“Rinascere per caso”: dalla tecnologia al riciclo dei rifiuti elettronici

Alessia Sità
ROMA – Vi siete mai soffermati a pensare che fine fanno i rifiuti tecnologici? Se non avete la minima idea di cosa succeda dopo aver dato via il vostro vecchio computer, il vostro cellulare o la vostra stampante, leggete “Rinascere per caso” di Marco Santochi, pubblicato da Felici Editore nel 2010. La storia ruota essenzialmente intorno a un normalissimo telefono cellulare, che sancirà un legame indelebile e inatteso fra due donne. Questo comunissimo strumento di comunicazione sarà la chiave che porterà Sara ad intraprendere un viaggio alla scoperta del misterioso autore di strani sms, inviati dal telefono del povero marito, scomparso tre mesi prima.

Durante questa estenuante ricerca, la donna si scontrerà con una realtà sconosciuta e molto spesso sottovalutata. A venti anni di distanza, la giovane ricercatrice Lina si ritrova a presentare il prodotto dei suoi lunghissimi studi nel campo dell’elettronica, frutto di un’esperienza che ha totalmente cambiato la sua vita.

Due destini che inaspettatamente si incontrano, due esistenze che si legano indissolubilmente grazie ad uno strano caso della vita.
La vicenda si dipana in un continuo viaggio nel tempo, fra presente e passato; abilmente, il lettore viene condotto alla scoperta della realtà del riciclaggio, legale e illegale, dei rifiuti elettronici.
In “Rinascere per caso” il leit motiv ecologico si lega perfettamente ad alcuni aspetti sociali e industriali molto spesso trascurati dall’informazione.
Marco Santochi dà vita ad un giallo che, all’elemento classico, unisce la tematica tecnologica e la possibilità di rendere finalmente realizzabile lo smaltimento di sostanze altamente pericolose per l’essere umano e per il pianeta.

"Centoundici Haiku", l’opera di Bashò

Roma – Matsu Bashò è scoprire il volume “Centoundici Hiku”, pubblicato dalla casa editrice La vita felice. La poesia di Bashò, , frutto di una serrata ricerca letteraria e linguistica, condotta con gli strumenti colti propri della cultura classica cinese e giapponese e della filosofia Zen, è caratterizzata da un linguaggio chiaro e conciso, quasi rarefatto nella sua liricità.
La compresenza di elementi del vivere quotidiano, spesso umili, e dei segni delle emozioni del poeta, immerso nella natura e in colloquio con gli antichi, in una mescolanza di bellezze universali e di oggetti comuni, di banale e caduco e di sublime ed eterno, è forse la massima espressione dell’opera di Bashò.

"Patologie"- male di vivere nella poesia della Maremma

Marianna Abbate
ROMA Lo conosco troppo bene questo poeta per essere veramente oggettiva. E’ mio amico. 
Lo conoscono, seppure forse un po’ meno, anche i più affezionati lettori di ChronicaLibri: è l’autore più proficuo della nostra rubrica vintage. 

Il suo libro ce l’ho da mesi. E da mesi non ho il coraggio di recensire le sue parole, pubblicate nella collana Nuovi talenti della casa editrice Dreams Entertainment. 
Pertanto, pur di ritardare il fatidico momento, spenderò qualche riga nel raccontarvi di lui.
Giulio è un poeta. Per questo motivo è veramente insopportabile-lunatico e folle. Perennemente sofferente, di qualche “patologia” ormai cronica e decisamente inguaribile. Eppoi è un ragazzo intelligente, solare e di nuovo completamente folle, che lo rende una delle persone più belle che io conosca.
Ebbene sì, il poeta lo sopporto poco, anche per questo temevo di leggere le sue poesie. E soprattutto temevo di recensire questo volume. 
Ma poi mi basta leggere la dedica in prima pagina, per sorridere e lacrimare. C’è scritto: perché ti adoro. Sappiate che non è del tutto vero (certe volte penso che gli smiley entreranno a forza nei miei articoli, perché in questo punto ci sta veramente benissimo una linguaccia), e che a volte mi odia anche lui. Come diceva Catullo: odi et amo.
Ma torniamo a noi. Il libro si presenta bianco e fino, provvisto di immagini, i dipinti di Paolo Cimoni, compaesano caldanese dell’autore.
E poi ci sono le poesie. 
Tra le prime una dedicata alla sua terra, Caldana, una cittadina medievale della provincia di Grosseto. La poesia profuma.
Poi una dedica a Sandro Penna, con una speranza che non c’è mai stata fuori dalle sue righe. 
E poi c’è della poesia aggressiva, delle righe volgari e altre malinconiche. Alcune parlano d’amore, e forse neanche lo sanno.
Ci sono persino delle rime, e qualcosa che assomiglia alla Szymborska nell’immagine di una coppia presa da un cellulare in un bar.
Ma quello che mi è piaciuto di più è l’enjambement precipitoso, che spezza il senso e il tono così in linea con il tema in “Io goccio”, e che distrugge ogni equilibrio nella poesia che inizia con le parole “Piove l’ultimo autunno…”. Un senso di precarietà che ricorda molto la poesia che Ungaretti dedicò ai soldati.
I brani migliori sono quelli che rasentano la prosa poetica, in un linguaggio colto, musicale, ma accessibile. 


Solitudine
Sto solo – 
appoggiato a un precipizio
di suono.

"Per la voce", la rivoluzione poetica di Vladimir Majakovskij

ROMA – E’ poesia di quotidianità passionaria quella di Vladimir Majakovskij (1893-1940). Il poeta della Rivoluzione russa ha “cantato” all’unisono del regime sovietico il cambiamento del Novecento mondiale. Nel 1923 Majakovskij si trovava a Berlino, centro dei costruttivisti russi all’estero dove, nel 1922, alla Galleria Van Diemen, aveva avuto luogo la prima esposizione d’arte russa. Nello stesso periodo Lisitskij e Ehrenburg pubblicavano il primo numero della rivista “Vesc”. Majakovskij non mancò di ammirare lo straordinario talento di Lisitskij e si rivolse a lui per dare forma a una selezione di tredici sue poesie destinate a essere lette ad alta voce. Da qui il titolo “Per la voce” (pubblicato dalla casa editrice La Vita Felice nella collana Labirinti), una poesia da urlare per far rivivere la musicalità della ribellione di un grande poeta. 

Voland: "Il denaro e le parole", l’editoria nell’era del business

Silvia Notarangelo
ROMA –
Il mondo dell’editoria è veramente in crisi? È ancora possibile salvaguardare la sua indipendenza dalle pressioni del potere politico ed economico? Sono questi gli interrogativi a cui André Schiffrin tenta di dare una risposta nel suo ultimo libro “Il denaro e le parole”, appena pubblicato da Voland. L’autore francese presenta un panorama editoriale in difficoltà: il numero dei lettori di quotidiani è letteralmente crollato negli ultimi anni, le piccole librerie faticano a sopravvivere dovendo, spesso, contrastare la concorrenza di supermercati sempre più forniti e con prezzi altamente competitivi.

Del vecchio mestiere di editore resta ben poco. A dettare legge sono il mercato e i profitti che possono derivarne. Per questo si sceglie di produrre meno libri, concentrandosi su quanti, potenzialmente, sono in grado di garantire cospicui introiti.
Tende ad allargarsi, così, la forbice tra i maggiori gruppi editoriali, forti dell’appoggio della grande distribuzione, e le case editrici indipendenti, la cui produzione, spesso di notevole valore intellettuale, non riesce ad assicurarsi un’adeguata promozione né a trovare il giusto spazio sul mercato.
Quali strategie potrebbero, allora, sostenere il settore dell’editoria?
Schiffrin suggerisce di puntare su aiuti economici regionali e locali, sulla creazione di “alleanze”, purtroppo ancora isolate, tra case editrici e istituzioni culturali, prime fra tutte le università. Ricorda, inoltre, la positiva esperienza di cooperative gestite direttamente dai lavoratori del mondo editoriale e guarda, con favore, alla possibilità di trasformare piccole case editrici in organizzazioni senza scopo di lucro, così da assicurare loro almeno alcune agevolazioni fiscali. Ampio spazio viene, inoltre, dedicato ad una riflessione sulla politica culturale della Norvegia, che ha saputo rendere il pluralismo dell’informazione un presupposto indispensabile della sua democrazia, diventando un modello a cui ispirarsi. I giornali, ad esempio, sono esenti da imposte, le testate minori sono destinatarie di appositi fondi, gli editori possono contare, ogni anno, sull’acquisto da parte del governo di un determinato numero di volumi distribuiti, poi, alle biblioteche comunali. Simili iniziative, secondo lo scrittore, possono contribuire ad alimentare la speranza di una ripresa dell’editoria, a patto che siano integrate da ponderate scelte personali perché “ognuno può scegliere di sostenere un giornale o una libreria” al fine di poter fruire di media indipendenti, “essenziali per qualunque autentico dibattito”.

, le case editrici indipendenti, trascurate da una grande distribuzione attenta solo a quei best seller capaci di incrementare il proprio volume d’affari, non se la passano certamente meglio. Una situazione complessa, ulteriormente aggravata dalla diffusione di Internet, dalla recente comparsa di libri elettronici, da agenzie pubblicitarie che sembrano, ormai, snobbare la carta stampata a vantaggio di altri media.

Alla riscoperta del patrimonio antropologico delle "Fiabe e storie della Maremma"

Giulio Gasperini
ROMA –
L’editore Effigi, di Arcidosso, ha recentemente ripubblicato, in una nuova revisione anastatica, “Fiabe e storie della Maremma”, la summa del lavoro di Roberto Ferretti, fondatore dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana. Ferretti fu appassionato studioso del folklore della sua terra, tanto da dedicare la sua tesi di laurea proprio alla riesumazione (e alla salvaguardia) del materiale antropologico e folkloristico declinato, in particolar modo, nella forma della fiaba, una delle concretazioni più originali e peculiari.

La tradizione della fiaba, anche in Maremma, è ovviamente quella orale, alla quale Ferretti ha dato una struttura narrativa per poter sopravvivere al logorio e all’usura del tempo che passa e che strazia la memoria. In questa maniera trovano nuova dimensione, sulla carta, le storie che i vecchi raccontavano ai nipoti, seduti fuori degli usci, nelle tiepide sere d’estate, oppure quelle che servivano per intrattenere la famiglia tutt’intorno al focolare del camino, nelle notti di freddo pungente.
La Maremma è terra aspra e ostile all’uomo: la sua canzone più celebre canta “tutti mi dicon Maremma Maremma / a me mi pare una Maremma amara / l’uccello che ci va perde la penna / io c’ho perduto una persona cara”. La malaria, soprattutto, diffusa in una regione di immense paludi malefiche, mieteva vittime su vittime. L’umanità che qui si diffuse si abituò al dolore, al sacrificio del sudore che le zolle pretendevano; ma si legò strettamente alla terra (le conquiste sofferte, si sa, son le più soddisfacenti) in un legame inscindibile, in una forma d’amore feroce.

Ferretti, anche grazie all’aiuto di amici e conoscenti di ogni luogo della Maremma, ha potuto in questa maniera conoscere le diverse leggende e le diverse fiabe che cambiano, fatalmente, anche a pochi chilometri di distanza: perché anticamente anche quei pochi chilometri erano un percorso accidentato, e i contatti tra i paesi erano sporadici e saltuari.

Noi, nella nostra accelerazione degli anni Zero, abbiamo una diversa coscienza sia del tempo che della distanza, le due grandi “verità a priori” (secondo la prospettiva kantiana). Molto tempo fa, quando il tempo era più lento e le distanze più lunghe, le fiabe raccontate divennero un’inesauribile ricchezza; che oggi, fortunatamente, ci vengono ripresentate, perché anche noi possiamo renderci conto che, forse, rallentare potrebbe anche voler dire re-imparare ad ascoltare.

"Sulla strada per Corleone", in viaggio verso il profondo sud del Nord Europa

Agnese Cerroni
Roma “Chi ha paura muore ogni giorno. Chi non ha paura muore una volta sola”. Diciannove anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Giovanni Falcone e il collega e amico Paolo Borsellino con i rispettivi agenti di scorta, dopo le inchieste, la stage di Duisburg e l’epitaffio televisivo di Roberto Saviano, è una giornalista tedesca, Petra Reski, a parlare di mafia. In “Sulla strada per Corleone. Storie di mafia tra Italia e Germania” (edito da Edizioni Ambiente) la Reski ci racconta il suo viaggio in macchina da Kamen – la città dove è cresciuta – a Corleone (per un totale di 2448 km), fatto a vent’anni di distanza dal primo Grand Tour contemporaneo a bordo di una Renault 4 “solo perché avevo letto il Padrino”.

Dando gas alla sua Spider bianca, l’autrice affronta la lunga discesa verso il Sud Italia, dalle fitte ramificazioni fino alla base della struttura mafiosa, per rivelare, attraverso la sua via crucis, che non è necessario arrivare fino alla Sicilia rurale per imbattersi in quell’organizzazione nota come Cosa Nostra, ma che essa prospera ovunque, persino nella ben più florida economia tedesca. Droga che fa impresa, smaltimento di rifiuti, riciclaggio di denaro proveniente da illeciti e contrabbando di merci. Interviste a magistrati, imprenditori, preti e collusi. Il tutto per tinteggiare un affresco affascinante e cupo, arcaico e post moderno di una piaga pan-europea.

Premio Luigi Malerba 2011, scade il 20 settembre il concorso dedicato al grande scrittore italiano

ROMA – Si può partecipare fino al 20 settembre 2011 al Premio Luigi MalerbaIstituito dal LTBF Onlus, in collaborazione con il Comune di Berceto e del MIUR, con il sostegno del Fuis e con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero della Gioventù, del Comune di Parma, della Provincia di Parma, dell’Università degli Studi di Parma, il Premio LUIGI MALERBA di Narrativa e Sceneggiatura è riservato a giovani di età non superiore ai 28 anni. L’edizione 2011 del premio- che vuole rendere omaggio a uno dei più grandi scrittori italiani- viene presentato a Roma ed è riservata a un’opera di narrativa originale inedita, sia essa un romanzo, un racconto, una raccolta di racconti o una novella. 
L’opera deve essere scritta in lingua italiana e rientrare nei limiti di lunghezza di minimo 80.000 battute (spazi inclusi) e massimo 380.000 battute (spazi inclusi), corrispondenti a un minimo di 70/80 pagine e un massimo di 240 circa, nell’edizione stampata.


In giuria nell’edizione 2011:
Guido Barlozzetti, giornalista, critico cinematografico e televisivo
Manuela Cacchioli, responsabile di redazione presso Monte Università Parma Editore
Rossana Campo, scrittrice, pittrice e traduttrice
Margherita Heyer Caput, docente di Italiano presso University of California, Davis  
Paolo Mauri, giornalista, critico letterario e storico della letteratura
Walter Pedullà, professore emerito di letteratura italiana contemporanea 
Università La Sapienza, critico letterario e storico della letteratura
Lorenza Reverberi, docente di lettere, latino e greco presso il liceo Classico Romagnosi di Parma
Giovanni Ronchini, docente di letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Parma
Franco Scaglia, Presidente Teatro di Roma e Presidente RAI cinema
Ornella Scarpellini, Ministero degli  Affari Esteri DGSP – III
Presidente di giuria: Irene Pivetti
Presidente onorario: Anna Malerba
Alla selezione delle opere partecipa anche il Liceo Classico Romagnosi di Parma, frequentato da Luigi Malerba.

Le storie del bibliobus di Tundrum in “Galeotto fu il libro”

Silvia Notarangelo
RomaTundrum, una cittadina dell’Irlanda del nord, un bibliobus scarsamente considerato, un giovane di nome Israel Armstrong. Sono questi i tre ingredienti che Ian Sansom continua, sapientemente, a mescolare in una nuova avventura dal titolo “Galeotto fu il libro”, recentemente pubblicata da Tea.
Israel ha quasi trent’anni, vive in un pollaio trasformato in appartamento, di professione fa il bibliotecario e la sua vita non è, esattamente, come la avrebbe immaginata. Sono tante le cose che non vanno, a cominciare da quella strana sensazione di essere diventato l’ombra di se stesso senza sapere che direzione prendere né che cosa aspettarsi dal futuro.
Lavora su un bibliobus percorrendo le strade di Tundrum, un’insolita località irlandese, isolata dal resto del mondo, dove tutto sembra scorrere all’insegna di un’estenuante monotonia. C’è un unico bar, quotidianamente preso d’assalto, c’è la serata fish & chips seguita da un attesissimo quiz biblico, ci sono le lezioni di lettura organizzate per i bambini della scuola. Niente di strano, dunque. L’unica anomalia, se così si può chiamare, è sotto il bancone del bibliobus: lì, infatti, lontani da occhi indiscreti, sono conservati i libri fuori catalogo, libri volutamente non esposti per evitare di impressionare i lettori più giovani. Ed è proprio da questi che, una mattina, Israel attinge per accontentare la richiesta di una misteriosa e taciturna ragazzina. Il testo in questione si intitola “Pastorale americana”. Sembra un normale prestito bibliotecario ma, all’improvviso, le cose cambiano.
La ragazzina, Lindsay, figlia di uno dei candidati alle prossime elezioni, scompare. Nell’occhio del ciclone finisce il giovane protagonista, la sua condotta lavorativa viene messa in discussione, forse è lui la causa della sparizione, forse, all’origine del gesto, c’è quel libro “sconsigliato”, concesso, impunemente, in prestito.

Intenzionato a dimostrare la propria estraneità ai fatti, Israel si mette subito alla ricerca di Lindsay. Non sarà facile sciogliere i nodi della vicenda, scoprire ciò che davvero si nasconde dietro questa fuga apparentemente inspiegabile. Il giovane bibliotecario seguirà una serie di piste fino a quando non riuscirà a risolvere il caso. La sorpresa, però, sarà tale da suggerire un’amara considerazione: le apparenze ingannano, gli indizi possono rivelarsi fuorvianti e la verità, spesso così terribilmente banale, può risultare ancora più difficile da accettarsi.

"L’acino della notte": del ciclo stagionale, ovvero della nostra sopravvivenza.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’uomo non può vivere senza la natura. La natura, viceversa, può esistere (e indubbiamente lo fa meglio) senza l’uomo. E non è un discorso soltanto ecologista, questo, ma, come appunto si scopre dalle poesie di Giuliana Rigamonti, è anche un discorso poetico. Sì, perché l’uomo è sempre vissuto suddito del ciclo stagionale: sono stati i freddi e i caldi, i dì brevi e i dì lunghi, il ritorno di Zefiro e la sua partenza, a condizionare le scelte, quelle più quotidiane ma più fondamentali, del genere umano tutto, in ogni sua latitudine e longitudine. “L’acino della notte” (eccellente volumetto pubblicato dalla grande casa editrice Scheiwiller, nel non remoto 2006) è un cammino iniziatico, fors’anche un po’ misterico (e in questo senso si spiega l’abbondante ricorso della poetessa ai geroglifici egizi, al loro potere significante e alla loro vastità di significato), in un’educazione stagionale che ci permetta di ritornare all’origine del nostro cammino.

Così ci convinciamo, di nuovo, dell’indispensabilità che la natura sia rispettata (e, soprattutto, obbedita).
L’uomo vive se (e solo se) segue docile il ritmo delle stagioni, il loro lente e persistente convertirsi dall’una all’altra, dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, dall’estate all’autunno, dall’autunno all’inverno, rincorrendosi sempre in un ciclo continuo e costante; ma mai monotono – ed è questa la più straordinaria portata della poesia della Rigamonti. Ogni evento stagionale, pur nella sua prevedibile ciclicità temporale, lascia sempre l’uomo senza fiato, perché è pur sempre una prima volta: nulla è mai uguale, identico, se non l’idea che supporta il tutto. “Il grido di caccia / delle stelle”, le ombre che “cantano sempre da sole”, la “luce matura fra le persiane” sono tutti legami che (co)stringono l’uomo in un perenne debito di riconoscenza. La natura è feconda, generosa (“il geco scoppia di luna”); la natura è la referente di ogni declinazione d’umano (“Io comincio dove il tramonto brucia / nel tuo sguardo”); la natura vince e libera dalle avversità (“I limoni raschiano la nebbia”).
Ed è la natura la risposta al tutto. Anche in poesie di straziante contemporaneità, come quella intitolata “Clandestino”, nel quale Lampedusa si trasforma in pietosa spettatrice del dramma più sordo del nostro tempo: “Niente resterà di questo viaggio. / Per un giorno galleggerà il mio nome / nelle brevi di un giornale / tre righe che nessuno legge / nere / silenziosamente nere”.
Perché non rimane altro che perdersi nella natura, riconsegnarsi a lei, ingenuamente (nel senso pure del termine) e “spingersi oltre il limite delle dune / che non hanno limite e frugare le sabbie / che cadono fra le dita come giorni / nel granaio, per valutare il grano / rimasto e quello da versare”.