“Innamorarsi a Notting Hill” se ti impegni, puoi.

Marianna Abbate

ROMA – Quante volte al cinema, avete chiuso gli occhi proprio poco prima di quel magnifico bacio romantico, immaginando che le morbide labbra di Johnny Depp accarezzassero le vostre, invece di quelle insipide dell’insulsa attrice protagonista? Scarlett O’Brien lo ha fatto spesso.

Si è vista protagonista accanto ai più sexy divi del cinema, follemente innamorata e corteggiata dal bello che più bello non si può.

E poi ha pensato bene di trasportare i sogni nel mondo reale.

E’ questa, molto semplicemente, la trama del nuovo bestseller di Ali McNamara: “Innamorarsi a Notting Hill”. La giovane protagonista approfitta dell’inaspettata offerta di abitare per un mese a Notting Hill, scenario dell’indimenticabile film con Hugh Grant e Julia Roberts, per cercare insistentemente l’amore.

Nella vita vera, se ci fossimo trasferite a Notting Hill, avremmo avuto come vicini nell’ordine: una coppia di simpatici vecchietti, un parrucchiere molto in voga forse gay, un vecchio marpione, due giovani sposini, una coppia di lesbiche, una famiglia con sei figli urlanti, un fan sfegatato del heavy metal che non ci avrebbe fatto mai dormire. Invece Scarlett ha pure il vicino hot. Capiamoci: un romanzo di fantascienza.

Beh ora sapete benissimo cosa aspettarvi, un pomeriggio piacevole in compagnia di un po’ di fantasia femminile.

Il matrimonio secondo Rebecca West.

Giulio Gasperini
AOSTA – Rebecca West ha opinioni chiare e forti: “Continuo a pensare al matrimonio con grande paura e orrore. Non è che non mi piacciano gli uomini. Mi piacciono molto. […] Eppure sento che il matrimonio, l’ingresso in un sodalizio con un uomo, permanente, pubblico e favorito dallo Stato, sia l’atto più sconsiderato che esista”. La dose è rincarata: “Quando sento che una mia amica sta per sposarsi, provo per lei un dispiacere sincero. Quando un uomo mi chiede di sposarlo, mi sento ferita e imbarazzata. È come se mi avesse presentato qualcosa di simile a un’ingiunzione fiscale – un espediente ufficiale per ridurmi in miseria”. Le parole bastano a spiegare e autogiustificarsi: “Non è che non mi piacciano gli uomini”, curato da Francesca Frigerio e edito dalla Mattioli 1885, raccoglie un racconto lungo e un saggio nei quali la scrittrice britannica discetta su matrimonio e sue conseguenze. Per questa istituzione borghese la West non ha certamente parole dolci: “”Il pregiudizio che ho iniziato a nutrire da giovanissima verso il matrimonio mi impedisce di accettarli senza opporre una disperata resistenza”. Pregiudizio, ammette lei stessa; ma non si può certo dire che le ragioni, le motivazioni attraverso cui il suo attacco procede non siano né motivati né verosimili. La West sa quello che dice e, prima ancora di tutto il resto, lo sa comunicare in maniera cristallina e disarmante.
Nel racconto che apre il volume di Mattioli 1885, “Matrimonio indissolubile”, va in scena la rappresentazione grottesca di un’avventura matrimoniale: c’è un marito che odia la moglie, che odia il loro vivere borghese, che detesta il susseguirsi monotono e vuoto di giorni scanditi dalla routine del quotidiano; e inoltre pensa che lei lo tradisca, come nelle migliori favole coniugale; ma lei non lo sa, o forse preferisce ignorarlo. E l’unico modo che il marito trova per liberarsi della compagnia ingombrante della moglie è quello di ucciderla. La scena assume subito contorni onirici, una specie di visione che conserva, però, un’inquietudine e un morboso accesso voyeuristico di violenza. L’accelerazione è aggressiva; la descrizione dell’omicidio ossessiva. Ma la sorpresa è che tutto accade in sogno, in un’accelerazione all’odio e alla fissazione che scardina l’amore e il mutuo soccorso coniugale. Il risveglio è nel letto, nella culla della quotidianità matrimoniale, dove le coppie finiscono maggiormente per ignorarsi, ma dove si salva almeno il concetto di sponsale.
Nel saggio, invece, Rebecca West offre la chiave interpretativa per capire la sua vita e per comprendere l’ostilità profonda al vincolo coniugale. Nella sua avventura argomentativa si serve anche del Vangelo e prende in esame l’episodio della Samaritana: “Avevo capito che quando Gesù aveva incontrato la samaritana, si era addolorato perché aveva avuto cinque mariti, ma non mi era mai venuto in mente che il motivo del Suo dolore fosse il fatto che la donna aveva condotto una vita dissoluta […]. Pensavo che fosse arrabbiato perché la donna aveva gettato via la felicità prendendo un marito, il che ovviamente significava che era diventata povera, aveva dovuto fare dei lavori che le rovinavano le belle mani, indossare abiti brutti e distruggere se stessa, e perché poi non aveva capito quale fortuna le fosse capitata quando il marito era morto o se n’era andato, e se n’era addirittura preso un altro”. La sua conclusione è drastica, parole che non potrebbero esser più chiare con nessun commento: “Era come andare in bancarotta per cinque volte o finire in prigione per cinque volte per un crimine che si poteva tranquillamente evitare di commettere: una caparbia ricaduta nello squallore”.

“Macelleria Equitalia”, l’unica macelleria che possiamo permetterci

Marianna Abbate
ROMA  Equitalia è un nome che incute timore. Un nome che toglie il sonno, che agita. Non sono lontane le notizie di cronaca che presentavano disperati mentre entravano negli uffici del riscossore tributario armati fino ai denti. Perché Equitalia arriva inaspettatamente, colpisce quando sei tranquillo.

Alzi la mano chi negli ultimi due anni non ha ricevuto nessuna cartella dal famigerato ente? Io personalmente ne ho ricevute diverse, principalmente per multe finite nel dimenticatoio. Ma se il mio sacrificio è stato abbastanza ridotto (sotto i mille euro), non mi è difficile immaginare il dramma di una famiglia che si vede arrivare una cartella da 10.000 euro, quando il reddito annuo non supera i 14.000. E tutto magari per un impagato da poche centinaia di euro cui si aggiungono multe su multe.

 

Ed ecco qui la storia delle storie raccontate da Giuseppe Cristaldi nel suo “Macelleria Equitalia”, pubblicato da Lupo Editore. Cinque racconti brevi, immagini di vita vissuta. Non sono storie complicate, sono storie vere. Fatti nudi e crudi, inquietanti nella loro inesorabilità. Microstorie racchiuse nella macrostoria che si sta compiendo ora nel nostro Paese.

Quello Stato che aveva fatto di tutto per includere, per diffondere, per uniformare… beh quello stesso Stato oggi esclude. Traccia una linea netta tra chi è nel giusto e chi ha peccato del più grave dei peccati: l’indigenza. Non avere diventa una colpa gravissima: A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

Le parole dell’evangelista vengono interpretate nella concretezza più assurda e rimangono chiaramente incomprese.

Ad essere colpiti sono principalmente coloro che hanno da sempre fatto la ricchezza del paese, quei piccoli imprenditori che altro non sono che contadini, agricoltori, allevatori e artigiani. Quelli che hanno peccato nel modo più grave: non hanno pagato la Decima.

Ma se nel medioevo la Decima corrispondeva ad un decimo del raccolto, le tasse di oggi sono al 44%. Un peso insostenibile per chi già avrebbe problemi a contribuire con il 10%.

Tra guadagni presunti, valore aggiunto e scontrini il gioco non vale la candela, e così moltissime imprese sono costrette a chiudere i battenti. O non pagare le tasse.

Ma l’atto stesso di non pagare, di chiedere un dilazionamento, di cercare un po’ di respiro è un marchio indelebile sulla carne del malcapitato. Un segno che lo indica come parassita, grazie alla martellante pubblicità, come delinquente. Non importa se quelle tasse sono state sempre pagate: se hai mancato all’appuntamento non è perché sei povero, perché hai bisogno di aiuto, ma perché hai rubato. Hai nascosto nel materasso chissà quali tesori per acquistare una villa nei paradisi fiscali.

Ognuno giudica con il suo metro, e questo potrebbe farci comprendere molte cose. Forse lo Stato non riesce ad accettare l’idea che ci siamo impoveriti così tanto. Forse teme che tutto questo sia vero, nascosto dietro ai (poco) rassicuranti e (tanto) freddi numeri dell’Inps.

Ѐ questa l’Italia che ci racconta Cristaldi, l’Italia che cerca di rimanere a galla, che cerca di risalire il fiume. L’Italia che ogni giorno dimostra coraggio e forza di volontà e che un giorno tornerà a pagare tutte le tasse. Che, speriamo, non verranno più spese per pagare cenette romantiche e vacanze in yacht ai nostri cari politici.

“I nipoti di Scanderbeg”, verso l’Italia, alla ricerca dell’America.

Giulio Gasperini
AOSTA – Era il 1991. A marzo ne giunsero 27.000. Ad agosto 20.000 tutti su una sola nave partita da Durazzo. In quei pochi mesi la Puglia, e Bari in primo luogo, furono il teatro di uno sbarco di massa. Tanti albanesi, soprattutto giovani uomini, fuggivano dalla loro patria, perseguitati dalla mancanza di libertà, dal bisogno di un lavoro, dalla povertà asfisiante prodotta da anni di repressione di Enver Hoxha e del suo regime. Artur Spanjolli si trovava su quella nave, la Vlora, conquistata nel porto di Durazzo, che rappresentava una breccia inattesa per partire dalla disastrata Albania con nei pensieri soltanto l’Italia, l’Europa, la libertà e la ricchezza. In “I nipoti di Scanderbeg”, edito dalla coraggiosa casa editrice Salento Books, Artur Spanjolli ricostruisce quel lontano giorno d’estate, quando si trovava con gli amici in spiaggia, in pantaloncini e ciabattine, ignaro del destino che avrebbe provato a forzare, intraprendendo una rotta difficile e nemica.
L’Italia, per molti anni, dall’altra parte dell’Adriatico, era stata immaginata come l’America. Il luogo dove tutti i sogni si realizzano; dove si mangia; dove si diventa ricchi; dove si può pensare a un domani migliore. Dove poter fuggire un destino avverso e crudele. La televisione, i programmi con Pippo Baudo, le ostentazioni di merci e prodotti: chi potrebbe resistere a insistenti canti di sirene? A perfette e sfacciate fate morgane? Quelle che nel deserto allettano (e ingannano) gli assetati. In tanti partono, sfidando prima di tutto l’esercito albanese, poi le loro ansie, le paure; abbandonando gli affetti, la sicurezza dei parenti, la familiarità del suolo natio. L’esilio è il destino di tanti: decisione sofferta e dolorosa, frustrante e selvaggia. L’incredulità ferisce, però, quando il tentativo non riesce e dall’altra parte c’è il rifiuto, il respingimento.
Perché così accadde in Italia, in quei lontani giorni assolati. E così minutamente lo descrive Artur Spanjolli nel suo romanzo che è crudele e amara autobiografia. L’Italia non li volle; il Governo, in ritiro estivo a Cortina (premier era Andreotti, tanto per cambiare), non seppe darsi coraggio e preferì contravvenire alle regole del diritto d’asilo: tutti imbarcati su un aereo, a turno, e riportati al loro paese, dalla geografia così vicina ma dalla vita sì remota. E non importava se tra i tanti albanesi ci fossero perseguitati politici, ragazzi in pericolo di vita, disperati senza nessuna prospettiva. Tutti dentro il ventre di un aereo e tutti di nuovo indietro. “I nipoti di Scanderbeg” fa riflettere su uno dei drammi più evidenti dello scorso secolo; instilla in noi il dubbio di cosa sia un’accoglienza vera, di quali siano i bisogni dell’uomo, di cosa si possa fare per rispondere. Artur Spanjolli non ha parole di condanna, per l’Italia. Quanto, piuttosto, di incredulità. Dov’è l’Europa? Dove la libertà? Dove i diritti? Dove la dignità umana? Dove la sicurezza, la protezione, il rispetto della vita? Accanto ai tanti gesti di umanità, a cui lui stesso assistette e ne fu il beneficiario, si schiera un campionario di assurdità: non ci si stupisce, però, che questi ultimi siano esclusivamente riferiti ai responsabili e ai detentori del potere. Politico, in primis.

Un nuovo viaggio tra “I vivi, i morti e gli altri”

Michael Dialley
AOSTA – È un’Italia, un mondo, dove gli uomini devono combattere contro il popolo dei non-morti, gli zombie, che stanno prendendo il sopravvento e si stanno moltiplicando all’ennesima potenza: uno scenario, insomma, che richiama quella tradizione del XIV secolo legata ai “Trionfi della morte” che si trovano nel panorama artistico e letterario del tardo medioevo.
Claudio Vergnani torna nelle librerie con “I vivi, i morti e gli altri”, per la casa editrice Gargoyle books, per raccontare questo mondo caduto nel caos totale; è una lettura scorrevole, che permette un momento di evasione e di “stacco della spina” dal caos reale che regna, oggi, nella società.
Oprandi, il protagonista, è un uomo di mezz’età, che ha fatto ormai la sua vita e che ha il vizio dell’alcool: ex combattente, la sua attività attuale è uccidere gli zombie, dar loro l’eterno riposo che la morte dovrebbe concedere ad ognuno.
Sono situazioni difficili, agghiaccianti, con immagini crude e suoni: sì, vengono descritti nei dettagli i moltissimi rumori che questi cadaveri fanno nei cimiteri, nei loro loculi, nelle casse; da un grattare continuo e costante a mugolii ed urla vere e proprie.
Ma non è solamente questa “non morte” la protagonista del romanzo, anzi: la chiave dell’intero racconto è Oprandi, la sua anima, la sua psicologia, i suoi sentimenti. È un uomo straziato dalla solitudine e dal dolore e cerca di reagire a queste difficoltà nel migliore dei modi, ma soprattutto con i mezzi che ha; in un momento di particolare crisi, però, ogni volta arriva qualche aiuto: dalla signora che prega per lui e gli dona una medaglietta di San Cristoforo, fino ad un incarico che, sì è molto difficile e complesso, ma che promette la tanto agognata luce in fondo al tunnel.
Durante questo incarico il protagonista vivrà situazioni estreme e di estrema difficoltà, ma conoscerà anche la passione, l’aiuto di persone estranee, l’amore per una ragazza che sarà costretto a abbandonare, il dolore della perdita. Oprandi ha una missione che lo porta a camminare sempre sul filo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, ma che gli fa riconoscere quanto, a volte, siano meglio i cannibali bramosi di carne (che non hanno più un’intelligenza, ma rispondono solo alla loro fame) rispetto a quegli uomini, ancora vivi, che hanno perso qualsiasi umanità (ma che sono assolutamente in grado di pensare ed agire secondo la ragione); emerge, infatti, la crudeltà fine a se stessa, la parte peggiore dell’uomo in momenti di estrema difficoltà e drammaticità.
Estremo silenzio ed estrema solitudine, alternati a caos, rumori, spari ed incendi: su questo dualismo si snodano le vicende del romanzo, che permettono al lettore, piano piano, di entrare sempre di più in quella realtà e, soprattutto, in Oprandi.

“Francesca e il cavaliere- La singolare storia della fidanzata di Berlusconi”

Marianna Abbate

ROMA – Su facebook gira una divertente vignetta che rappresenta una donna corrucciata con un foglio in mano, mentre dice “Belèn ha partorito (o qualsiasi altra news del momento) fammelo aggiungere alla lista delle cose di cui non me ne frega un…”. Ora sono convinta che leggendo il titolo di questo articolo, questo pensiero sia balenato nella testa di molti di voi. Allora spiegatemi perché lo state leggendo?  E’ un po’ la stessa cosa che è successa a me quando mi sono trovata davanti la copertina di “Francesca e il cavaliere”, con la bella immagine che potete vedere anche voi. La scelta strategica del bianco e nero copre le orribili discrepanze di colore del fondotinta, sul volto della statua di cera in cui si è ultimamente tramutato il Cavaliere, mentre la donna sulla destra assume sembianze familiari. Quella bocca a impostata e lo zigomo pronunciato ricordano vagamente Alba Parietti oltre ad una lunga lista di protagoniste della vita pubblica italiana, tra cui l’onorevole Santanchè. Sarebbe tutto giustissimo, se non fosse che la signora ritratta non ha raggiunto le 50 candeline, ma si aggira intorno alle 27/28, ed è la prescelta ad assumere l’arduo compito di “fidanzata” della statua di cera di cui sopra.

Ora noi possiamo anche far finta di credere che Ruby sia la nipote di Moubarak, ma la storia del vero amore è veramente tanto difficile da mandare giù. Spinta da un’immensa curiosità sociale (chiamiamola così) ho guardato una serie infinita di slideshow su internet, che mostravano una elegantissima Pascale vestita turchese dal vestito, al soprabito, alle scarpe che neanche la regina Elisabetta, mentre passeggia allegramente per le vie di Roma e incurante dei mille fotografi, chiacchiera e saluta decine e decine di amici. Che ragazza socievole e disinvolta! Un piacere da guardare su tutti i giornali, mentre ci facciamo la piega dal parrucchiere.

Secondo gli autori di questo saggio pubblicato da Centoautori (a produrre questa perla sono in due, Mariagiovanna Capone e Nico Pirozzi, ma non ce l’ho con loro: il libro è scritto bene e l’argomento attira il pubblico) la scelta di fidanzarsi ufficialmente doveva aiutare Berlusconi a coprire qualcos’altro. Ci sono molte discrepanze nei fatti raccontati, elementi che non coincidono o che sono stati modificati nel tempo.

Ora, sinceramente, la vignetta di cui parlavo all’inizio, torna imperterrita alla mia memoria. Perché che Berlusconi sia fidanzato o meno cambia poco al mio quotidiano. Tuttavia, l’implicazione che l’eventuale fidanzata potesse proteggerlo dai capi d’imputazione la fa scomparire. Effettivamente questo punto potrebbe interessarci.

Il percorso della giustizia ci riguarda tutti, e gli escamotage per sfuggirle sono sempre un argomento molto interessante.

 

“Le cose brutte non esistono”: i punti di vista che frantumano lo specchio.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci guardiamo allo specchio e siamo sicuri dell’immagine che ci rimanda. Ci siamo noi: coi nostri inattesi capelli bianchi; con le nostre occhiaie; coi nostri dubbi. E poi capita che guardiamo gli altri riflessi allo specchio e, si sa, che tutto cambia. Tanti ne hanno scritto, tanti ne hanno discettato, tanti ci han speculato. Ognuno di noi ha la sua prospettiva e difficilmente due ritratti indiretti arrivano a combaciare. Anche solo di qualche dettaglio. Riccardo Romani scrive un delizioso romanzo, “Le cose brutte non esistono”, pubblicato in un’edizione raffinata – ne rendiamo merito – dalla 66thand2nd nel 2013, incentrato sul tentativo compiuto da un ragazzo mediocre – detto, anni fa, inetto – nel tentativo di smarcarsi dall’ombra incombente di un padre incomprensibile e ingombrante. Ma la sua ricerca si scontra con l’evidente risultato di un fraintendimento enorme, colossale: il padre è un eroe. Un imperfetto eroe.
Quell’uomo che portava a casa ragazze sempre diverse, che arrivava e ripartiva accompagnato da un uomo altrettanto misterioso ma più comunicativo di nome Alfonso Duro, che ignorava la moglie con una precisione maniacale, che evitava ogni affettuoso approccio col figlio e, anzi, lo puniva anche fisicamente, accusandolo di essere gay, per la sua timidezza e ansia da prestazione. Quell’uomo che in ogni immagine si figura tiranno e dominatore un giorno muore. E la sua morte spalanca un’urgenza di sapere, un bisogno di conoscere che porta il ragazzo a volare dall’altra parte del mondo, all’inseguimento di una ragazza dalle poche parole e dalla storia confusa. Era stata proprio la fuga con lei che aveva sancito la misura più alta di ribellione dal padre: lei, destinata a mandare avanti la tabaccheria di famiglia nel paesino dove vivevano, aveva subito esercitato sul ragazzo un’attrazione irresistibile, per qualche motivo apparentemente ignoto. La verità sarà ricercata in modo anche casuale, randomico, nello scenario degli Stati Uniti del Sud, assolati e aridi. Sarà un libretto del 1995 a fare un po’ di luce, di chiarezza, in una vicenda che è un continuo e altalenante allacciarsi di rapporti, di amicizie e di contrasti.
Il romanzo è tutto in sospensione e sottrazione; nulla è chiaro fino in fondo e non è dato capire appieno la direzione verso cui si sta andando. La luce della risoluzione del mistero è lasciata filtrare a gocce, lentamente, come sabbia in una clessidra. Ma lo sguardo non raggiunge mai l’insieme perché sono i dettagli a stabilire le giuste calibrature. E i dettagli ci suggerisco che, come per gli sguardi, possono sempre rappresentare troppi significati tutte assieme.

 

Vedi QUI il booktrailer de “Le cose brutte non esistono”

“A cuore aperto”: la confessione di un uomo tradito da sé stesso.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono delle volte in cui è il tuo stesso corpo a tradirti; come se si ribellasse al tuo volere; come se non avesse nessuna remora, nessun pudore di colpirti a tradimento, quando di situazioni ne hai affrontate di ben più gravi e pericolose. E ti senti forse anche più indifeso, in pericolo. Perché oltre alla vita rimetti in gioco la fedeltà a te stesso. Questo “A cuore aperto”, edito da Bompiani nella collana Grandi PasSaggi, è la storia di un uomo che scopre la paura di morire. E si sorprende. La storia di Elie Wiesel è nota: deportato ad Auschwitz e a Buchenwald, autore dello straordinario “La notte”, premiato con il Nobel per la pace nel 1986. Dopo una vita così, si potrebbe anche pretendere di sentirsi al sicuro, oramai, dai colpi della sorte e dalle coincidenze del caso. E invece no, perché a compromettere la sicurezza e la pace questa volta è una parte del proprio corpo: il cuore cede. Quasi d’improvviso; o comunque in maniera sorprendente. I guai si cercano altrove, in altri organi, e invece è la pompa che non funziona bene e che danneggia tutto il resto.
Sicché il ricovero in ospedale, un’operazione che tutti prospettano con una sicurezza chirurgica ma che si sa quanti rischi comporta (e dalla quale qualcheduno non si è mai più risvegliato), la dolorosa convalescenza sono i pretesti per rimettere tutto in discussione, come se i bilanci non fossero mai definitivi e ci fosse sempre qualcosa su cui riformulare il giudizio e ricalibrare il significato. Elie Wiesel passa così in rassegna tutti gli aspetti della sua vita, tutte le declinazioni del suo impegno, della sua ostilità all’indolenza e all’accidia, con la consapevolezza che “se Auschwitz non ha saputo guarire l’uomo dal razzismo, che cosa potrebbe riuscirci?”: l’insegnamento, che tanto ama e che deve lasciare interrotto; il suo impegno “contro la banalizzazione di Auschwitz”; la rassegna delle sue opere, da “L’oblio” a “Ani Maamin”; il tema della Bufera, chiamata così in montaliana memoria; il rapporto con Dio (“Troverò l’audacia di rimproverarGli il suo incomprensibile silenzio?”); il legame di profondo amore con la moglie e con il figlio che lo assistono indefessi al capezzale.
Elie Wiesel depone l’orgoglio, il pudore virile e affronta quest’ennesima avventura svelando tutte le sue debolezze, i suoi tremori, le sue angosce di avere a che fare con un nemico che lo spaventa, perché non dà certezze; ma soprattutto che disarma proprio perché nemico che proviene dall’interno del sé: “Ritenevo che la morte non mi spaventasse. Non ero vissuto con essa, e anche in essa? Perché temerla adesso?”. Non teme neppure di scadere nel patetico e nello sdolcinato, di virare verso una presunta saggezza strappalacrime. Perché Elie Wiesel è solo un uomo e questa volta deve combattere contro il suo stesso corpo.

Grandi letture ad un prezzo piccino picciò.

Marianna Abbate
ROMA – Certe buone idee non hanno bisogno di essere nuove. Specialmente in questo momento storico/politico, la scelta di riciclare vecchie buone idee ha un sapore ecologico e salutare. E così la cara vecchia Newton Compton, storica editrice romana si è rinnovata ancora una volta frugando nei vecchi magazzini.  Nota bene: la Newton Compton ha sempre avuto buone idee, tanto che negli ultimi tempi da piccola casa editrice è diventata una media abbondante, e chissà cosa le riserverà il futuro.
Comunque veniamo a noi. Il punto di forza di questo editore è da sempre stato il prezzo: se guardate bene nelle vostre librerie troverete sicuramente i mitici volumetti da mille lire. Con il passaggio all’euro i libricini sembravano spariti dalla circolazione, sostituiti dai grandi romanzi rosa, un po’ commerciali, a 9,90 euro. Libri da spiaggia, diciamolo, ma con una particolare attenzione alla grafica e alla copertina.

Ed ecco che, camminando tra gli scaffali di un negozio di articoli elettronici mi trovo davanti ad un cesto pieno zeppo di libri: tutti ad 1 euro meno 1 centesimo. Copertine coloratissime e autori ultranoti. Ho approfittato subito per accaparrarmi un Grande Gatsby da regalare a quella capretta del mio ragazzo, che al cinema durante “Midnight in Paris” mi ha sussurrato “Fitzgerald chiii??” facendomi vergognare come un ladro.

Orbene, educare il proprio fidanzato ha un prezzo: un prezzo molto basso, che tutte siamo disposte a pagare. Mi stanno venendo in mente mille slogan promozionali per la collana, ma li terrò per me.

Per me ho preso tre libricini carinissimi: “Le notti bianche” di Dostoevskij, “Lady Susan”della Austen e “Il ballo” della Nemirovsky. Per ora ho letto solo “Il ballo”: un racconto piacevolissimo sulle contraddizioni della società e sulla moralitas tra aristocrazia e nuovi ricchi negli anni ’20, applicabile facilmente ai giorni nostri.

Ma chi vuole può trovare Seneca, Poe e persino un libro sui vampiri che ho guardato un po’ incredula. Comunque il mio consiglio è: fatevi una bella scorta e preparate delle monete. Mica potete pagare con la carta 2.97 euro per 3 libri!

“La neve nell’armadio”: spiegare “la vergogna del mondo”

 

Marianna Abbate

ROMA – “La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più da soltanto fastidio”: Sono questi i primi tristi versi della poesia di Nelo Risi che Mottinelli ha scelto per intitolare il suo saggio “La neve nell’armadio” Auschwitz e la “vergogna del mondo” edito da Giuntina.

Vi riporto questi versi perché io stessa ho sperimentato il fastidio delle persone al mio ennesimo ritorno sulla questione dei campi di concentramento: è un’ossessione, mi dicono, sei depressa e ti crogioli nella tragedia. Ci ho riflettuto a lungo su queste parole. Perché sì, è vero che parlo di Auschwitz spesso. Lo riporto alla memoria di chi porta la croce celtica al collo, di chi osa dire che Mussolini era un grand’uomo, di chi difende il fascismo o accusa gli ebrei. Lo ricordo a chi tranquillamente non cambia canale quando in televisione torturano qualcuno, a chi non mostra pietà per le vittime delle tragedie quotidiane.

Questa tragedia abita il mio cuore, è vero. Ma non è un’ossessione: è un obbligo morale.

Mottinelli ci avvicina ad Auschwitz in una direzione nuova: l’analisi della vergogna. Una vergogna innominata che aleggia su tutti gli eventi che riguardano la Shoah. E una vergogna che inspiegabilmente non appartiene ai carnefici ma alle vittime, che ferisce ulteriormente chi già ha subito le peggiori torture del mondo.

L’autore ci spiega come questa vergogna cambi volto nelle diverse rappresentazioni del campo di concentramento. La vergogna quasi completamente assente come parola nel documentario, lungo oltre 9 ore, di Lanzmann Shoah, pronunciata una volta sola: eppure pienamente presente in ogni immagine, nei silenzi e negli occhi di chi racconta la sua testimonianza, incalzato dal meticoloso regista.

La stessa vergogna si può ritrovare nei racconti di testimoni, nei loro scritti. “Provavo vergogna per loro, per come ci avevano ridotte” dice Goti Bauer. Con un semplice transfer la colpa passa dal carnefice alla vittima, secondo lo stesso meccanismo che segna di peccato l’oggetto di una violenza carnale. E’ il torturato stesso a cercare in sé improbabili colpe, per giustificare la terribile pena che ha subito.

La vergogna ha mille volti: quello del Sonderkommando che non ha saputo ribellarsi al terribile compito, quello di chi non ha saputo guardare in faccia l’assassino, di chi non ha alzato la voce quando davanti ai suoi occhi uccidevano un bambino. La vergogna ha il volto di chi è tornato e non lo meritava, insultato in faccia da chi aspettava che tornasse l’altro. Ha il volto di quello che non riesce a guardarsi allo specchio, ripensando agli atroci martiri che ha subito, alle umiliazioni che ha sopportato.

Ha il volto di Primo Levi, che si guardava disgustato della propria bassezza quando supplicava per un tozzo di pane. Quella stessa vergogna che lo portava a chiudere con attenzione i polsini delle camicie per non mostrare quell’orribile tatuaggio. Quel numero che era impresso nelle sue viscere, e che ormai era il suo vero nome.

La vergogna ha un peso. Forse il più insopportabile.

Come spiegare altrimenti i lunghi silenzi dei salvati? La fatica a trovare le parole che potessero spiegare quello che si è vissuto? Come far capire Auschwitz?

Quel campo per molti è diventata l’unica casa possibile, l’unico posto da abitare. Il luogo dove si sentivano compresi.

Fuori da queste mura non c’è un posto da vivere per chi ha “vergogna del mondo”.