indichiamo alcune situazioni nelle quali può essere utile la lettura di qualcuno dei nostri libri: “Stati di grave bulimia televisiva. Sindrome acuta da insufficienza immaginatoria. Distonia o rimbecillimento da abuso di videogiochi. Irritazioni cellulari da SMS. Coadiuvante nel trattamento delle dipendenze da psicofamiliari (anfemammine, erononnine, coccaziine ecc.). Intolleranze alimentate (razziali, poltiche, religiose ecc.). Elettroencefalodramma da iperattività. Squilibri emotivi connessi a mancanza di mancanze. Stati apatici da eccesso di conformismo. Abbassamento della soglia di solidarietà. Danni nel campo visivo.”

Orecchio Acerbo, una casa editrice per bambini di tutte le età?
Di nuovo potremmo utilizzare il bugiardino che dice: “libri per ragazzi che non recano danno agli adulti / libri per adulti che non recano danno ai ragazzi”. D’altra parte sempre più numerose sono le case editrici che su alcuni titoli alla voce “fascia d’età” scrivono “da 0 a 99 anni”. Forse, quindi, vale la pena di articolare meglio la risposta. Alcuni dei nostri libri sono rivolti espressamente ai bambini più piccoli, basti citare Quelcheconta di Ruth Vilar con le illustrazioni di Arnal Ballester, in libreria dal mese scorso. Su questa strada non solo vogliano continuare, ma allargare la carreggiata. E così proprio nei prossimi giorni usciranno i primi due titoli di “orecchiocomics”, una collana di libri a fumetti dedicati specificatamente ai bambini più piccoli. Saranno due grandi –Art Spiegelman e Jeff Smith- a inaugurarla, con “Jack e la scatola” e “TopoLino si prepara”. Di pari passo, tuttavia, continueremo a pubblicare albi illustrati rivolti a lettori di tutte le età. Anche qui, due soli esempi, uno passato e uno futuro. Dall’inizio dell’anno è sugli scaffali “La casa sull’altura”, del poeta siciliano Nino De Vita, illustrato da Simone Massi. Sicuramente un libro non “facile”, nel quale tuttavia i ragazzi potranno vedere rispecchiata la loro fatica nel crescere, e gli adulti forse riflettere sul rapporto dell’uomo con la natura e gli animali, sul tragico effetto dell’abbandono delle campagne. Ad aprile, come altri, anche noi festeggeremo l’anniversario salgariano, tentando tuttavia di sottrarci alla lettura “televisiva” che ne ha accentuato a dismisura l’aspetto avventuroso, dimenticando quasi del tutto l’attenzione salgariana agli effetti della globalizzazione del suo tempo -la colonizzazione- sia sulle persone sia sulla natura. Per farlo abbiamo scelto “L’isola di fuoco” un racconto di mare che narra dell’improvviso e misterioso inabissamento di un’isola. Le descrizioni del mare invaso dal petrolio, il ribollire dell’acqua, la strage di pesci contenuta nel racconto ci hanno ricordato l’inabissamento della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico, disastro del quale proprio il 21 aprile ricorre il primo anniversario. E così abbiamo deciso di fare un corto circuito. Le illustrazioni ch accompagnano il testo progressivamente si spostano dall’Oceania all’America, dall’isola alla piattaforma. Anche a sottolineare come, sempre, la grande letteratura aiuti a leggere il presente. Beh, in tutta franchezza difficile non immaginare che un libro così non sia rivolto a tutti, senza distinzione di età.

Sempre meno libri venduti, sempre più case editrici: come vive Orecchio Acerbo questa continua “lotta”?
Abbiamo appena pubblicato il nostro 100° libro. Non per caso abbiamo scelto un libro di Remy Charlip dal titolo per noi più che emblematico: “Fortunatamente”. Sì, non è stato facile, e le prospettive non sono delle migliori. Non tanto per l’offerta sempre maggiore –le nuove case editrici, ma anche quelle tradizionali che hanno “scoperto” gli albi illustrati e le graphic novel- quanto per una politica culturale che definire miope è davvero un eufemismo. Bastino due soli dati. Il primo, per così dire di bottega, l’abolizione delle agevolazioni postali per l’editoria; il secondo, generale, il taglio ai fondi delle biblioteche per l’acquisto di nuovi libri.
A tutto questo solo in due modi siamo capaci di rispondere. Curare sempre più la qualità dei libri che pubblichiamo e approfondire la ricerca di nuovi talenti, e di conseguenza poterli offrire non solo ai lettori italiani ma, con le coedizioni o la cessione dei diritti, a quelli degli altri paesi
.

"Quelcheconta", un protagonista stravagante per le letture dei piccoli

ROMA “Quelcheconta” di Ruth Vilar con le illustrazioni di Arnal Ballester, è il  il novantanovesimo libro di Orecchio Acerbo Editore e arriva dal 23 febbraio in libreria per tutti i giovani lettori appassionati di numeri. Un postino innamorato dei numeri. Conta i campanelli che suona, le cassette della posta, le lettere che imbuca,  il numero dei francobolli… Tutti lo chiamano “Quelcheconta”. È un tipo estroso e stravagante. Come la sua bicicletta a nove ruote con la quale va a consegnare la posta in dieci paesi, lavorando undici ore al giorno, dodici giorni alla settimana per tredici mesi all’anno.

Orologio, calendario, contratto di lavoro sono per lui cose assolutamente secondarie.
Prima di tutto viene l’aritmetica! L’ordinata, sicura e rassicurante sequenza dei numeri.
Su di lei puoi fare conto, all’infinito e per sempre. In salita come in discesa.
Ma -consegnate ventidue lettere di licenziamento a ventuno famiglie rassegnate dopo i venti inutili ricorsi presentati, e vista la trepidante attesa  nella quale diciannove ragazze di diciotto anni si consumano aspettando le diciassette lettere  dei loro sedici  innamorati- si accorge che i conti non sempre tornano.
Perciò, riflettendo anche sul suo soprannome, si convice che, imparato a contare, bisogna imparare anche quel che conta.
E così, quando tre stupende principesse gli propongono di esaudire due dei suoi desideri, si accontenta di uno solamente: un mondo felice.
Un libro per giocare con i numeri. E per ricordare che le persone non sono numeri.
(Scheda libro a cura di Orecchio Acerbo Editore)

Novità Editoriali

ROMA“Leggere nuoce gravemente all’ignoranza.” Con questo monito vi esortiamo a leggere le tante invitanti novità di queste ultime settimane. In libreria per Bompiani da domani, mercoledì 9 febbraio, l’unico libro che, dopo secoli di censura, racconta gli usi e costumi della civilità precolombiana: i “Commentari reali degli Inca” di Garcilaso de la Vega. Lo stesso editore propone “Satori” di Don Winslow una nuova avvincente spy story in cui si mescolano storia, seduzione e paura e un classico dello spionaggio, “Shibumi, Il ritorno delle gru” di Trevianan. O Barra O Edizioni (Milano) presenta “Garam Masala”, l’ultimo libro di Bulbul Sharma. Ci spostiamo nella narrativa italiana per segnalare l’uscita tra qualche settimana de “La solitudine degli anni dispari” di Luca Pisanu per Fermento (Roma). Tra le novità delle Edizioni Pendragon (Bologna) c’è il romanzo “Il momento perfetto” di Lorenzo Minoli, il saggio “Un matematico un po’ speciale. Vito Volterra e le sue allieve” di Sandra Linguerri e “Sbagliare umano. Ma la sinistra è diabolica. Breviario per non perdere le elezioni” di Marco Bettini. Nonostante sia ancora un po’ presto per parlare di vacanze e tuffi in mare, l’Editrice La Mandragora (Imola) vi prepara per la prossima stagione marittima portando in libreria il “Manuale di Diritto Pratico per l’Istruttore Subacqueo” di Aldo Cimino e Martina Feltrin e “Raimondo Bucher La vita di un pioniere degli abissi nella cronaca del suo tempo” a cura di Luciana Civico Bucher e Fabio Vitale. Logos Edizioni (Modena) porta in libreria “1000 soluzioni grafiche: graffiti e street art”, “1000 idee per progettare un giardino”, “Loft da abitare” e la guida “Per il fotografo in viaggio”.
Sinnos (Roma) regala ai lettori più giovani “Pioggia Sporca” di Fabrizio Casa e “La casa con le ruote” (italiano e sinti) di Annibale Niemen, due racconti coinvolgenti con al centro il mondo Rom. Visto il clima di festa non poteva mancare la “lettura in maschera”: “Martina al Carnevale di Venezia” di Gilbert Delahaye pubblicato da Gallucci Editore che propone anche  “Il Pinguino e la Gallina” di Giuseppe Lisciani.

"Gli anni della speranza", il racconto della difficile emigrazione da una terra ostile

Giulia Siena
ROMA “Si strinsero uno con l’altro, come un blocco, come una vera famiglia. Erano sul suolo francese e sapevano che per loro cominciavano gli anni della speranza.” Finisce con un augurio di speranza il romanzo di Anna Tolu Pouget che ripercorre gli anni difficili del Fascismo. “Gli anni della speranza”, pubblicato da Arkadia Editore, è il racconto intenso di personaggi diversi tra loro, ma simili per condizione sociale: due ragazzi e una bambina che in diversi momenti, nello stesso paese di un’isola arida, si sono scontrati con la durezza del tempo. Strade tortuose e parallele che negli anni si sono incrociate per proseguire insieme verso “gli anni della speranza”; dopo che l’austerità delle madri aveva scosso le loro piccole sensibilità, dopo che l’asprezza della guerra aveva messo alla prova la loro forza, dopo che il dolore si era preso gioco dei loro sorrisi.
Così, Francesco e Margherita sono cresciuti a pochi metri di distanza in una Sardegna “devota” al Fascismo e impaurita dalla Guerra; entrambi proclamavano entusiasti “Viva il Re! Viva il Duce!” con la sommessa speranza che il futuro sarebbe stato più ricco di cibo e amore. Entrambi volevano fuggire da quell’entroterra polveroso, avaro di soddisfazioni e affetto per approdare lontano, dove la cattiveria dei loro avi non poteva raggiungerli.

Anna Tolu Pouget in poco più di centocinquanta pagine costruisce un romanzo familiare dalla solida struttura narrativa: i riferimenti geografici sono calibrati con successo alle vicende storiche e il tutto sapientemente arricchito da sfumate venature sentimentali.

Anteprima: aspettando San Valentino leggi l’estratto di "I love you, goodbye"

ROMA – Cosa si nasconde dietro il sentimento che fa girare il mondo? E’ poi vero che l’amore cambia la vita? A poco più di una settimana da San Valentino, Leggereditore porta in libreria un romanzo delicato, profondo e mai banale: “I Love you, goodbye” di Cynthia Rogerson. Aspettando la recensione di questa ottima idea regalo per il giorno più romantico dell’anno, vi proponiamo un estratto del coinvolgente “I love you, goodbye”.

Settembre

Evanton
È una cittadina nelle Highlands scozzesi che dallo spazio neppure si vede, neanche una macchiolina. Da Fyrish Hill invece sembra un mucchio di detriti in fondo a un crepaccio: case di pietra grigia che si snodano verso l’estuario. Se si entra in città al crepuscolo, si trasforma in una contea. Finestre illuminate da una luce confortevole, e sbuffi di fumo dai camini. Chi non vorrebbe mettere su casa in un luogo simile? Ma appena ci si avvicina un po’ di più, appena ci si accosta a queste finestre, le cose non sono poi così idilliache. Decisamente no. E non solo ogni sentiero caratteristico ha la necessaria infelicità,
ma anche ogni casa. E ogni persona.


Ania
Cos’altro conta, cos’altro è realmente misterioso e degno d’interesse, a parte l’amore? La morte, certo, ma è anch’essa anticipata o ritardata dall’amore. E la morte dell’amore è una
tragedia esclusivamente umana. Dev’esserci un fine evolutivo nel dolore che segue la perdita di un amore. Non so quale sia. Ma la morte dell’amore mi dà da vivere, perciò non posso
lamentarmene troppo. Mi sono immersa negli intimi spasmi d’agonia di cinquecento matrimoni ormai – una bella cifra per una che non ha ancora raggiunto i trent’anni –, ma d’altra parte ho sentito la vocazione molto precocemente, e ho consacrato la mia vita alla resurrezione dell’amore. La consulenza matrimoniale è un’arte. Di più, sono un medico di matrimoni all’ultimo stadio. Mi colloco al pronto soccorso delle relazioni e poi, se ho fallito, al reparto per malati terminali. Soprattutto, sono una filosofa dell’amore. Si saprà, se si è letterati, che tutte le famiglie felici sono simili, mentre quelle infelici lo sono ognuna a proprio modo. Non aggiungo altro. Le persone sono sole, incontrano qualcuno, e si innamorano. Sono migliori, innamorate, perciò è semplice amarle. Quando sono innamorate, le persone sono tutte uguali. In questa fase l’amore è totalmente basato sull’ignoranza e la mancanza di familiarità. Come ha detto W. Somerset Maugham: L’amore è quello che capita a un uomo e a una donna che non si conoscono.’ Per i miei clienti, dal momento in cui li incontro, spesso sposati da un quarto di secolo, è diverso. Non avete idea quanto sia affascinante osservare tutti i giorni il modo in cui gli umani si affannano a trovare sempre nuovi modi per ferirsi a vicenda.
Si conoscono tutte le loro paure circa la solitudine e sognano… una molteplicità di cose che l’amore non ha, finora, concesso. L’amore li ha delusi, com’è normale che sia. Sono nata con questa consapevolezza, il che non mi ha impedito di sposare Ian. L’ho messa a tacere per lui. Ache pro distruggere le sue illusioni? Sarebbe come dire a un bambino di due anni che un giorno certamente morirà. L’amore muore. Certo! Non dovrebbe sorprendere nessuno, ma colpisce comunque mariti e mogli alla stregua di una cannonata. La maggior parte degli individui crede di aver fallito, come se la rottura non fosse inevitabile. Le persone il cui amore dura tutta una vita sono rare. Per noialtri, perfino durante il primo bacio è possibile avvertire il sapore dolceamaro della fine. E a essere onesti, il tormento non ha la stessa squisita intensità della prima vampa di desiderio? Ci sono più poesie e canzoni sul perdere l’amore che sul trovarlo. La sofferenza è di certo preferibile alla lenta agonia della fase intermedia. E quando una relazione si chiude, definitivamente, non c’è più incertezza sul modo in cui andrà a finire. Ci si tormenta, ma in parte ci si sente sollevati, consapevoli che non può più andare, tornando poi a immaginare d’imbattersi in qualcuno che sia migliore.
Se ci fosse un ufficio governativo chiamato dipartimento dell’Amore umano, una grande stanza rosa piena di donne dai grembi soffici e di teneri uomini dagli occhi scuri, questi
verrebbero inondati di reclami e proteste ogni giorno. La gente intenterebbe causa all’Amore per danni inimmaginabili. Ma non può, così viene da me. C’è sempre un momento, dopo che suonano alla porta, in cui chiudo gli occhi e prego: Permettimi di aiutare questi cuori afflitti, domando a nessuno in particolare – l’atmosfera in movimento rotatorio oltre le stelle, l’aria nella stanza, e gli atomi del mio stesso corpo. Mi calma, chiedere aiuto. Poi apro la porta e li faccio entrare. Aproposito. È il campanello. Aiutami Rose. Ecco come parlo a mio marito: «Su, vestiti! Siamo in ritardo per l’appuntamento con la consulente matrimoniale. La camicia blu è stirata. Non lì, nell’armadio! Uffa. E devi comprarti le scarpe nuove, guarda qui le suole! Lunedì si va da Clarcks, c’è una svendita.»
Come se avesse sei anni. Non riesco a ricordare quando è cominciata quest’arrogante impazienza, questo autoritarismo, ma l’impulso è potente e ora non riesco a smettere, anche se credo che mi suiciderei se dovessi rivolgermi così a me stessa. «Pensavo mi avessi detto che non c’era disponibilità» fa Harry scontroso, come un bambino di sei anni che vuole rendersi indipendente dalla madre.

«Gesù, non ascolti mai? Te l’ho detto. C’è stata una disdetta. Abbiamo appuntamento con Ania alle sei.»
«Ania?»
«Sì, Ania.»
«Mi piace come suona. Straniero, ma ha qualcosa di rassicurante
e positivo. Di classe. Polacco?»
«Come faccio a saperlo? Sta’zitto e vèstiti.»

Non sono orribile?
Mi detesto.
«Un appuntamento con Ania. Sì! Che mi metto?
La camicia blu con quei nuovi jeans neri? Non sono troppo banali, no?»
«Nulla che non sia già la tua biancheria. Gesù, devi essere l’ultimo uomo di tutto il Regno Unito che indossa ancora quelle mutande. È sorprendente come fai ancora a comprarle.»
«Quindi non le trovi sexy? Certo, questo paio è sformato e ingrigito, ma posso metterne un paio nuovo.»
«Giusto, come se facesse differenza. Come se ci fosse qualcosa che possa fare differenza.»
«Se tu avessi indossato un perizoma carino di tanto in tanto, questo avrebbe potuto fare differenza» dice mio marito.
Pausa, mentre corrucciata strattono la spazzola sui capelli.
Stasera sono più brutta e vecchia del solito. Ecco l’effetto che mi fa mio marito. Mi imbruttisce. Una porta si chiude giù all’ingresso, e all’improvviso mi ricordo di essere anche una madre terribile, oltre che una terribile moglie. Entra in silenzio.
«Sam! Sam, tesoro, c’è qualcosa per cena nel forno, l’ho lasciato alla temperatura minima. Ricordati di spegnerlo dopo, va bene?»
«Dove andate?»
«Usciamo giusto per un drink veloce con gli amici. Non staremo fuori a lungo, promesso. Ti dispiace? Farai il bravo, vero? Lascio il telefono acceso.»
«Sì, certo che farò il bravo. State pure fuori tutta la notte se volete.»
«Sam, non fare così. Torna qui e dammi un bacio. Sam!»
Ma è andato nella sua stanza, e lì in piedi c’è mio marito, in mutande, con la sua pancia prominente dai peli bianchi, che dice: «E mi piace proprio questo nome. Ania.»
Così saliamo in macchina e partiamo. Vedo coppie ovunque, e nessuna di loro ha l’aria di essere diretta a una seduta di terapia matrimoniale. Sembrano tutti normali. Si tengono per mano, ridono. Scommetto che hanno delle canzoni che sono le loro canzoni. Noi non abbiamo mai avuto una canzone. Non so perché, ma abbiamo tralasciato questo passaggio. Mi chiedo se i matrimoni rispettino tutti lo stesso copione, e se non sia troppo tardi ora per procurarsi una canzone. Con ogni probabilità lo è. È una serata meravigliosa, ma l’incanto in me è inaridito. Anche questo mi irrita, questa incapacità di godermi la bellezza della sera.
«Ferma la macchina, l’ho visto. Ma aspetta, sarà questo? Sulla porta dice quarantasette, dev’essere questo. Ma sembra una casa.»
«Certo. Di sicuro cercano di non attirare l’attenzione» dice il mio sensibile Harry, che ha passato la vita a tentare di rifuggire le attenzioni. Mi sento strana a uscire dall’auto con Harry; che mi induce alla pazzia, all’infedeltà e alla bruttezza, ma che è il mio familiare
Harry. Attiro la sua attenzione e una risatina comincia a salirmi dalla pancia – c’è intimità nel nostro inferno privato. Comprende molte emozioni sgradevoli, ma non disagio. Tuttavia
è presente un impeto di ostilità: la rabbia consueta, una megera di cui sbarazzarsi, anche quando non effettivamente presente. È come se la sua ombra aleggiasse anche quando priva di consistenza.
«Suona il campanello. Su!» sbraito, visto che ha raggiunto la porta per primo.
Nessun rumore, ma c’è una luce all’ultimo piano.
«Stai arrossendo» mi fa notare.
«Sono imbarazzata. È la reazione appropriata alla situazione.
Saresti imbarazzato anche tu se fossi normale.»
«Sì, come se un uomo normale avrebbe sposato te.»
«Vaffanculo» rispondo automaticamente. «E ascolta, non parleremo ad Ania della nostra vita sessuale, d’accordo? Niente a proposito del sesso. So com’è… questa razza di terapeuti. Si
nutre dei dettagli della vita intima degli sconosciuti. Niente sesso» sibilo.
«Okay, nessun problema. Niente sesso.»
«Mai.»
«Niente sesso, mai? Quello che speri.»
E poi la porta si apre. Il mio cuore sta scalpitando, neanche si trattasse di un appuntamento vero e proprio. Rido in modo inopportuno, come se mi stessi innamorando.
«Buonasera» dice una giovane donna senza rughe. Ultimamente sono affascinata dalla pelle liscia. I suoi occhi brillano, come se ci conoscesse e fosse lieta di vederci.
«Voi dovete essere Rose e Harry. Sono Ania, prego.»
Anche Harry sembra innamorato, è diventato tutto rosso ed è ammutolito.
Poi, nel suo modo inappropriato rivela: «Ha un nome insolito, Ania.»
Lei si gira e risponde: «Sì, mio padre è polacco.»
Harry la fissa – è molto carina. In un modo languido.
«Ania è un nome polacco. Be’, in realtà è una variante di Anka, un altro nome polacco» dice molto lentamente, come se avesse già intuito quanto sia tardo Harry. «Che è il mio vero nome.»
«Polacca!» fa lui, come se essere polacchi corrispondesse a venire da Marte.
«Sì, ma ho sempre vissuto a Evanton. E anche mio marito è di Evanton» dice quasi per difendersi.
«Anche noi viviamo a Evanton! Ci siamo trasferiti da Leith.»
«Perciò siamo vicini» ribatte lei freddamente.
«E in che zona vivete?»
Per un attimo Ania s’irrigidisce; probabilmente esiste una prassi secondo la quale si usano nomi falsi e non si danno i propri contatti, nel caso in cui qualche coniuge separato e squilibrato tenti di vendicarsi.
«Harry, non essere così ficcanaso. Scusa, Ania.»
Lei esita, poi scuote la testa una volta, in modo misurato e preciso. Una donna riservata e disciplinata. Mi detesterà.
«Non lontano da voi.»
«Formidabile! E non ci siamo mai visti! Davvero incredibile.»
«Che coincidenza sorprendente!» dico.
Non riusciamo a smettere; siamo in competizione per chi di noi due è più espansivo. Sento che il disgusto verso me stessa sta per assalirmi, come nelle feste in cui all’improvviso avverto la mia risata fragorosa e mi accorgo che sto versando il mio quarto bicchiere di vino sul pavimento, mentre ballo musica che detesto, tipo gli Abba.
«Probabilmente ci siamo incontrati molte volte» dice Ania in modo gentile, per niente simile alla mia replica stizzita. «Per forza, Evanton è talmente piccola. Ci saremo visti senza farci
caso.»
Lo dice con una certa convinzione pacata e una specie di inquietante indifferenza professionale; noi rimaniamo in silenzio, e seguiamo questa bella visione per due rampe di scale. Superiamo porte di studi chiusi e acquerelli astratti fino a una mansarda dipinta di albicocca. Tre magnifiche soffici poltrone una di fronte all’altra. Nessun mobile per più di una persona. Scelgo per prima dove sedermi, come si trattasse di una gara. Erano anni che non mi sentivo così nervosa e che non mi divertivo tanto con mio marito. Da quella volta in cui pensavo che la sua segretaria avesse una cotta per lui.
«Ora mettetevi comodi» dice Ania. La sua voce è calda, profonda e tranquilla. Nessun accento, ma c’è qualcosa di non proprio scozzese. O forse il suo nome mi ha condizionato.
«Santo cielo, è delizioso. Comoda questa poltrona! E il colore delle pareti è magnifico!» Continuo a essere troppo entusiasta. Non riesco a evitarlo. Voglio piacere ad Ania. Voglio che
stia dalla mia parte.
«Grazie. Mi piace che le persone qui si sentano a casa. Dunque, abbiamo un’ora, ci mettiamo al lavoro?»
«Certo» replica mio marito con un tono insolitamente energico.
«Bene. Sono dell’opinione che sia necessario andare dritti al cuore della faccenda, perciò se vi va di dirmi quale pensate sia il problema, possiamo iniziare a definirlo. Quale vi sembra la
questione principale? Inizi lei, Harry. Cosa la rende maggiormente
infelice del suo matrimonio?»
«La nostra vita sessuale» risponde Harry.

Essendo la felicità pittoresca una cosa effimera, gli abitanti di
Evanton non vi ambiscono. In ogni caso, sono troppo occupati per
notarne l’assenza. Dategli un’occhiata – eccoli, vivere le loro vite tra
tutti gli altri abitanti del mondo. E a Inverness, che si trova a due
estuari di distanza da Evanton, c’è Ania, la consulente matrimoniale,
seduta nel suo ufficio color albicocca all’ultimo piano dell’edificio.
Sembra proprio un sacerdote che attende nel confessionale buio.

Anteprima: leggi il primo capitolo di "Presagi di tempesta", tra qualche giorno in libreria per Fanucci

ROMA – Giornata piena di novità è quella del mercoledì di Leggendo Crescendo. Infatti, la rubrica di ChronicaLibri dedicata alle letture dei più piccoli ospita anche nel pomeriggio il primo capitolo di un romanzo in libreria tra qualche giorno per Fanucci Editore. Ora è la volta di “Presagi di tempesta” il dodicesimo capitolo della famosissima saga La ruota del tempo, creata da Robert Jordan e Brandon Sanderson.

Prologo
Il significato della tempesta
Renald Fanwar sedeva sotto il portico, riscaldando la robusta
sedia di quercia nera intagliata per lui da suo nipote due anni prima. Fissava il nord.
E le nubi nere e argento. Non le aveva mai viste così prima d’ora. Ricoprivano l’intero
orizzonte verso nord, alte nel cielo. Non erano grigie. Erano
nere
scantinato a mezzanotte. Con lampi di luce argentea che li attraversavano
e fulmini a cui non seguiva alcun suono.


L’aria era densa. Densa per gli odori di polvere e terra. Di foglie
secche e pioggia che si rifiutava di cadere. Era giunta la
primavera. Eppure i raccolti non crescevano. Nemmeno un
germoglio aveva osato far capolino dal terreno.
Si alzò con lentezza dalla sedia, col legno che scricchiolava
e il mobile che dondolava sommessamente dietro di lui, e si
diresse al limite del portico. Masticò il cannello della sua pipa,
anche se ormai era spenta. Non riusciva a decidersi a riaccenderla.
Quelle nuvole lo paralizzavano. Erano così nere. Come
il fumo di un fuoco di stoppie, solo che nessun fuoco del genere
emanava un fumo che si levava così in alto nell’aria. E cosa
dire delle nuvole argento? Sporgevano tra quelle nere, come
punti in cui nel metallo incrostato di fuliggine spiccano parti
di acciaio lucidato.
Si sfregò il mento, abbassando lo sguardo verso il suo prato.
Un piccolo recinto imbiancato racchiudeva un appezzamento
di erba e arbusti. Gli arbusti erano morti ora, fino all’ultimo.
Non avevano retto all’inverno. Presto avrebbe dovuto
estirparli. E l’erba… be’, erano ancora solo stoppie invernali.
Non era spuntato nemmeno un filo verde.
Un rombo di tuono lo scosse. Puro, netto, come un fragoroso
cozzare di metallo contro metallo. Sbatacchiò le finestre
della casa, scosse le assi del portico e parve riverberarsi nelle
sue stesse ossa.
Fece un balzo all’indietro. Quella saetta aveva colpito lì vicino…
forse nella sua stessa proprietà. Fremeva dalla voglia di
andare a ispezionare il danno. I fulmini potevano provocare
incendi in grado di mandare in rovina un uomo, bruciando
tutte le sue terre. Quassù fra le Marche di Confine c’erano così
tante cose facilmente infiammabili: erba secca, ciottoli secchi,
sementi secche.
Ma le nubi erano ancora distanti. Quella saetta non potevaessere caduta sulla sua proprietà. I nuvoloni neri e argento si
amalgamavano e ribollivano, alimentandosi e consumandosi
a vicenda.
Chiuse gli occhi, calmandosi e inspirando a fondo. Si era
forse immaginato quel tuono? Stava iniziando a vaneggiare,
come lo scherniva sempre Gaffin? Aprì gli occhi.
E le nubi erano proprio lì, sopra la sua casa.
Era come se fossero venute avanti all’improvviso, con l’intenzione
di colpire mentre lui distoglieva lo sguardo. Ora dominavano
il cielo, estendendosi per parecchia distanza in ogni direzione,
massicce e opprimenti. Poteva quasi sentire il loro peso
schiacciare l’aria attorno a sé. Trasse un respiro carico di improvvisa
umidità e sentì del sudore solleticargli la fronte.
Quelle nubi turbinarono, cumuli scuri color nero e argento
scossi da lampi bianchi. Tutt’a un tratto ribollirono verso il
basso, come l’imbuto di un tornado che veniva a prenderlo.
Cacciò un urlo, sollevando una mano come farebbe un uomo
davanti a una luce accecante. Quell’oscurità. Quella sconfinata,
soffocante oscurità. Lo avrebbe preso. Lo sapeva.
E poi le nubi scomparvero.
La sua pipa colpì le assi del portico con un lieve schiocco,
gettando uno spruzzo di tabacco bruciato sui gradini. Non si
era reso conto di averla lasciata andare. Renald esitò, guardando
il cielo azzurro ora vuoto, rendendosi conto che stava
rabbrividendo per nulla.
Le nubi erano di nuovo all’orizzonte, lontane circa quaranta
leghe. Rintronavano in modo sommesso.
Raccolse la pipa con una mano tremante, chiazzata dall’età
e scurita da anni passati al sole. È solo uno scherzo della tua
mente, Renald, si disse. Stai uscendo di testa, certo come due
più due fa quattro.
Era sulle spine per via del raccolto. Quello lo metteva sulle
spine. Anche se con i ragazzi usava parole ottimistiche, non era
naturale e basta. Ormai sarebbe dovuto germogliare qualcosa.
Aveva coltivato quella terra per quarant’anni! L’orzo non ci
metteva molto a germogliare. Che fosse folgorato, no che non
ci metteva molto. Cosa stava succedendo al mondo di questi
tempi? Non ci si poteva fidare che le piante germogliassero, e
le nuvole stessero dove avrebbero dovuto.
Si costrinse a rimettersi a sedere sulla sua sedia, le gambe
che gli tremavano. Eh già, sto diventando vecchio…, pensò.
Aveva lavorato come agricoltore per tutta la sua vita. Non
era facile nelle Marche di Confine, ma se lavoravi sodo, potevi
ottenere una vita prospera coltivando raccolti resistenti. ‘Un
uomo ha tanta fortuna quanti semi ha nel campo’aveva sempre
detto suo padre.
Be’, Renald era uno degli agricoltori più prosperi della zona.
Tanto da comprare le due fattorie accanto alla sua e da poter
portare al mercato trenta carri ogni autunno. Ora aveva sei
bravi uomini a lavorare per lui, che aravano i campi e tenevano
in buono stato gli steccati. Non che ogni giorno non dovesse
calarsi nel letame e mostrare loro cosa voleva dire coltivare
per bene. Non potevi lasciare che un po’ di successo ti rovinasse.
Sì, aveva lavorato la terra, vissuto la terra, come suo padre
era sempre solito dire. Comprendeva il tempo atmosferico
meglio di chiunque altro. Quelle nubi non erano naturali. Rintronavano
piano, come ringhi animali in una notte buia. In attesa.
In agguato nei boschi circostanti.
Sobbalzò a un nuovo boato di tuono che parve troppo vicino.
Quelle nubi erano lontane quaranta leghe? Era questo che aveva
pensato? Ora che le esaminava, gli pareva che fossero a dieci.
«Non metterti in testa strane cose» borbottò fra sé. La sua
voce gli dava una sensazione buona. Reale. Era bello sentire
qualcosa di diverso da quel rombo e dall’occasionale cigolio
delle imposte al vento. Non doveva essere in grado di sentire
Auaine all’interno, intenta a preparare la cena?
«Sei stanco. Tutto qua. Stanco.» Frugò nella tasca del suo
farsetto e tirò fuori il portatabacco.
Un debole rimbombo provenne da destra. Sulle prime, immaginò
che fosse il tuono. Però questo rimbombo era troppo
stridulo, troppo regolare. Non era un tuono. Erano ruote in
movimento.
E infatti un grosso carro tirato da un bue sormontò la collina
di Mallard, appena a est. Era stato Renald stesso a darle quel
nome. Ogni collina che si rispetti ha bisogno di un nome. La
strada era chiamata strada di Mallard. Perciò perché non dare
lo stesso nome anche alla collina?
Si sporse in avanti sulla sedia, ignorando di proposito quelle
nuvole mentre strizzava gli occhi verso il carro, cercando di
distinguere il volto del carrettiere. Thulin? Il fabbro? Cosa stava
facendo, come poteva guidare un carro tanto carico da toccare
il cielo? Sarebbe dovuto essere al lavoro sul nuovo aratro
di Renald!
Anche se era snello per il mestiere che faceva, Thulin era comunque
muscoloso il doppio di qualunque bracciante. Aveva
i capelli scuri e la pelle abbronzata di uno Shienarese, e teneva
il volto rasato secondo la loro moda, ma non portava il
codino. La famiglia di Thulin poteva far risalire le proprie origini
fino ai guerrieri delle Marche di Confine, ma lui stesso era
solo un semplice campagnolo come il resto di loro. Gestiva la
fucina a Oak Water, cinque miglia a est. Renald aveva giocato
parecchie partite di sassolini con il fabbro durante le sere invernali.
Thulin stava invecchiando: non aveva visto tanti anni
quanto Renald, ma gli ultimi inverni lo avevano indotto ad accennare
al ritiro. Quello del fabbro non era un mestiere per
vecchi. Ovviamente non lo era nemmeno quello del coltivatore.
Chissà se esistevano dei mestieri per vecchi.
Il carro di Thulin si avvicinò per la strada in terra battuta,
giungendo presso il prato recintato di bianco di Renald. Questo
sì che è strano, pensò l’agricoltore. Dietro il carro procedeva
una fila ordinata di animali: cinque capre e due vacche da
latte. Stie di polli dalle penne nere erano legate all’esterno del
carro, mentre il pianale stesso era stracolmo di mobili, sacchi e
barili. La giovane figlia di Thulin, Mirala, sedeva a cassetta con
lui, accanto a sua moglie, una donna dai capelli dorati originaria
del Sud. Era sposata con Thulin da venticinque anni, ma Renald
pensava ancora a Gallanha come ‘quella ragazza del Sud’.
Su quel carro c’era l’intera famiglia, con i loro migliori animali
al seguito. Era ovvio che si stavano trasferendo. Ma dove?
In visita a dei parenti, forse? Lui e Thulin non giocavano
una partita a sassolini da… oh, ormai erano tre settimane. Non
era certo tempo di visite, con l’avvento della primavera e la
fretta della semina. Qualcuno avrebbe dovuto riparare gli aratri
e affilare le falci. Chi l’avrebbe fatto se la forgia di Thulin si
fosse raffreddata?
Renald infilò un pizzico di tabacco nella sua pipa mentre
Thulin arrestava il carro accanto alla sua proprietà. Il fabbro
snello e brizzolato porse le redini a sua figlia, poi scese dal carro,
con i piedi che sollevarono sbuffi di polvere nell’aria quando
colpirono il terreno. Dietro di lui la tempesta distante ribolliva
ancora.
Thulin aprì il cancello del recinto, poi si diresse verso il portico.
Pareva distratto. Renald aprì la bocca per salutarlo, ma fu
Thulin a parlare per primo.
«Ho seppellito la mia incudine migliore nel vecchio campo
di fragole di Gallanha, Renald» disse il fabbro. «Ti ricordi dov’è,
vero? Ci ho messo anche i miei attrezzi migliori. Sono ben
ingrassati e si trovano all’interno del mio forziere più resistente,
foderati per tenerli all’asciutto. Questo dovrebbe impedire
che si arrugginiscano. Per un po’, almeno.»
Renald chiuse la bocca, tenendo la sua pipa mezza piena.
Se Thulin stava seppellendo la sua incudine… be’, significava
che non aveva intenzione di tornare indietro per un bel po’.
«Thulin, cosa…»
«Se non torno,» disse Thulin, lanciando un’occhiata verso
nord «dissotterreresti le mie cose e faresti in modo di occupar-
tene? Vendile a qualcuno che ci tenga, Renald. Non vorrei che
fosse uno qualunque a battere su quell’incudine. Mi ci sono
voluti vent’anni per racimolare quegli attrezzi, sai?»
«Ma Thulin!» farfugliò Renald. «Dove stai andando?»
Thulin si voltò di nuovo verso di lui, appoggiando un braccio
sulla ringhiera del portico, con un’aria solenne negli occhi
castani. «C’è una tempesta in arrivo» disse. «Perciò ho pensato
che era meglio dirigermi a nord.»
«Una tempesta?» chiese Renald. «Quella all’orizzonte, intendi?
Thulin, pare brutta – ah, sì, che le mie ossa siano folgorate
– ma non ha senso scappare. Abbiamo avuto brutte tempeste
in precedenza.»
«Non come questa, vecchio amico» disse Thulin. «Questo
non è il genere di tempesta che si possa ignorare.»
«Thulin?» chiese Renald. «Di cosa stai parlando?»
Prima che lui potesse rispondere, Gallanha lo chiamò dal
carro. «Gli hai detto delle pentole?»
«Ah,» disse Thulin «Gallanha ha lucidato quelle pentole col
fondo di rame che a tua moglie sono sempre piaciute. Sono sul
tavolo in cucina che aspettano solo Auaine, se vuole andarle a
prendere.» Detto questo, Thulin fece un cenno col capo a Renald
e s’incamminò verso il carro.
Renald sedette stupefatto. Thulin era sempre stato un tipo
schietto: preferiva dire quello che gli passava per la testa, poi
andare avanti. Era parte di quello che a Renald piaceva di lui.
Ma il fabbro poteva anche passare attraverso una conversazione
come un macigno che rotolava in mezzo a un gregge di
pecore, lasciando chiunque sbalordito.
Renald balzò in piedi, lasciando la sua pipa sulla sedia e seguendo
Thulin attraverso il prato e poi fino al carro. Maledizione,
pensò Renald, guardando verso i lati e notando di
nuovo l’erba marrone e gli arbusti secchi. Aveva lavorato sodo
su quel prato.
Il fabbro stava controllando le stie dei polli legate ai fianchi
del suo mezzo. Renald lo raggiunse e allungò una mano verso
di lui, ma Gallanha lo distrasse.
«Ecco, Renald» disse dalla cassetta. «Prendi queste.» Gli
porse un cestino pieno di uova. Una ciocca di capelli dorati le
era sfuggita dalla crocchia. Renald allungò la mano per pren-
dere il cesto. «Dalle ad Auaine. So che siete a corto di galline
per via di quelle volpi dello scorso autunno.»
Renald prese il cestino di uova. Alcune erano bianche, altre
brune. «Sì, ma dove state andando, Gallanha?»
«A nord, amico mio» rispose Thulin. Superò Renald e gli
mise una mano sulla spalla. «Suppongo che verrà radunato
un esercito. Avranno bisogno di fabbri.»
«Per favore» disse Renald, facendo un gesto col canestro di
uova. «Almeno fermatevi qualche minuto. Auaine ha appena
infornato del pane, una di quelle grosse pagnotte al miele che
ti piacciono. Possiamo discuterne durante una partita a sassolini.»
Thulin esitò.
«Faremo meglio a muoverci» disse Gallanha in tono sommesso.
«Quella tempesta sta arrivando.»
Thulin annuì, poi salì sul carro. «Magari potresti venire a
nord anche tu, Renald. Se lo fai, portati tutto quello che puoi.»
Fece una pausa. «Te la cavi abbastanza con gli attrezzi da poter
fare qualche lavoretto, perciò prendi le tue due falci migliori
e convertile in alabarde. Le tue due falci migliori; non economizzare
con qualcosa che vada quasi bene o abbastanza
bene. Prendi le migliori, perché sono le armi che userete.»
Renald si accigliò. «Come sai che ci sarà un esercito? Thulin,
maledizione, non sono certo un soldato!»
Thulin proseguì come se non avesse udito quei commenti.
«Con un’alabarda puoi tirar giù qualcuno da cavallo e infilzarlo.
E, ora che ci penso, potresti prendere le falci meno buone e
farci un paio di spade.»
«E cosa ne so io sul fare una spada? O su come usarla, se è
per quello…»
«Puoi imparare» disse Thulin, voltandosi verso nord. «Saranno
tutti necessari, Renald. Tutti quanti. Stanno venendo
per noi.» Tornò a guardare Renald. «Una spada non è così difficile
da fare. Prendi la lama di una falce e la raddrizzi, poi ti
trovi un pezzo di legno che faccia da guardia, per impedire
che la lama del nemico scivoli giù e ti tagli la mano. Perlopiù
userai cose che hai già.»
Renald sbatté le palpebre. Smise di porre domande, ma
non poteva fare a meno di pensarle. Si ammucchiavano nella
sua testa come bestiame che cercava di passare a forza attraverso
un unico cancello.
«Porta tutto il tuo bestiame, Renald» disse Thulin. «Lo
mangerai – o lo mangeranno i tuoi uomini – e ti servirà il latte.
E comunque sia, ci saranno uomini con cui potrai commerciare
con manzo o montone. Il cibo scarseggerà, considerando
tutto quello che si sta guastando e le riserve invernali quasi
esaurite. Porta tutto quello che hai. Fagioli secchi, frutta secca,
tutto quanto.»
Renald si sporse all’indietro contro il cancello della sua proprietà.
Si sentiva debole e fiacco. Infine si costrinse a porre una
sola domanda. «Perché?»
Thulin esitò, poi si allontanò dal carro, appoggiando di
nuovo una mano sulla spalla di Renald. «Mi spiace essere così
brusco. Io… be’, tu sai come me la cavo con le parole, Renald.
Non so cosa sia quella tempesta. Ma so cosa significa. Non ho
mai tenuto in mano una spada, ma mio padre ha combattuto
nella guerra Aiel. Sono un uomo delle Marche di Confine. E
quella tempesta significa che la fine si avvicina, Renald. Dovremo
essere lì quando arriverà.» Si fermò, poi si voltò e guardò
a nord, osservando quelle nubi che si ammassavano come
un contadino poteva guardare un serpente velenoso trovato
nel mezzo di un campo. «Che la Luce ci preservi, amico mio.
Dovremo essere lì.»
E, detto questo, tolse la mano e montò di nuovo a cassetta.
Renald li osservò allontanarsi, pungolando il bue affinché si
muovesse, diretti a nord. Renald li guardò a lungo, provando
un senso di intontimento.
Il tuono schioccò in lontananza, come il rumore di una frustata,
riverberando contro le colline.
La porta della fattoria si aprì e si richiuse. Auaine uscì e venne
verso di lui, con i capelli grigi raccolti in una crocchia. Erano
così da parecchi anni, ormai; era ingrigita presto, e Renald
era sempre stato affezionato a quel colore. Argento, più che
grigio. Come le nubi.
«Quello era Thulin?» chiese Auaine, osservando il carro sollevare
polvere in lontananza. Un’unica penna di pollo nera veniva
sospinta dal vento lungo la strada.
«Sì.»
«E non si è fermato, nemmeno per una chiacchierata?»
Renald scosse il capo.
«Oh, ma Gallanha ha mandato le uova!» Auaine prese il cestino
e iniziò a trasferirle nel suo grembiule per portarle dentro.
«È così cara. Lascia il cestino lì per terra: sono certa che
manderà qualcuno a prenderlo.»
Renald si limitò a fissare verso nord.
«Renald?» chiese Auaine. «Cosa ti è preso, vecchio ceppo?»
«Ha lucidato le sue pentole per te» disse lui. «Quelle col fondo
in rame. Sono sul tavolo della sua cucina. Sono tue, se le
vuoi.»
Auaine rimase in silenzio. Poi lui udì un netto rumore di
qualcosa che si rompeva e si guardò indietro. Lei aveva lasciato
afflosciare il grembiule e delle uova stavano scivolando giù,
cadendo a terra con un tonfo e rompendosi.
Con voce molto calma, Auaine chiese: «Ha detto nient’altro?»
Lui si grattò la testa, su cui in realtà non restavano molti capelli.
«Ha detto che la tempesta stava arrivando e che dovevano
dirigersi a nord. Thulin ha detto che dovremmo andare anche
noi.»
Rimasero immobili per un altro momento. Auaine tirò su il
bordo del suo grembiule, conservando la maggior parte delle
uova. Non degnò di un’occhiata quelle che erano cadute. Il
suo sguardo era fisso verso nord.
Renald si voltò. La tempesta aveva fatto un nuovo balzo in
avanti. E pareva essere diventata in qualche modo più scura.
«Penso che dovremmo dar loro ascolto, Renald» disse
Auaine. «Io… io andrò a preparare quello che ci occorrerà portare
con noi dalla casa. Tu puoi andare a radunare gli uomini.
Hanno detto per quanto staremo via?»
«No» rispose lui. «Non hanno nemmeno detto davvero
perché. Solo che dobbiamo andare a nord per la tempesta. E…
che questa è la fine.»
Auaine trasse un brusco respiro. «Bene, tu pensa a far preparare
gli uomini. Io mi prenderò cura della casa.»
Si precipitò dentro, e Renald si costrinse a distogliere lo
sguardo dalla tempesta. Girò attorno alla casa ed entrò nell’aia,
chiamando a raccolta i braccianti. Era gente robusta, bravi
uomini, tutti quanti. I suoi figli avevano cercato fortuna al-
trove, ma i suoi sei lavoratori per lui erano quasi come figli.
Merk, Favidan, Rinnin, Veshir e A’damad si radunarono attorno
a lui. Sentendosi ancora intontito, Renald mandò due di loro
a riunire gli animali, altri due a imballare grano e provviste
che avevano lasciato per l’inverno e l’ultimo uomo ad andare
a prendere Geleni, che era andato al villaggio per dei semi
nuovi, nel caso in cui la semina fosse andata male rispetto alle
loro scorte.
I cinque uomini si sparpagliarono. Renald rimase lì nell’aia
per un momento, poi andò nel granaio per prendere la sua
forgia leggera e portarla alla luce. Non era solo un’incudine,
ma una forgia completa e compatta, fatta per essere trasportata.
L’aveva montata su ruote: non si poteva lavorare a una
forgia dentro un granaio. Tutta quella polvere poteva prendere
fuoco. Sollevò i manici, portandola fuori nell’angolo apposito
a lato dell’aia, costruito con solidi mattoni, dove poteva effettuare
piccole riparazioni quando necessario.
Un’ora più tardi aveva attizzato il fuoco. Non era esperto
come Thulin, ma aveva appreso da suo padre che essere capace
di lavorare un poco i metalli faceva una grossa differenza.
Avolte non si potevano sprecare ore per andare e tornare
dalla città solo per aggiustare un cardine rotto.
Le nubi erano ancora lì. Cercò di non guardarle mentre lasciava
la forgia e si dirigeva nel granaio. Quelle nubi erano come
occhi, che sbirciavano da sopra la sua spalla.
Dentro il granaio la luce filtrava attraverso crepe sulla parete,
cadendo su polvere e fieno. Aveva costruito lui stesso quella
struttura, circa venticinque anni prima. Continuava ad avere
intenzione di rimpiazzare alcune di quelle travi del tetto
incurvate, ma ora non ci sarebbe stato tempo.
Giunto alla parete degli attrezzi, allungò una mano verso la
sua terza miglior falce, poi si fermò. Trasse un profondo respiro
e prese invece dal muro la migliore. Tornò fuori alla forgia
e le tolse l’impugnatura.
Mentre gettava da parte il legno, Veshir – il più anziano dei
suoi braccianti – si avvicinò tirando un paio di capre. Quando
Veshir vide la lama della falce sulla forgia, la sua espressione
si rabbuiò. Legò le capre a un palo, poi si diresse verso Renald,
ma non disse nulla.
Come fare un’alabarda? Thulin aveva detto che erano buone
per strattonare un uomo giù da cavallo. Bene, avrebbe dovuto
rimpiazzare il lungo manico ricurvo con un’impugnatura
dritta e più lunga di legno di frassino. L’estremità flangiata
del manico si sarebbe estesa oltre la parte terminale della lama,
foggiata in una punta grezza e rivestita di un pezzo di stagno
per una maggiore forza. E poi avrebbe dovuto riscaldare
la lama e percuotere la punta fino a mezza strada, formando
un gancio che avrebbe potuto strattonare un uomo giù da cavallo
e forse ferirlo allo stesso tempo. Fece scivolare la lama in
mezzo alle braci ardenti per arroventarla, poi iniziò ad allacciarsi
il grembiule.
Veshir rimase lì per un minuto circa, a osservare. Infine si
fece avanti, prendendo Renald per il braccio. «Renald, cosa
stiamo facendo?»
Renald si liberò dalla sua stretta. «Andiamo a nord. La tempesta
sta arrivando e noi andiamo a nord.»
«Andiamo a nord solo per una tempesta? Ma è follia!»
Era quasi la stessa cosa che Renald aveva detto a Thulin. Un
tuono risuonò in lontananza.
Thulin aveva ragione. I raccolti… i cieli… il cibo che si guastava
senza preavviso. Renald lo sapeva perfino prima di aver
parlato con Thulin. Dentro di sé lo sapeva. Questa tempesta
non sarebbe passata sopra le loro teste per poi svanire. Doveva
essere affrontata.
«Veshir,» disse Renald, tornando al suo lavoro «sei un bracciante
in questa fattoria da… quanto, quindici anni, ormai? Sei
il primo uomo che ho assunto. Ho sempre trattato bene te e gli
altri, non è così?»
«Mi hai trattato bene» disse Veshir. «Ma, che io sia folgorato,
Renald, non hai mai deciso di abbandonare la fattoria prima
d’ora! Questi raccolti si ridurranno in polvere se li lasciamo.
Questa non è un’umida fattoria del Sud. Come possiamo andarcene
così?»
«Possiamo,» rispose Renald «perché se non ce ne andiamo,
non avrà importanza se avremo seminato o meno.»
Veshir si accigliò.
«Figliolo,» disse Renald «tu farai come dico io, e questo è
quanto. Va’a terminare di radunare il bestiame.»
Veshir si allontanò a grandi passi, ma fece come gli veniva
detto. Era un brav’uomo, anche se era una testa calda.
Renald tirò fuori la lama dalle braci. Il metallo era ora incandescente.
La appoggiò contro la piccola incudine e iniziò
a percuotere la sezione bitorzoluta dove l’angolo inferiore della
lama incontrava la barba, appiattendola. Il rumore del martello
sul metallo pareva più forte del normale. Riverberava come
il fragore del tuono, e i suoni si fusero. Come se ogni colpo
del suo martello fosse esso stesso parte della tempesta.
Mentre lavorava, quei rintocchi sembrarono formare delle
parole. Come se qualcuno stesse borbottando in fondo alla
sua testa. La stessa frase, più e più volte.
La tempesta sta arrivando. La tempesta sta arrivando…Continuò a martellare, mantenendo il filo sulla falce, ma
raddrizzando la lama e formando un uncino alla fine. Ancora
non sapeva perché. Ma non aveva importanza.
La tempesta stava arrivando e lui doveva essere pronto.
Mentre osservava i soldati con le gambe incurvate che legavano
su una sella il corpo di Tanera avvolto in una coperta, Falendre
si oppose all’istinto di ricominciare a piangere e al desiderio
di vomitare. Era la più anziana e doveva mantenere un
minimo di compostezza se si aspettava che lo facessero anche
le altre quattro sul’dam sopravvissute. Cercò di dirsi che aveva
visto di peggio, battaglie in cui era morta più di una sola
sul’dam, più di una sola damane. Le riportò alla memoria il
modo esatto in cui Tanera e la sua Miri avevano incontrato il
loro destino, però, e la sua mente si ritrasse da quel pensiero.
Rannicchiata al suo fianco, Nenci piagnucolò mentre Falendre
accarezzava la testa della damane e cercava di inviare sensazioni
calmanti attraverso l’a’dam. Quello pareva funzionare
spesso, ma oggi non così bene. Le sue stesse emozioni erano
troppo in subbuglio. Se solo avesse potuto dimenticare che la
damane era stata schermata, e da chi. Da cosa. Nenci piagnucolò
di nuovo.
«Consegnerai il messaggio come ti ho ordinato?» disse un
uomo dietro di lei.
No, non un uomo qualunque. Il suono della sua voce agitò
la pozza di succhi gastrici che Falendre aveva nello stomaco. Si
costrinse a voltarsi per guardarlo, si obbligò a incontrare quegli
occhi freddi e duri. Cambiavano a seconda dell’angolazione
della sua testa, ora azzurri, ora grigi, ma erano sempre come
gemme lucenti. Falendre aveva conosciuto molti uomini
duri, ma ne aveva mai incontrato uno che lo era a tal punto da
perdere una mano e solo pochi istanti dopo comportarsi come
se avesse perso un guanto? Si inchinò in modo formale, dando
uno strattone all’a’dam cosicché Nenci facesse lo stesso. Finora
erano state trattate bene, per essere delle prigioniere in
quelle circostanze: era stata data loro perfino acqua per lavarsi
e, a quanto pareva, non sarebbero rimaste prigioniere a lungo.
Eppure chi era in grado di dire cosa poteva far cambiare
quella situazione, con quest’uomo? La promessa di libertà poteva
far parte di un qualche piano.
«Consegnerò il tuo messaggio con la cura che richiede»
esordì Falendre, poi esitò. Quale onorifico aveva usato lei?
«Mio lord Drago» si affrettò a concludere. Le parole le seccarono
la lingua, ma lui annuì, perciò doveva essere bastato.
Una delle marath’damane apparve attraverso quell’impossibile
buco nell’aria. Portava tanti gioielli quanto un membro
del Sangue e, addirittura, un puntino rosso nel mezzo della
fronte. «Per quanto hai intenzione di rimanere qui, Rand?» domandò,
come se quell’uomo dagli occhi duri fosse un servo,
piuttosto che ciò che era. «Quanto siamo vicini a Ebou Dar?
Questo posto pullula di Seanchan, sai, e probabilmente fanno
volare dei raken tutt’attorno.»
«Ti ha mandato Cadsuane a chiedermelo?» disse lui, e le
guance della donna si imporporarono un poco. «Non resteremo
ancora molto, Nynaeve. Qualche minuto.»
La giovane donna spostò lo sguardo verso le altre sul’dam
e damane, che prendevano tutte ordini da Falendre, fingendo
che non ci fossero marath’damane a sorvegliarle e specialmente
non uomini con giubbe nere. Le altre si erano rimesse in ordine
meglio che potevano. Surya aveva lavato via il sangue dal
proprio volto e da quello della sua Tabi, e Malian le aveva fasciate
con lunghi rotoli di garza tanto che sembrava che indossassero
dei bizzarri cappelli. Ciar era riuscita a ripulire buona
parte del vomito che aveva sporcato la parte anteriore del suo abito.

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“Presagi di tempesta”, R. Jordan – B. Sanderson, collana Collezione Fantasy, Fanucci Editore, Roma, 2011, 944 pp, 25 euro.