“Requiem per D. Chisciotte”: Dennis McShade dalla parte del killer

Requiem per D. Chisciotte_Voland_recensione ChronicalibriGiorgia Sbuelz
ROMA“Requiem per D. Chisciotte” è un romanzo noir del 1967, di Dennis McShade, pseudonimo dell’autore portoghese Dinis Machado, edito per la prima volta in italiano da Voland, che ha come protagonista Peter Maynard, un assassino di professione.

 

Maynard utilizza una sua personale filosofia per portare a termine gli incarichi: non si accontenta di essere un mero sicario, segue scrupolosamente un personale “codice etico”, se così si può definire, rintracciando le ragioni che si celano dietro ogni richiesta di uccisione, quasi a renderla un atto giusto.

 

Maynard vuole conoscere sempre “chi” deve uccidere, per questo il compito che gli è stato affidato stavolta gli sembra inammissibile: eliminare il magnate della finanza Big Shelley senza permettersi obiezioni e col divieto di raccogliere qualsiasi tipo di informazione. Il Sindacato del crimine, che lo ha assoldato sotto ricatto, è stato chiaro in merito: nessuna domanda. Ma Maynard, conosciuto anche come il Califfo, non ci sta. Lui, che per raccogliere le idee nei momenti critici legge l’Ulisse di Joyce… come può uccidere un uomo di cui non conosce la storia, e che per giunta porta il nome di un grande poeta inglese? Sa che si metterà nei guai, non si possono contraddire gli ordini del Sindacato, tuttavia non vuole nemmeno sottostare ai diktat dei suoi mandanti. Il Califfo non vuole invischiarsi in alcuna organizzazione, il Califfo non vuole padroni, per questo i suoi nemici sono numerosi e spesso nascosti.

 

Per alleviare la tensione a cui è sottoposto ascolta musica classica: Cajkovskij, Sibelius, Borodin… trangugia litri di latte per calmare la sua ulcera che si accende come una spia a sottolineare i passaggi della sua esistenza in cui frequentemente si perde, inseguendo le ombre della sua intensa attività cerebrale. Si ritrova sovente a fare a pugni con la propria coscienza, che rimane pur sempre la coscienza di un killer, ma non si presenta mai in disordine all’appuntamento con la sua vittima: sceglie con cura l’abito, si sistema la fondina sotto l’ascella e cambia la cravatta se è il caso.

Un professionista stimato, dunque, ma che spaventa per la sua troppa autonomia. Caricato su un’auto viene picchiato a sangue come avvertimento: non può permettersi di tergiversare indagando sulla vita di Big Shelley, gli ordini sono chiari. Ma chi si nasconde dietro il suo pestaggio? È davvero un monito del Sindacato? Quel che risulta chiaro è che nulla è come appare, anzi, può persino capitare che un assassino incaricato di uccidere un malavitoso, trovandosi faccia a faccia con lui, cominci a discutere di letteratura:

 

– Penso che il Don Chisciotte sia la vittoria dello spirito sulla materia. È l’elogio della pazzia – disse.

– E già – risposi. – Ma l’aspetto lirico della pazzia.

– È bello.

– È una delle opere più importanti scritte fino a oggi. Dentro ci sono i nostri mulini a vento, il mio, il suo quelli di tutti.”

 

Peter Maynard è infatti un chiaro riferimento dell’autore a Pierre Ménard, il protagonista del racconto di Borges, che aveva come ambizione quella di riscrivere il Don Chisciotte nel ventesimo secolo. A Maynard è dedicata un’intera trilogia che comprende La mano destra del diavolo e Mulher e Arma, tutti firmati da Machado come Dennis McShade. Lo pseudonimo era d’obbligo, così come l’ambientazione americana, per sfuggire alla forte censura perpetrata all’epoca in Portogallo. Eppure negli scenari cupi, fatti di bische e gangster incravattati, nelle claustrofobiche strade buie e nei pensieri dello stesso Califfo, è possibile percepire quell’atmosfera… è anche possibile simpatizzare per l’assassino, se l’assassino si presenta come un narcisista sovversivo che difende la propria libertà onorando i “contratti” meticolosamente.

Uno spietato filosofo il nostro Maynard, che abbellisce il cinismo della propria vita con la pura poesia. Machado offre in questo modo delle personali visioni, che diventano la sua suggestione narrativa, brillantemente rappresentata nei dialoghi tra i protagonisti:

 

“ – Raccontami, Maynard. A che cosa pensi?

Sorrisi con gli occhi chiusi.

– A Ravel.

Lei scosse la testa.

– Sei pazzo, Maynard. Dimmi.

– A Ravel, signorina. Sto riducendo tutto ciò che penso all’espressione più semplice. Ravel ha ragione. Ha fatto il Bolero con un’incessante ripetizione di note, cambia solo il movimento.

– E quindi?

– E quindi è come la vita. – Dissi e aprii gli occhi. – Le note sono sempre le stesse. Solo i movimenti cambiano. Il resto è un problema di orchestrazione.”

 

 

 

 

Via del Vento pubblica “L’inizio e la fine”, lo sguardo spietato di Irène Némirovsky

Irène Némirovsky_via del vento_chronicalibriGiulia Siena
ROMA
“E’ vero mi ero augurato ancora il dominio sugli uomini… La vita ci offre spesso la caricatura dei nostri sogni”. Eppure il procuratore Deprez non aveva mai osato sognare molto: già a vent’anni si era augurato di “avere per tutta la vita una camera imbiancata a calce e un letto in ferro” senza pretese di ricchezza e accontentandosi del futuro, pur vivendo una mezza povertà. Ora gli sta venendo meno anche il suo unico e incessante pensiero, l’avvenire. Da qualche giorno sa che non ha più molto tempo davanti a se. Il suo tempo verrà consumato presto da una malattia. Vorace e veloce. Il tempo, allora, da amico mansueto del procuratore si fa ricatto: lui, un uomo piccolo e gracile che negli anni ha acquisito sicurezza, forza e salute nell’indossare la sua toga rossa, dovrà decidere del tempo di un altro uomo; lui che di tempo ne ha ormai poco. Cosa fare mentre la debolezza incalza? Lasciarsi attorniare dal gioco beffardo oppure combattere il male altrui attraverso il proprio male?

 

Matematica, intensa e perfetta. Questa è la prosa di Irène Némirovsky ne “L’inizio e la fine”, il racconto pubblicato per la prima volta in Italia – a cura di Antonio Castronuovo – dalla casa editrice Via del Vento. “L’inizio e la fine”, apparso il 20 dicembre 1935 sul periodico parigino “Gringoire”, è solamente uno degli oltre cinquanta racconti che rappresentarono per l’autrice francese di origine russa un continuo e costante esercizio di eccelsa scrittura. In questo scritto, come nei suoi più famosi romanzi, la Némirovsky ci appare come un’osservatrice attenta e distaccata che utilizza la sua narrazione cristallina per farci entrare nel racconto da spettatori privilegiati.

“Trotula”: una donna, la medicina e il Medioevo nel romanzo di Paola Presciuttini

TrotulaGiorgia Sbuelz
ROMA 
– Nei primi decenni dell’anno Mille, la città di Salerno conobbe uno splendore economico e culturale come pochi territori italici ebbero la fortuna di sperimentare. Nel grembo del suo golfo venivano raccolte le menti più brillanti dell’epoca: intelletti che spiccavano nelle scienze matematiche e filosofiche e che molto concorsero allo sviluppo della moderna medicina. Qui visse e operò Dama Trotula De Ruggiero, nobildonna dall’eccezionale perspicacia mentale e di fortissima volontà, a cui va il merito di aver elevato la ginecologia e l’ostetricia a disciplina medica, affrancandola dall’appannaggio esclusivo di levatrici e mammane, e sollevando la coltre di superstizione che aleggiava intorno al misterioso momento della nascita di una nuova vita.

Ma, per quanto ebbe a contribuire al lustro della Scuola Medica Salernitana, in pochi conoscono l’operato di questa donna, la cui memoria è stata insabbiata nel tempo, relegandola a figura poco più che leggendaria, fino a dissolversi del tutto, dimenticata, come tante altre donne di genio, e allontanata dalla storia a causa del divario di genere.
Mille anni dopo, Paola Presciuttini con il suo romanzo “Trotula”, edito da Meridiano Zero, si assume l’incarico di rimuovere tutta la polvere che ricopre questa figura, restituendoci un ritratto vivo e documentato, di una donna medievale eppure modernissima, che si poneva dei dubbi, sulla ricerca e sulla teologia, che sono ancora i nostri.
Quello tra la Presciuttini e Trotula, è un incontro felice, lo si percepisce fin dalla prefazione dell’autrice, in cui trapela tutta l’emozione e la cura impiegata, per dar corpo e voce ad un esempio di grandezza morale e intellettuale, quello della “medichessa” Trotula, che proprio della voce e della fisionomia femminile era stata privata. E’ bello apprendere come la Presciuttini abbia scelto un mulino a vento dei primi secoli dello scorso millennio, come luogo di raccoglimento per dar principio alla sua opera, perché l’impressione che si ha è proprio quella che stia lì a parlarci, da un’altra epoca, assieme alla sua protagonista.
Assistiamo alla spensierata infanzia di Trotula De Ruggiero nel castello paterno, vicino al mare e circondato da campagna e frutteti. Sua madre, Donna Ginestra, l’affida alle cure di una balia e alla sapienza di un precettore. La prima, Iuzzella, è anche, come molte buone donne del popolo, un’esperta conoscitrice di erbe per curare i malanni, il secondo è un giovane monaco, Gerardo, che ha il compito di indottrinarla su quanto conosciuto fino ad allora in materie filosofiche, matematiche e letterarie.
L’esempio materno è forte: Donna Ginestra discute di storia e politica al pari di un uomo, ama sinceramente il proprio consorte, dal quale è ricambiata con lo stesso affetto e devozione. Per questo la prematura scomparsa della madre, a causa del parto del secondogenito Grimoaldo, sconvolge la piccola che reagisce però con sconcertante lucidità: studierà il corpo umano, affinché possa un giorno alleviare i dolori delle partorienti, e risparmiar loro la morte.
Così Trotula, affiancata dal suo inseparabile precettore, diviene un medico, e tra i più brillanti della Scuola Salernitana. Il suo punto di vista rimane però difficile da accogliere persino per le menti più erudite, perché sembra contraddire in toto il comandamento delle sacre scritture “con dolore partorirai i tuoi figli”. La morte per parto era accettata come componente naturale del destino di una donna, così come la morte in battaglia per un uomo. E a questo assunto Trotula si ribella, enunciando forte la sua convinzione con cui aveva fatto ingresso nella Scuola: “La guerra è opera dell’uomo, ma la nascita viene direttamente da Dio, e Dio non può aver creato niente d’imperfetto. Sta a noi capirne i segreti” .
Con questa forza prosegue i suoi studi, mentre conosce suo marito, il medico Giovanni Plateario, e intorno a lei si succedono le battaglie per la conquista dell’ Italia del Sud da parte dei Normanni. Trotula diviene madre di tre figli maschi: Ruggero, Giovanni e Matteo, mentre porta avanti la sua missione di medico. Aiuta a mettere al mondo Sichelgaita, figlia del principe di Salerno Guaimaro V, e salva anche la vita del fratello di lei, Giovanni, erede al trono. La speranza è che il mondo accademico le attribuisca i meriti che le spettano, e non la consideri solo una colta levatrice.

Speranza svanita, ma che non avvilisce la donna, che prosegue anzi nelle sue ricerche con un’apertura mentale che al tempo la fa apparire come superba e irriverente.
Ben conscio però della superiorità della moglie, è il marito Giovanni, che seppure sinceramente innamorato, ingaggia con la donna una silenziosa competizione, nel tentativo di vincerla e metterla da parte, forse per sentirsi più al sicuro, o forse per mantenere l’equilibrio stabilito dall’epoca.
Dopo un gesto sconsiderato da parte del marito, Trotula fugge e si stabilisce, con pochi averi e pochi aiutanti nel quartiere giudaico di Salerno. Una scelta, la sua, inammissibile per chiunque. Suo padre e suo marito avrebbero avuto tutto il potere per rovinarla. Decidono comunque di accettare la sua nuova vita, e assistono inermi alle sue nuove sfide: portare cure mediche a tutti coloro che lo necessitano, ricchi o poveri che siano, umili braccianti, o derelitti umani.
Affronta le epidemie di tisi e le infezioni, insegna alle levatrici le norme igieniche, ai cerusici a suturare, e si confronta con altre menti disposte ad ascoltarla, arabi come normanni, che frequentavano quel ricettacolo di fermento culturale che era Salerno. S’interroga sul reale valore dell’autopsia, pratica considerata eretica, quindi proibita, e si dichiara favorevole alla chirurgia, operata allora solo dagli “infedeli” islamici di Avicenna.
Di volta in volta la storia viene narrata dal punto di vista di ciascun protagonista, rendendo la lettura vivida e offrendo con straordinaria leggerezza panoramiche di vissuti interiori forti e intensi, molto spesso drammatici, ma mai patetici. Pagine animate dalla stessa passione che muove i personaggi di questo romanzo, che custodiscono tutti una fiamma interiore che li consuma e li avvicina alla conoscenza: quella per la medicina come in Trotula e Giovanni Plateario, che erediteranno anche i figli Giovanni e Matteo, o quello per la politica e la battaglia che saranno il destino del primogenito Ruggiero. Finanche l’amore illecito e non corrisposto del monaco Gerardo, o quello per il cibo e la cucina del fratello Grimoaldo.
Tutto è vivo e pulsante nel romanzo della Presciuttini, che ci regala un sorprendente scorcio di Medioevo attivo e vibrante, molto simile ai nostri giorni, in pregi e difetti.
Si coglie tutto l’affetto e l’ammirazione che l’autrice nutre nei confronti di questa donna non comune eppure vicina a tutte le donne, sentimenti che si trasferiscono nel lettore, che partecipa con gioia ai successi finali di Trotula e alla riconciliazione con i suoi cari, così come allo stesso tempo s’interroga sui motivi per cui, nel tempo, si sia persa ogni traccia di lei e del suo apporto alla medicina moderna.
“Trotula” è un romanzo in cui la ricostruzione storica s’intreccia con naturalezza alla componente immaginativa dall’autrice, in una commistione armoniosa, come le erbe che sapeva miscelare la protagonista, e che generosamente offriva per il bene comune. Il bene che Paola Presciuttini offre è quello di riportare l’attenzione su questa figura storica, restituendocela in tutta la sua vigorosa dignità e in tutta la sua poetica e femminile bellezza.

“I Peggiori” di Chiara Zaccardi: quando il male serpeggia fra i banchi di scuola

i peggiori_chrL_recensioneGiorgia Sbuelz
ROMA 
– “I Peggiori” sono sette ragazzi che frequentano un costoso liceo privato a Cles, California. Figli ripudiati e incompresi di genitori fragili e assenti, hanno scelto la ribellione e la violenza per riempire il loro vuoto o semplicemente la loro noia. “I Peggiori” è anche il titolo del romanzo d’esordio di Chiara Zaccardi, pubblicato da Noubs Edizioni.  L’autrice ce li presenta uno ad uno, lo fa in maniera generosa, un capitolo a testa, scavando nell’intimo del loro vissuto e non risparmiandoci nulla: dettagli scabrosi, inclinazioni perverse, schemi distruttivi e autodistruttivi germogliati da infanzie disperate e amplificati dall’ambiente della provincia americana, dove imperversa il comandamento supremo del consumismo e dell’apparire, belli e ricchi, ad ogni costo.

Già il preambolo sembrerebbe una condanna per chiunque, eppure no. L’incubo deve ancora iniziare e lo scenario adoperato come incipit della tragedia è proprio il liceo che malamente li tollera. I ragazzi sono costretti a seguire un programma serale di rieducazione, così sei di loro, il settimo non si presenta, si ritrovano soli nell’aula magna della scuola. Presto vengono narcotizzati e caricati su un furgone. Al loro risveglio si ritroveranno prigionieri in uno scantinato, messi alle catene proprio da due insospettabili professori che li sottoporranno ad ogni genere di sevizia e tortura.

Da questo momento comincia la seconda parte del romanzo, la Zaccardi non lascia nulla all’immaginazione del lettore: ogni atto di violenza fisica e sessuale viene descritto con dovizia di particolari e gli aguzzini dimostrano una creatività sadica che lascia sbigottiti. La narrazione si fa concitata, il romanzo acquisisce un’unitarietà narrativa complementare al lungo preludio iniziale, che si snodava a singulti, come un sipario che si apriva appena per poi richiudersi repentinamente. E il sipario adesso si spalanca completamente sullo spettacolo dell’orrore, in un crescendo di situazioni violente e imprevedibili, dove la psicologia dei personaggi viene messa a fuoco per emergere e delinearsi, unendo il gruppo nella tragedia, come mai era stato possibile tra i banchi di scuola. Piani e soluzioni escogitati tra bagni di sangue che vedono l’alternarsi dei ruoli tra vittime e carnefici, come ogni romanzo horror che si rispetti. Tentate fughe, fughe e inseguimenti, in uno sprofondare inesorabile nell’abisso della crudeltà umana. Poi la salvezza… ma di chi? E a che prezzo?
Ci si aspetterebbe a questo punto che cali il sipario, lasciando il lettore alle sue amare riflessioni. Ancora una volta si rimane sorpresi. Nulla è mai come sembra, pare sussurrarci l’autrice.  Terza parte del romanzo: si contano le vittime. Qualcuno non ce l’ ha fatta, qualcun altro riporterà danni permanenti. Mutano le dinamiche familiari dei protagonisti e viene da domandarci se non sia questo il premio per l’orrore subito. I ragazzi sembrano risollevati, l’aspettativa è che qualcosa in loro sia cambiato… forse sì. Invece no. Lo si capisce dalla scelta di partecipare ad un famoso talk show, e dalla pubblicazione di un libro col resoconto particolareggiato del loro rapimento; il titolo è eloquente: “Tortura”.

Il lettore sorride, conosce questo romanzo, anzi lo sta finendo di leggere. Mancano solo poche pagine. Arriviamo al finale… Colpo di scena che ribalta tutto. Non avevamo forse detto che nulla è mai come sembra?

Ripercorriamo mentalmente il romanzo a ritroso, come fosse un vecchio video tape e lasciamo scorrere velocemente le immagini al contrario. Stoppiamoci al momento del talk show, dove il conduttore di grido pone la banale, eppure fatidica, domanda:
“Spesso si è soliti affermare che il confine tra il bene e il male è labile, e non sempre ben definito. Credete sia una frase corretta anche per questo caso?”
Il bisogno di identificare chi sia vittima e chi carnefice è atavico nei processi mentali umani. Serve un buono e un cattivo. Uno che si macchi della colpa, un altro che la espii. Lo sa bene la giovane autrice, che affronta la narrazione guizzando impeccabilmente da una parte all’altra di questo schema. Le parole vengono usate come proiettili e il linguaggio è crudo, epurato da qualsiasi eufemismo, diretto come un pugno. Ciniche constatazioni servite come perle di saggezza condiscono il ritratto di una certa gioventù, dannata dalla nascita, che non ha nessuna voglia di redimersi, anzi che nel vuoto esistenziale ci sguazza. Forse una nuova razza tenace frutto dell’evoluzione tecnologica e dell’involuzione dei rapporti umani. Questi i peggiori di cui si parla in questo prorompente esordio letterario. Questa la risposta di uno dei peggiori alla domanda del conduttore:
“Nei Vangeli Gesù dice: “il bene è ciò che ti rende libero”. Non è qualcosa di preciso. E’ molto più facile definire il male. Il male è ciò che opprime” .
Così Chiara Zaccardi ci fa guardare bene in faccia questo male che opprime, proponendocelo in tutte le sue macabre declinazioni e in manifestazioni che non avremmo mai avuto l’ardire di pensare. Ma non lo esorcizza, non è questo il suo compito, il suo compito è raccontarcelo abilmente nella forma migliore o, è il caso di dirlo, nella sua forma peggiore. Obiettivo decisamente centrato.

 

“Senza rete” per affrontare le nuove epoche.

Giulio Gasperini
AOSTA – La parola poetica è un grimaldello: forza le serrature e apre nuovi orizzonti. Nella silloge di Fiorella Carcereri questo compito è evidente: seppur con significanti quotidiani, semplici e piani (“La mia parola è chiara / ma il tuo cuore la rifiuta”), si cerca di far perno sul significato per scardinare quello che altrimenti rimarrebbe serrato. In “Senza rete”, edito da Edizioni Ensemble, palese è il tentativo di dare importanza e vigore alle parole, anche tramite figure retoriche di ripetizione e ridondanza, soprattutto anafore (“Angelo”), ma anche tramite un continuo confrontarsi di piani temporali diversi e consecutivi (“Ieri, oggi e domani”) e la contrapposizione di opposti aspetti che sottolineano lo stridore e innestano il dubbio: “Decelerazione, / accelerazione, / decelerazione, / accelerazione…”.
Le due parti in cui è divisa la silloge danno l’immediata cifra interpretativa dell’esperienza della Carcereri: “Tu ed io” e “Io e il resto”, in un chiasmo a distanza, stabiliscono il punto centrale della sua ricerca – l’Io – (come in ogni tradizionale ispirazione poetica), mentre i due poli opposti ma complementari rimangono “l’altro”, un interlocutore col quale sempre ci si rapporta e ci si confronta, e “il resto”, dalle varie e complesse accezioni e declinazioni.
Il rapporto col “tu” è altalenante, fatto di avvicinamenti e di allontanamenti, di richiami e di separazioni: “Sembrava un altro addio, / sembrava l’ennesimo addio, / ma le nostre due anime / sono legate / da un moto perpetuo / di andata e ritorno, / di alta e bassa marea”. Il tu esiste, quasi carnale nella sua prospettiva di futuro, nella sua analisi del presente, nel suo ricordo del passato, (“Dimmi come riusciremo / a non essere / uno di questi amori sbagliati”) ma spesso si allontana, se non addirittura fugge, disertando il campo di battaglia e scomparendo nella latitanza: “Ora so che alcuni ricordi / sbiadiscono / o scompaiono del tutto.. / Penso sempre a te, / per saperti con me”. E il poeta rimane in bilico tra rimpianti, rimorsi e la sicurezza di aver ben agito, in ogni caso: “Basta / un’incomprensione / a farci capire / cosa sarebbe la vita / senza di lui. // Fiamma mai spenta. / Solo sopita”.
Il confronto con “l’altro”, invece, nell’esperienza della Carcereri, sancisce l’opportunità di dar vita a una poesia sociale che, com’è evidente negli ultimi tempi, ha oramai perso la sua identità e non riesce più a trovare una chiave espressiva valida e importante. Nel prevalente ripiegamento erotico-amoroso della poesia contemporanea, la carica sociale della poesia si riscopre, in questa silloge, ancora interessata a emergere. Sicché ecco comparire poesie dalle immagini rassicuranti e conosciute, come “Armadio di vita” o “Fari e lucciole”, che si caricano soprattutto di una tensione umana e universalistica: “E poi compro tre calle ad una bancarella, / ne osservo incantata / l’assurdo candore / e mi chiedo / come sia possibile / tanta bellezza / in altrettanta semplicità”.
Non sempre è agevole, né esaustivo, il tentativo di perforare la superficie e di approdare al “porto sepolto” di ungarettiana memoria: il movimento discendente è la somma aspirazione di tutti coloro che con la parola poetica si confrontano e giocano anche se non tutti raggiungono il punto estremo, l’approdo definitivo. La Carcereri sceglie la via della parola piana, dell’immagine rassicurante: quasi una forma di contrappasso per il nostro mondo frenetico e inquietante.

“Atti mancati” il romanzo d’esordio di Matteo Marchesini

Alessia Sità
ROMA “Stavolta so di non poter più reagire. Non trovo in me stizza, né paura, soltanto una grande stanchezza”

Nella vita di ognuno di noi c’è sempre un atto mancato che ci tormenta. Freud li definiva come un errore di azione, ovvero l’incapacità di fare realmente ciò che si desidera. Quante volte aspettiamo immobili in attesa che il destino faccia il proprio corso, senza contribuire in qualche modo al suo compimento? L’ultimo romanzo di Matteo Marchesini, “Atti mancati” edito da Voland e candidato alle selezioni del premio Strega, racconta una profonda storia d’amore e d’amicizia segnata da ‘alcune’ occasioni perdute e da inconsolabili rimpianti.
La vita di Marco, giornalista del Corriere di Bologna, viene stravolta quando durante la cerimonia di assegnazione del Bolognino d’oro al critico Bernardo Pagi – un docente universitario che in passato rappresentò per lui un modello da seguire – rivede la sua ex fidanzata Lucia. L’inaspettato ritorno della ragazza a Bologna, catapulta l’intellettuale trentenne in un vortice di ricordi, seppelliti sotto la corteccia di asetticità creata nel tempo. Tra Bassa e Appennini, osterie, cliniche, paesi,  campagne e  vecchie conoscenze, Lucia spinge Marco a rianalizzare le zone più oscure del loro passato, della loro storia e del loro legame con Ernesto, l’inseparabile amico di sempre. “Atti mancati” è un continuo avvicendarsi di un passato felice e un presente doloroso, in cui gli errori e i vecchi fantasmi, prendono gradualmente forma fra la paura di crescere, sconvolgenti scoperte e un romanzo mai finito. Il desiderio di raccontare, narrare, scrivere, sembra improvvisamente essere l’unica speranza per poter mettere ordine nel caos generato dalla vita. Si ha costantemente la sensazione di sfiorare una qualche presunta verità, che purtroppo perde quasi di valore nel dolore di una logorante malattia e nel dramma della consapevolezza di non poter più rivivere quel passato spensierato e quell’amor perduto. Per Marco è arrivato il momento di affrontare la realtà e di terminare il suo romanzo, che per troppo tempo ha lasciato in sospeso.
“Atti mancati” è una toccante storia di vita, che commuove e spinge a riflettere su quanto sia fondamentale agire senza aspettare che le cose accadano per caso (“Ho solo scritto, scritto per dovere, aspettando che succedesse qualcosa”).
Con uno stile brillante ed elegante, Matteo Marchesini ci regala un bellissimo romanzo di formazione, guidandoci nel cuore di una splendida Bologna, in cui ogni angolo, ogni piccolo dettaglio della città diventa funzionale al racconto e alla storia dei suoi personaggi.

Se, dovendo parlare di letteratura, lo scrittore non parla che del sé…

Giulio Gasperini
AOSTA –
Ogni anno, qualcheduno lo deve pur vincere. E poco importa se i papabili e i meritevoli son più dell’unico posto in palio; e ancor meno importa se i pronostici non ci indovinano mai e se anche il Nobel per la letteratura è diventato oramai più un premio politico che di merito letterario. Hemingway non sbagliò quando mandò a dire all’Accademia di Svezia: “Lo scrittore che sappia quali altri grandi scrittori non abbiano ricevuto il Premio più solo apprestarsi a riceverlo con umiltà. Non serve elencarli”. Ma elencarli potrebbe anche servire, per capire come la miglior scrittura non si possa individuare soltanto in un personaggio scelto per ogni anno, tra la massa di scrittori e poeti che popolano il mondo. Pochi son stati coloro che l’han rifiutato, molti son stati coloro che l’hanno vinto a sorpresa, neppure con disinvolti meriti.
Ciascun premio Nobel è anche ‘obbligato’, nel ricevere il premio, a tenere un discorso “a commento dell’essenza della letteratura e della direzione che essa sta prendendo” (cito John Steinbeck nel 1962). Sorprende – ma non troppo – l’appassionata disinvoltura di alcuni premi Nobel nell’, invece, autoincensarsi, nel parlare referenzialmente di sé stessi e delle proprie opere, trascurando il generale e dedicandosi all’odioso (e castrante) particolare. TerrediMezzo editore ha raccolto in un bel volume, “I Nobel per la letteratura si raccontano”, i discorsi tenuti da alcuni dei premiati, da Pablo Neruda a Herta Muller, da J.M. Coetzee a Doris Lessing. Ed è divertente addentrarsi nei loro commenti a un premio che, inutile negarlo, dà prestigio letterario ma soprattutto dà tanto prestigio economico. Pamuk costruisce una storia di tradizione familiare, offrendo come correlativo oggettivo la valigia del suo babbo, carica e colma di fogli scritti e vicende abbozzate; Saramago si offre al lettore nelle vesti di un volenteroso apprendista, che scrive per dar sfogo agli impulsi nati in lui da una realtà feroce e carnivora; Faulkner si autoproclama attuatore di alti impegni morali: “Sento che questo premio non è stato conferito a me come persona, ma alla mia opera, il lavoro di una vita nel tormento e nella fatica dello spirito umano, non per la gloria e men che meno per il profitto, bensì per creare dal materiale dell’animo umano qualcosa che non esisteva prima. Pertanto, di questo premio sono solo l’amministratore fiduciario”. E via, ancora avanti con lo sproloquio. Le parole sane e utili di altri scrittori, come l’eccezionale apologia del “non-lo-so” della Szymborska o la profezia della Lessing sull’Africa, affamata di cultura, impallidiscono, ahimè, di fronte alla sicurezza erculea di altri scrittori nel conferirsi meriti e importanza, nel concedersi la prerogativa di aver inventato la scrittura; nel tributarsi l’assurda profezia di essere gli ultimi scrittori a poter calpestare la terra (e sfiorare il cielo) del nostro pallido pianeta.

“Soltanto la memoria è bella. Il resto è polvere e vento”

Dalila Sansone
GRAZ – “Nulla potrà riscattarci. Tu saprai cosa fare per serbare il ricordo di quanti meritano di essere salvati dall’oblio. Soltanto la memoria è bella. Il resto è polvere e vento.” Alla fine del libro questa frase suona come un imperativo. Una sorta di obbligo morale a cui ti senti vincolato, tu che tante cose non le sapevi, tu che ti eri fermato distrattamente a pensare che la storia avesse uno spessore diverso da quello del corpo di un uomo e quando l’avevi fatto fisicità e anima, passi per strada non li avevi “sentiti” abbastanza muoversi dietro di te.
“Il club degli incorreggibili ottimisti” di J.M. Guenassia (Salani, 2010) racconta un frammento della Parigi degli anni ’60, sullo sfondo la guerra in Algeria, l’imperversare del rock ‘nd roll, le defezioni da Est, la costruzione di muri invalicabili. Fisicamente, ideologicamente, emotivamente. E’ difficile dare una definizione all’opera di Guenassia: la narrazione si costruisce su più livelli, le vite non si appartengono e forse nemmeno si intrecciano, si incontrano un giorno per strada e si ritrovano a giocare a scacchi al Balto, un bistro. In un pomeriggio distratto potrebbe anche capitare di vederci seduti Kessel e Sastre lì. Insieme. L’unica regola di quello strano club è parlare in francese. Nessuno racconta da dove viene, chi era o cos’era. Se scegli di sopravvivere devi smettere di parlare, reinventare tutto di te e vivere un presente continuo fatto di alcuna altra prospettiva se non la vita e nessuna retrospettiva per non affogarci dentro. La memoria è un fatto privato, una piega interiore che le labbra non scandiscono per paura di ferirsi e ferire. Eccolo il tratto comune tra i membri del club: esistere, esistere adesso e non lasciare spazio a quello che non può farlo più. Al Balto impera la democraticità dell’assurdo, della fredda perfezione con cui si può cancellare l’esistenza, non importa se con la morte o con l’oblio. Solo che i ricordi di cui quelle esistenze sono la somma restano nello stesso modo delle poesie imparate a memoria, rubate ai fogli da bruciare, e vivono anche se in silenzio, rivivono tutte le volte o la volta soltanto in cui vale la pena che lo facciano.
Michel ha dodici anni quando si accorge della tenda verde che copre la porta d’ingresso del club e separa il calcio balilla e gli avventori ai tavoli dagli scacchi; nei quattro anni successivi imparerà che siano le ideologie, le circostanze o le decisioni di chi ci sta intorno, l’unica possibilità di scelta è limitata a cosa fare proprio di ciò che rimane. Non si poteva scegliere quanto sarebbe accaduto e brucia la sensazione che forse nemmeno quello che potrebbe accadere ancora dipenda fino in fondo proprio da noi.
E’ intessuto di umanità questo libro, nonostante qualche piccolo cedimento ai cliché del romanzo, ti sferra colpi allo stomaco improvvisi, netti e rimane capace comunque, sempre, di strapparti un sorriso. D’altra parte è la vita che fa questo gioco, a volte sembra tessere la trama di un lieto fine, altre sa essere spietata e intrisa nell’inspiegabile ma nella sua immediatezza è quella che è, qualunque sia stata e a chiunque sia appartenuta e a Guenassia riesce raccontarla con tocco lieve e la giusta ironia.
Già! Perché proprio “degli incorreggibili ottimisti”? – Michel! Sei vivo, per te tutto è possibile! –

“Memorie dall’innocenza”, quando l’errore aveva un altro volto

Marianna Abbate
ROMA – La parola memoria non ha un significato statico, perfettivo, come quello della parola “ricordo”. Avere memoria comporta un impegno, un coinvolgimento della persona. Comporta sentimenti, sensazioni, emozioni. Il ricordo è un’immagine fissa, una fotografia del passato, una tela dipinta e ormai incorniciata. La memoria è un quadro in fieri: tieni ancora in mano il pennello e stai ancora scegliendo i colori che comporranno l’immagine. Hai ancora qualcosa da dire, qualcosa da cancellare, qualcosa di cui pentirti e qualcosa da focalizzare. La memoria cambia.

Ed è la memoria la vera protagonista di questo breve romanzo di Serena Frediani, edito da Avagliano. “Memorie dall’innocenza” utilizza l’antico escamotage dell’amnesia post-traumatica, per scavare nell’inconscio dei protagonisti. Vittime di un incidente ferroviario, due persone che non hanno apparentemente nulla in comune, si trovano a ripercorrere la loro vita in un viaggio metaforico, che li porterà a rivalutare scelte e decisioni compiute in passati ormai lontani. Riemerge in loro un dimenticato bisogno di perdono, per quelle colpe sopite, nascoste sotto strati di altri ricordi. E se anche le loro storie sono molto diverse, il dolore sembra essere lo stesso.

 

Bellissimo lo stile narrativo della Frediani. Frasi sospese, tensione intrinseca ed emozioni. Le parole seguono il flusso dei pensieri, ma senza perdersi nelle divagazioni naturali della mente. Sempre focalizzata sulla trama, l’autrice riesce a trasmettere le paure e le incertezze dei suoi protagonisti.

 

Daria e Jean, due figure che vi ricorderete.

 

“Immagina la gioia” di ritrovarsi fratelli

ROMA“Tutto era appartenuto all’esistenza e niente di più doveva essere scritto”. Eva, all’inizio di questo romanzo,voleva scrivere: voleva mettere su carta la vita, trovare una trama avvincente che convincesse un grande editore a pubblicarla. Eva aveva già una storia e per ascoltarla, seguirla e scriverla si trasferì a Sciacca dal Veneto. Questa era la terra di suo padre e di sua nonna Annina, era la terra in cui il suo estro poteva rinascere.

Eva è la protagonista di “Immagina la gioia”, il secondo libro di Vittoria Coppola. Pubblicato da Lupo Editore, il nuovo lavoro della scrittrice salentina è un romanzo familiare ambientato negli anni Novanta.
Eva ha degli occhi profondi, le mani dipinte di rosso e vestiti colorati. Eva ha un rapporto difficile con suo fratello Pietro, ma più che difficile il loro è un affetto mai espresso; sarà perché dieci anni di differenza tra i due che durante l’adolescenza di Pietro e la giovinezza di Eva diventano un limite insormontabile. Sarà che Eva sta inseguendo il suo romanzo e Pietro il pallone; sarà che Eva è troppo presa dalla scrittura e dalla sua vita tra Sciacca e Mira. Ma la vita, improvvisamente, stravolge tutto.

A Sciacca Eva raccoglie i suoi fogli e cerca di portare avanti il suo romanzo, nel frattempo fa la cameriera nel bistrot di Oliver. A Mira, dove dalla Sicilia suo padre Raffaele si trasferì anni prima per lavoro insieme a tutta la famiglia, Pietro arranca dietro al suo pallone. Il ragazzo ha qualcosa che non va, è il suo ginocchio.

 

La scrittura dell’autrice ci accompagna in questa storia ma vorremmo sapere più su quei luoghi: vorremmo poterci aggirare con Eva tra le strade di Sciacca, lasciarci trasportare nella tranquillità delle villette di Mira. Vorremmo, da lettori, che la forte capacità della Coppola di descrivere le emozioni si impossessasse anche dei luoghi.