Auschwitz, ti racconto da dove vengono quelle foto.

Marianna Abbate
ROMA – 3444, il numero che ha portato impresso nella pelle fino alla morte è stato il suo nome. È sopravvissuto molto più a lungo dei tre mesi previsti per gli internati di Auschwitz, è sopravvissuto ad Auschwitz. Con un numero così basso ne sono rimasti davvero pochi, da contare sulle dita di una mano. Quel numero maledetto che ha raggiunto le centinaia di migliaia.
Li ha visti quasi tutti in faccia quei numeri, Wilhelm Brasse, quel polacco che di tedesco aveva solo il nome. Li ha guardati negli occhi, dapprima nascosto al sicuro del blocco 26, dove si era creato un microcosmo, al sicuro dagli orrori esterni. Ma i muri di Auschwitz sono di vetro, e non importa quanto ti nascondi, non importa quanto forte stringi gli occhi per non guardare: il lager ti entra dentro.

Così il lager è venuto a cercarlo nel suo nascondiglio sicuro, ma non per ucciderlo. Il lager ha chiesto il suo aiuto, la sua anima.

La sua storia la raccontano Luca Crippa e Maurizio Onnis, nel libro edito da Piemme nella collana Voci con il titolo “Il fotografo di Auschwitz”, con un sottotitolo estremamente chiaro: il mondo deve sapere.

È stato fortunato, Brasse, a diventare il fotografo del lager. Fortunato a veder sfilare davanti al suo obbiettivo Zeiss migliaia di facce malconce e centinaia di terribili assassini in divisa.

È stato fortunato anche quando il dottor Clauberg aveva tirato fuori con un forcipe l’utero vivo di decine di giovani ebree addormentate. Quando aveva fotografato quegli uteri sterilizzati in fredde bacinelle metalliche.

Quando Mengele gli ha chiesto di fotografare coppie di gemelli destinati a morire, bambine nude, denutrite e spaventate. Quando ha visto il bellissimo tatuaggio della schiena di un uomo che aveva fotografato, scuoiato e conciato per diventare la copertina di un libro.

Quando dopo la guerra, la donna di cui si era innamorato nel campo non poteva sopportare la sua vista, quando lui stesso non riusciva a tenere il peso della macchina fotografica in mano e nei volti degli avventori del suo nuovo negozio rivedeva quegli occhi, unica parte ancora viva, degli avventori del blocco 26. E se chiudeva gli occhi sentiva di nuovo l’odore nauseabondo delle donne, che nel campo non avevano acqua per lavarsi. Quelle stesse donne che per le botte e per la fame non avevano più il ciclo, sterili già prima che il dottor Clauberg mettesse le sue scientifiche mani su di loro.

Se leggendo queste parole provate disgusto, se vi ho scandalizzato, non mi scusate. Era mia intenzione. Perché so’ che molti di voi non compreranno mai questo libro, e probabilmente questo articolo sarà una delle poche cose che conoscerete di Auschwitz.

Alcuni negheranno persino l’esistenza di un posto così. Ma non basta dire la parola orrore per capire cosa significa: l’orrore ha bisogno di essere esplicitato, per essere capito.

Perché è necessario comprendere che a guidare il tutto era la casualità: non era necessario essere ebrei per morire ad Auschwitz. Poteva accadere a chiunque.

Quindi, caro lettore, non sentirti esentato dal dolore. È un dolore che deve appartenerti, che devi conoscere, fa parte della tua stessa umanità.

“Scrittori brutta razza”: lo scrittore che definisce sé stesso.

Scrittori brutta razzaGiulio Gasperini
AOSTA – Chi è lo scrittore? Tutti – soprattutto gli scrittori – si sono posti tale domanda. Come se la scrittura fosse stata inventata soltanto per far capire agli scrittori chi fossero in realtà: una sorta di tentativo continuo di risolvere la perenne crisi d’identità. Il problema, effettivamente, è che nessuno probabilmente ha mai trovato una risposta soddisfacente. E anche Luigi Saccomanno, con il suo caratteristico stile in sottrazione, fratto e frammentato, crivellato di punteggiatura, tenta di azzardare la sua definizione: e lo fa tratteggiando la figura molto particolare dello scrittore che scrive l’opera stessa, “Scrittori brutta razza”, edito da Lupo Editore nel 2013 nella collana InBox.
Definire romanzo il testo di Luigi Saccomanno è un’audacia. E anche ipotizzare una “prosa poetica” diventa anacronia. Si tratta piuttosto di un diario fluido, una registrazione completamente filtrata dall’interiorità del narratore, di una storia viva, vegeta, pulsante ma che mantiene i tratti di una visione onirica, di un viaggio in profondità nella coscienza scoperta e dolorante dei due personaggi principali, lui e lei. Entrambi poco umani e poco reali ma molto simbolici, portatori di valori che sono ben più profondi e consistenti.
Forte e severa la polemica con quegli scrittori che si tradiscono per vendere, che inficiano sé stessi e le loro opere per una firma su un contratto, per la vanità di avere pile di volumi all’entrata delle librerie e file ininterrotte di ragazze a chiederne incostanti un autografo. E nella società letteraria del nostro tempo ne potremmo individuare molti; impuniti. Lo scrittore compie un percorso di dolorosa ma necessaria catarsi: la violenza della separazione, la presunta colpa di una morte, la delusione professionale sono tutti moventi che lo porteranno, a distanza di anni, in un calendario quasi sacrale, a compiere il gesto di supremo annientamento, costringendosi e obbligandosi nella condizione più utile e irrinunciabile per il pensiero; e per cominciare quel serio percorso di teorizzazione che comunque sarà sempre mancante di qualche elemento, di qualche dettaglio. Le colpe che lo scrittore si attribuisce sono inflessibili, le tecniche svelate, i dolori denunciati; i trucchi, in definitiva, svelati, come se si trattasse di uno scarso prestigiatore, di un illusionista sfiancato e stanco. Ma, in realtà, il fatto stesso di scrivere è già un trucco che ne prevede altri, senza mai arrivare a un disvelamento completo e totale.

La vicenda narrata nel romanzo diventa un vero e proprio espediente narrativo. Le figure che compaiono, poche, pochissime, sono dei vettori, degli acceleranti per le ultime pagine del romanzo, quelle dove più che in altri luoghi si riflette e si teorizza su chi (e cosa) sia realmente e concretamente uno scrittore. Domande alle quali, come si evince anche dall’opera di Saccomanno, non è per nulla facile rispondere.

Novità: “Venezia nel piatto”, cucina e ricette della città lagunare

venezia nel piatto_marsilio_chronicalibriVENEZIA“Venezia nel piatto… ma che piatto!”, il libro di Enrica Rocca con le fotografie di Jean Pierre Gabriel, sarà in tutte le librerie da mercoledì 6 novembre. Pubblicato da Marsilio, “Venezia nel piatto” è un viaggio nella cucina veneziana; una cucina semplice, perché semplici sono gli ingredienti di base, i metodi di preparazione e i tempi di cottura, ma allo stesso tempo è complessa perché è il risultato di un lungo processo di commistioni tra Oriente e Occidente, di incontri e scontri che hanno dato vita ad accostamenti decisi e inusuali. La tradizione gastronomica veneziana è anche il frutto di un territorio molto particolare, in cui acqua e terra si compenetrano strettamente. Ecco, quindi, il pesce ed i crostacei della laguna e del vicino Adriatico, le verdure e la frutta delle isole dell’ estuario, la carne e la cacciagione della terraferma, le spezie provenienti dal lontano Oriente. Quale miglior modo per presentare i piatti tradizionali veneziani, come i Risi e bisi o le Sarde in saor, dei magnifici vetri di Murano?

 

In un inedito e azzardato abbinamento fra gastronomia e arte, fra bellezza e sapore, il vetro veneziano, da sempre sinonimo di raffinatezza e buon gusto, mostra i suoi molteplici aspetti affascinanti e sempre attuali e rivive sulla tavola moderna grazie a questi originali accostamenti. Piatti, coppe, bicchieri delle più famose manifatture muranesi (Venini, Barovier & Toso, Seguso) e dei maggiori artisti contemporanei (Carlo Moretti, Massimo Michieluzzi) si reinventano in una nuova dimensione e riacquistano attualità.

“Morte di un autore”: un Dracula narrativo.

Morte di un autoreGiulio Gasperini
AOSTA – Quando uscì nel 1897 il “Dracula” di Bram Stoker divenne un caso editoriale. Non soltanto per la storia agghiacciante ma seducente che narrava, ma anche per la modalità narrativa in cui era stato composto: un sommarsi e sovrapporsi di lettere e pagine di diari che consentivano di aggiungere un tassello alla volta nella ricostruzione del quadro complessivo, tanti sapidi punti di vista che edificavano una narrazione non scontata e mai banale, sempre in attesa. Nessuno era il narratore principale ma tutti i personaggi, in una coralità sinfonica, co-partecipavano alla narrazione stessa.
Marija Elifërova, in “Morte di un autore”, edito da Voland nel 2013, ha deciso di prendere il capolavoro di Stoker come modello per consegnarci una storia fluida e appassionante su un novello vampiro, il misterioso personaggio, Miroslav Eminovič. Di questa storia, magistralmente narrata, non si può svelare troppo; pena, la perdita di gran parte del piacere della letteratura. Uno dei meriti principali della Elifërova è senza dubbio quello di aver creato un romanzo in frammenti, sfruttando un divertissement narrativo di notevole e indubbio impatto emotivo. Non ci sono soltanto lettere, tra le fonti della Elifërova: ci sono anche ritagli di giornale, di cronaca, di cultura, di critica; ci sono le improbabili pagine della grande Virginia Woolf; c’è la seduzione del cinema e la vanità degli attori; ci sono le pagine intelligente di una studentessa tedesca; ci sono le pagine dettagliate e poetiche di una donna che finirà pazza. Ci sono tante angolazioni, squadernati con sapienza e maestria da una narratrice che sa orchestrare e dirigere i molteplici e distanti punti di vista.
La storia forse è in parte prevedibile, in qualche momento anche scontata. Ma non è l’interesse principale di chi scrive. L’autrice si intuisce come voglia tenere tesa e vibrante l’attenzione del lettore rivelando poco alla volta, centellinando le confessioni e i dettagli, svelando emozioni e misteri con una perizia più che giornalistica. La storia di Miroslav Eminovič incuriosisce e stupisce: e fondamentale, in tal senso, è l’importanza che la Elifërova, nella sua veste di autrice, attribuisce all’importanza dello studio, della filologia, dei tomi alti e polverosi che infestano, per molte persone, le biblioteche, ma che invece le popolano di vita e saggezza. Il più svettante dei meriti, però, la Elifërova l’ha squadernato nella costruzione del rapporto tra autore (fittizio), protagonista (e modello) e riproduttore del protagonista (l’attore): le tre figure, di Alistair Mopper, di Miroslav Eminovič edi Imre Mikesz, rappresentano un capolavoro di sintesi del rapporto tra chi la storia la scrive (che lentamente si spegne di mancata fantasia), di chi ne è protagonista (e che pare vivere solo in funzione della narrazione) e di chi la riproduce (che diventa folle e non conserva più individualità). Il consueto gioco di specchi tra finzione e realtà, che in tanti hanno provato a teorizzare ma che mai nessuno è riuscito – con sapienza eterna e compiuta – a risolvere.

Le tante “Corde” delle nostre vite.

cordeGiulio Gasperini
AOSTA – I 14 racconti di Dario Bellucco, editi da Lupo Editore (2013) nella collana Incipit, sono delle incursioni sapide in vite al limite, in esistenze accelerate verso una capitolazione tutt’altro che eroica. Queste storie sono popolate di droghe, alcol, dipendenze, rapporti malati e fraintesi, prospettive deviate e legami spezzati: tutte “Corde”, tanti lacci, che imprigionano, che costringono, imbavagliano e disarticolano. I protagonisti dei racconti sono moderni inetti, ovvero personaggi che si dibattono in una vita nella quale stanno come passivamente, trasportati dalla corrente furiosa, incapaci di reagire; si tratta spesso di finto godimento, di illusioni e fate morgane che allettano per il tempo di un errore ma che lasciano poi amari e delusi. Ci sono tutte le inquietudini, le insicurezze, i timori dei nostri nuovi anni; ci sono le crisi, i traumi, i tentativi goffi e fallimentari che intere generazioni avevano creduto di aver trovato per combattere quello che spaventava e che tuttora spaventa. Le città, a volte tratteggiate altre volte descritte quasi carnalmente, diventano il setting correlato alle vicende frammentarie ma dure, difficili in certi punti da leggere, perché feroci nella loro asprezza.
Le vite durano poco, sono trattate come merce di scambio, senza valore. Sono in tanti che muoiono, spesso per scelte volontarie, magari esasperate, come accade in “Un’ultima volta”. Anche i rapporti familiari non riescono a significare queste esistenze spesso definite dall’errore stesso, senza nessuna possibilità di redenzione (“Scusa, papà” e “Una buona causa”). La gioventù è devastata, distrutta in un’ansia di incognito: sono così i ragazzi protagonisti di tanti racconti, da “Racconto giovanile di un tragico evento” a “I ragazzi che dovettero pagare”, in cui per divertirsi si è pure pronti a pagare un dazio tremendamente alto. Neanche l’amore serve a nulla, è un sentimento che punisce e fa soffrire, che non dà nessun piacere, nessuna gioia, nessun orgoglio, come si racconta in “Dobbiamo giocare con le spade” e “Amore”. L’ansia e la fame di Dio covano nel profondo, alimentando una ricerca che pare superficiale ma in realtà è metodica e interessata. Nel racconto “Dio” il piano del male pare assumere il sopravvento, fino a un epilogo dove l’accelerazione all’autopunizione esplode in un gesto estremo, radicale. Il linguaggio è scarno, essenziale, quasi a riflettere i caratteri delle maschere in scena. Tutto in sottrazione, dove i silenzi, i suggerimenti, contano forse anche più degli svelamenti. Tanto si immagina, in queste storie, tanto si congettura: l’incognita crea ancora più ansia, più angoscia soffocante.
In tutti questi racconti non pare esserci una consolazione, né la possibilità di una fuga. Mostrano però le colpe della nostra società, i suoi punti di forza, le irresistibili tentazioni, e parallelamente ne suggerisce anche le colpe, le aperte strategie. E, per combattere e opporsi, la prima regola è sempre scoprire i punti deboli.

Novità Topipittori: “Scompiripiglio”, la storia di Talfino la decidi tu!

ScompiripiglioGiulia Siena
ROMA
– “Quante avventure lungo la strada! Ma alla fine Talfino è arrivato sano e salvo. E a voi Talfini che cosa è successo?” Talfino, il protagonista di “Scompiripiglio” – un nuovo nuovissimo libro di Topipittori – è un animaletto curioso, un ibrido tra una talpa e un delfino. Questo simpatico personaggio, nato dalla fantasia nipponica dello Studio Euphrates, è il protagonista del primo di una serie di tre libri che ha già spopolato in Giappone. Così come Talfino, i suoi amici protagonisti di queste avventure, sono degli Scompiripigli, animaletti simpatici, divertenti mix molto diversi tra loro: c’è Formiglio, un formichiere + coniglio, il cuoco della Scompiripappa; Polnacchia, polipo + cornacchia, brava a cucinare le torte e il Girachiere, giraffa + formichiere addetta alla vendita delle ciambelle.

 

Il libro, diviso in tre mini avventure, ci fa entrare nel quotidiano di Talfino: per prima cosa il nostro simpatico amico deve decidere cosa mangiare, meglio le uova o le polpette? Dovrà scegliere tra l’hamburger, il gelato, le ciambelle e molte altre delizie. Ma la scelta continua; nella seconda storia Talfino deve portare un bel regalo alla sua amica Polnacchia, cosa regalarle e come arrivare a casa senza smarrirsi? Nell’ultima storia, poi, il protagonista decide di fare una passeggiata… ma il sentiero non è poi così semplice! Talfino è sempre molto indeciso, forse per questo la sua storia può seguire strade differenti e può farsi guidare dal lettore. Nel libro, infatti, ognuna delle tre mini storie ha percorsi alternativi che portano, sempre e comunque, al lieto fine.

“Io. e l’Ilva” il monologo di un metalmeccanico

Marianna Abbate

ROMA – L’Ilva non rispetta le regole sull’impatto ambientale. L’Ilva è la causa di infiniti tipi di morbi, patologie, formazioni cancerose e problemi respiratori. L’Ilva porta sulla tavola di tutta Taranto un piatto di pasta. Coperto da uno strato sottile di diossina. L’Ilva ti fa comprare la macchina nuova. Che importa se è coperta dal medesimo strato di diossina?

È la “grande contraddizione di Taranto” quella al centro del “Monologo metalmeccanico- Io e L’Ilva” di Giuse Alemanno. pubblicato da Lupo editore. Sì, perché da una parte l’Ilva è il male, dall’altra non si può vivere senza Ilva.

Che poi Ilva è un concetto vago, troppo generalista. Dentro il più grande stabilimento d’acciaieria d’Europa si snodano settori, reparti, calore, facce, tecnologie e arretratezze. Un microcosmo vivace e vivo, estremamente autoreferenziale agli occhi di Alemanno: “partigiani dei cazzi propri”. Gli operai hanno perso quel senso di comunità che li aveva resi forti nelle rivolte socialiste. Ognuno guarda il suo benessere, inclusi i sindacati che cercano l’accordo a tutti i costi, pur di guadagnarci una promozione e tanta tranquillità.

Eppure senza Ilva, il destino di Taranto sarebbe segnato. “C’è uno psichiatra in sala?” continua a chiedersi l’autore del monologo, in un misto di disperazione ed impotenza. Non c’è soluzione neanche agli occhi di quell’operaio acculturato, di quello che conosce tutte le questioni interne ed esterne, che è Giuse Alemanno.

Un vicolo cieco. Un enorme, bruciante, polveroso e ricco vicolo cieco.

“Senza paura verso il divenire meticcio!”. ChronicaLibri intervista Andrea Staid.

Le nostre bracciaGiulio Gasperini
AOSTA – La globalizzazione l’abbiamo voluta. Il libero scambio, l’euforia di internet, la sensazione desiderata di sentirsi parte di un immenso “villaggio globale” dove le distanze si annullassero e le particolarità di annichilissero. La globalizzazione, però, porta con sé anche alcuni obblighi, che per tanti, adesso, sono diventati indesiderati. La libera circolazione umana, inarrestabile, improcrastinabile, rimette in gioco l’identità, attiva dei meccanismi di ri-definizione, di ri-valutazione. Non possiamo ancora farci resistenti all’idea, all’inevitabile futuro di incontri e tangenze. Di tutto questo, e anche di molto altro, ne abbiamo parlato con Andrea Staid, giovane storico e antropologo, che ha pubblicato per AgenziaX il saggio “Le nostre braccia”, dove si analizza il processo del meticciato e dove si teorizzano le nuove schiavitù, quelle che alimentano e sostengono le leggi sull’immigrazione, soprattutto extra-comunitaria.

 

Per questa nostra chiacchierata partirei dal concetto di “meticciato” perché la parola stessa (affascinante di per sé) ha subito, negli ultimi tempi, una sorta di riabilitazione semantica. Se fino a qualche tempo fa il lemma “meticcio” veniva utilizzato con un’ombra denigratoria e infamante, anche grazie al tuo saggio è evidente come le prospettive si siano ampliate e aggiornate. Persino sul piano della narrativa ha trovato spazio il grande esperimento di Wu Ming 2, con il ridefinito “romanzo meticcio”, ovvero un romanzo costruito tramite testimonianze, materiali d’archivio, memorie, interviste, fotografie, e anche creazione narrativa. Cosa si intende, oggi, per “meticciato” e come lo si può vivere e sperimentare concretamente?
Il meticcio è l’incontro, l’ibridazione tra culture diverse, ma non dobbiamo malintendere questo concetto, perché come ci ricorda Laplantine, non esistono individui originariamente puri, il meticciato si oppone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità. Non è una fusione, coesione o una specie di osmosi è un confronto tra le tante alterità culturali è quello che manca nelle nostre politiche sociali cioè il DIALOGO. In più non dobbiamo dimenticarci che la storia del Mediterraneo, dell’Europa è fatta da un vero e proprio crogiuolo culturale, di migrazioni continue, avvolte sotto forme di invasioni, conquiste, scontri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche dei popoli. Il meticcio è al di fuori di tutte le argomentazioni politicaly correct, è un mosaico polimorfo, decostruisce i muri identitari nazionali e sovranazionali. Cosa dobbiamo fare per viverlo e sperimentarlo? Smettere di avere paura, scavalcare i falsi confini del “noi” “loro” in modo da rielaborare i nostri modelli dei rapporti sociali e risistemare le coordinate del mondo vissuto perché le forme della società sono la sostanza della cultura.

 

E pare proprio la paura il sentimento costante dei nostri Anni Zero e Dieci. Talmente tanta la paura da aver elaborato delle leggi a regolare l’immigrazione che sono dei veri e propri bunker, anche se pieni di falle e di maglie deboli. C’è chi ha parlato di “Fortress Europe”, una vera e propria fortezza, fatta di frontiere rinforzate e di assurde leggi migratorie. Tu definisci il migrante una “non persona estremamente ricattabile”: perché i migranti fanno paura? Quali sono i nostri timori? Cosa immaginiamo a rischio ipotizzando l’arrivo di altre persone?
L’Europa infatti è una vera fortezza, fatta di confini sorvegliati da eserciti e polizie internazionali, fatta di persone con diritti e di persone uguali a queste ma di serie b, quelle che nel mio libro e prima di me Alessandro Dal Lago ha chiamato “non persone”. “Non persone” perché anche se camminano, mangiano e dormono come noi il fatto che non hanno il permesso di soggiorno che è solamente un pezzo di carta con un timbro sopra, li fa diventare immediatamente delle persone senza nessun diritto, ovvero non persone estremamente utili per il nostro sistema capitalista che necessita di lavoratori altamente ricattabili senza nessuna possibilità di rivendicare i propri diritti. I “nostri” timori sono dettati dalla paura del diverso, dal confronto con l’alterità perché troppo spesso tendiamo a rinchiuderci in una falsa e monolitica identità culturale. Come scrive Marco Aime nel suo “Macchia della razza, storie di ordinaria discriminazione” ormai siamo come quei tifosi che non inneggiano più alla loro squadra, ma passano novanta minuti a insultare gli avversari, tifosi che hanno fatto dei colori di una maglia una terra di appartenenza per cui vale la pena combattere, fare male, persino uccidere. Una terra non da amare, ma utile a odiare gli altri.

 

E per dominare le nostre paure, per illuderci di essere più sicuri nelle nostre vite, ci siamo inventati una legge sull’immigrazione che, come tu sostieni nel tuo saggio, incentiva la clandestinità e favorisce lo sfruttamento. Tu scrivi una cosa significativa nel tuo testo: “l’irregolarità non è un tratto ontologico del migrante, ma è determinata da un dato sistema giuridico”. Sicché è lo stato, paradossalmente (ma non troppo), che crea e favorisce la clandestinità, definita però al tempo stesso come reato. Quali sono i meccanismi per cui lo stato esercita questa sua ambivalente funzione? In nome di cosa si dispone di altre vite con una pratica burocratica alienante?
La legge italiana è particolarmente ridicola per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori. Praticamente è una legge che produce clandestinità. Un migrante una volta arrivato in Italia se non ha già un datore di lavoro non ha nessuna possibilità di essere regolarizzato. L’unica possibilità che trova davanti a sé è quella di lavorare in nero super sfruttato, senza nessun tipo di diritto. Il problema non riguarda poi solo il mondo del lavoro ma anche quello della casa: senza documenti trovare una casa è un odissea, e molti italiani se ne approfittano chiedendo affitti allucinanti per piccoli appartamenti o singole stanze da condividere. Ma non è finita qua senza documenti i migranti si vedono negare anche uno dei diritti più fondamentali cioè quello della libertà di movimento, si muovono il meno possibile e sempre con la paura di essere fermati e rinchiusi in un CIE o in un carcere senza aver commesso nessun reato. La seconda domanda invece contiene anche la risposta, la burocrazia è alienante e crea per dirla come David Graeber spazi morti nell’immaginazione degli esseri umani. Più semplicemente tramite cavilli burocratici, leggi sempre più restrittive si crea disuguaglianza, sofferenza e si condannano migliaia di esseri umani alla nuova schiavitù.

 

Ed è forse ancora più agghiacciante pensare che al giorno d’oggi si siano ripristinate, con la complicità e l’omertà dello stato, nuove forme di schiavitù. Una schiavitù che non soltanto condanna all’estrema precarietà i migranti ma che condiziona spesso i rapporti anche tra di loro, come tu scrivi in un paragrafo del tuo libro. In particolar modo tu analizzi un caso specifico, quello delle badanti. Noi siamo oramai abituati a queste figure che son diventate essenziali per la nostra esistenza, ma difficilmente immaginiamo – o abbiamo la pazienza di immaginarci – le dure condizioni nelle quali vivono e lavorano. Perché questo fenomeno è interessante all’interno della tua lettura etnografica? Quali considerazioni permette di elaborare?
Il capitolo sulle badanti analizza proprio un caso specifico, perché oltre allo sfruttamento la maggior parte di queste donne vivono una situazione di segregazione, di vero dominio e controllo da parte del datore di lavoro. In più analizzando bene le conversazioni che ho avuto con le badanti esce fuori un altro aspetto centrale che è quello di sentirsi trattate come delle macchine tappa buchi. Da non sottovalutare poi che sono le precarie per eccellenza nel mondo del lavoro nero perché la durata del loro impiego è strettamente legata alla vita del loro assistito. Per le considerazioni che permette di elaborare invece lascio la parola a una donna che lavora in Italia come badante che molto meglio di me sa esprimere ed elaborare quello che è la condizione di queste giovani donne: “Mio amato marito, emigrate diveniamo immortali. Mai nate, non siamo state cresciute, non invecchiamo, non ci stanchiamo, non moriamo. Un’unica funzione: lavorare. Immortali poiché continuamente interscambiabili. Esisterà la fine del lavoro, ma non c’è limite alle forme del servire”.

 

Sicché quali sono le possibili prospettive? Quali le avverabili soluzioni? Quali possono essere le decisioni coraggiose da prendere per trasformare la migrazione da ancestrale (e irrazionale) paura a effettivo momento di scambio e crescita, di compiuto meticciato?
Per smettere di avere paura bisogna accettare una interazione egualitaria con gli altri, dobbiamo saper costruire identità dai confini aperti e pronti al cambiamento. L’identità può avere una valenza positiva e riconoscersi negli altri e una negativa nella quale scoprirsi e definirsi in base a ciò che ci differenzia dagli altri. La valenza positiva porta verso il pensiero meticcio che contrasta il falso universalismo e il mito della purezza, questo avviene tramite un processo dinamico di scambi reciproci, di accettazioni e di rifiuti, di rinunce e di appropriazioni. Dobbiamo essere consapevoli dei tanti possibili errori, delle difficoltà, degli incontri e degli scontri, ma anche essere forti della necessità di accettare la complessità del reale, perché la complessità deve diventare il fondamento della nostra identità. Quindi senza paura verso il divenire meticcio!

“Guerra alla Cina”, l’inaudita invasione secondo Jack London.

Guerra alla CinaGiulio Gasperini
AOSTA – Nel 1904 Jack London seguirà la guerra russo-giapponese: sarà uno dei primi corrispondenti a sporcarsi di guerra, a pedinarla, a seguirla direttamente sui campi dove la guerra si svolgeva, dove lasciava morti e cadaveri. La Cina era balzata agli onori delle cronache e all’interesse del mondo in particolar modo con la Rivolta dei Boxer, la ribellione anticolonialista e xenofoba esplosa gli ultimi giorni del XIX secolo e i primi del XX e repressa nel sangue. Ma Jack London fu tra i primi a conoscerla empiricamente, a traghettare in occidente un’immagine particolare del grande “impero celeste”. “The Unparalleled Invasion” (edito in Italia dalla ObarraO Edizioni con il titolo di “Guerra alla Cina”) uscì nel 1910 e suscitò grande interesse nell’opinione pubblica. Alla fine dell’800 i tanti cinesi degli States erano stati assunti a capri espiatori della disoccupazione galoppante e della crisi che imperversava furiosa: si parlava niente meno che di Yellow Peril, di pericolo giallo.
Lo spettro della Cina, di questo immenso capitale umano, veniva agitato in molte sedi e in altrettante occasioni. “Il risveglio del dragone” preoccupava, angosciava principalmente perché nessuno conosceva i veri numeri, le potenzialità, la reale potenza di quello che era un immenso continente ignoto. Poco avevano a che fare col razzismo, tutte queste ansie. Il problema fondamentale non era tanto la provenienza etnica (né l’appartenenza religiosa) quanto lo spettro di un rivale che fosse ancora più potente, di uno scontro che avesse come destino finale quello della sopraffazione e della sconfitta del ricco Occidente. Angosce che comparvero anche nella letteratura, attraverso la quale si cercava finanche una qualche forma di sublimazione, di catarsi mentale, di antidoto.
London partorì questo breve scritto di difficile definizione: da pamphlet a brevissimo racconto fantapolitico, tutte le nomenclature stanno strette perché mettono in luce alcuni aspetti ma ne trascurano altri. La scrittura di London è giornalistica, coincisa e accattivante. Illude che si tratti di un reportage, di un’attenta e profonda analisi della situazioni, mentre invece è una sorta di accelerata spirale che approda, poi, a un inedito e inatteso epilogo. London analizza i processi che hanno portato l’avvicinamento del Giappone alla Cina e il risveglio delle coscienze cinesi, il suo orgoglio e la sua straordinaria volontà di riscatto. London immagina e ipotizza un universale conflitto, tra Cina e resto del mondo, il cui culmine coincide con il Bicentenario della Rivoluzione Americana. Immagina e ipotizza un conflitto, principalmente economico, che viene in breve tempo vinto dalla Cina e ipotizza un finale apocalittico, in cui con uno stratagemma da guerra omerica il resto del mondo pianifica una sorta di “soluzione finale”. Rimane da capire quanto sia finzione e quanto sia profezia.

“Tre amiche sul ghiaccio”: fermata Parigi

Marianna Abbate

ROMA – Quando non frequenti per tanto tempo un posto, tornandoci scopri in ogni crepa del muro il tempo che è passato. È stato così anche per me quando ho di nuovo preso in mano un libro della collana “Il battello a vapore” di Piemme. I libri per ragazzi hanno cambiato stile, genere e soprattutto forma e aspetto.

A partire dalla copertina, che ricorda moltissimo i disegni dei comics per ragazze. La disegnatrice è Caterina Giorgetti, quella di “Witch” per intenderci, sono stata una grande fan di quel fumetto eme ne sono accorta subito.

I tempi sono cambiati e si sente ad ogni pagina di questo libro. Scritte un po’ grandi, le parole si intrecciano ai disegni, aiutando l’immaginazione di chi non è abituato a leggere.

Per fortuna i valori sono ancora gli stessi: l’amicizia prima di tutto, la lealtà, lo spirito sportivo del fair play, l’impegno e… l’amore. L’autrice della saga “Tre amiche sul ghiaccio” è Mathilde Bonetti, un’appassionata pattinatrice eterna ragazzina, che in questa puntata ci racconta il viaggio delle ragazze del Palastella a Parigi. Parigi on ice è il titolo del volumetto appena stampato, che racconta le avventure di Angelica Cleo e Sadia, promettenti campionesse del pattinaggio artistico. Insieme realizzano il sogno di pattinare nella Ville Lumiere, e affrontano coraggiosamente le scelte che cambieranno totalmente la loro vita.

Il libro ha il pregio di appassionare allo sport, di stimolare nelle bambine il desiderio di lavorare in gruppo per realizzare il successo.

L’editore consiglia questa lettura per bimbe tra i 9 e gli 11 anni, l’età più sognante.