Via del Vento: Etty Hillesum, “Una piccola voce” nel coro straziante della Shoah

una piccola voceGiulia Siena
PARMA“Ma devo provare a scrivere qualcosa per voi, perché siamo occhi e orecchie di un pezzetto di storia ebraica, e qualche volta sentiamo il bisogno di essere una piccola voce”. Questa è stata Etty Hillesum, una piccola voce nel coro straziante della Shoah. La sua piccola voce – da qui il titolo del volume – è diventata una lunga lettera di testimonianza e dolore, il racconto drammatico della vita e della deportazione degli internati ebrei dal campo di transito olandese di Westerbork verso Auschwitz. Una piccola voce, il pubblicata nella collana Ocra gialla della Via del Vento Edizioni ci fa entrare nel mondo crudele di Etty, che a soli ventinove anni ha dovuto abbandonare le sue passioni e la sua curiosità di scrittrice per morire in un campo di concentramento. Prima di farlo, però, è riuscita a congedarsi dal mondo raccontando il suo dramma e quello del suo popolo, è riuscita a raccontare le banalità del male inflitto in quei luoghi di tortura, la cattiveria degli uomini, la vigliaccheria del potere, i ricatti che tende la paura. La sua piccola voce è un urlo straziante che percorre un quotidiano asfissiante e talmente vero che la testimonianza si fa cronaca e romanzo. Perché Una piccola voce di Etty Hillesum non è l’ennesimo libro sulla Shoah; Una piccola voce è una confidenza, una testimonianza, un esercizio di scrittura vero e coinvolgente, scritto come monito per gli altri uomini, per far conoscere il dramma senza urlarlo.

 

 

“Dopo questa notte, ho ritenuto per un attimo, in tutta onestà, che si commetterebbe peccato, se in futuro si sorridesse ancora. Ma più tardi ho pensato che qualcuno è partito sorridendo, anche se non sono stati molti”.

Anteprima: Flavio Pagano ci presenta “I tre giorni della famiglia Cardillo”, da domani in libreria

imageGiulia Siena
ROMA – Arriverà domani in tutte le librerie d’Italia I tre giorni della famiglia Cardillo, il nuovo libro di Flavio Pagano. Pubblicato da Piemme, il libro è una vera e propria novità: è nuovo nel genere – è una mafiaba; è nuovo nella tematica – si parla di mafia, strappando sorrisi e lacrime; è nuovo per la location – è ambientato nel suggestivo e affascinante Cilento; è, infine, un nuovissimo esercizio per l’autore. Pagano, infatti, dopo il successo di Perdutamente (Giunti, 2013) torna con una voce diversa: con I tre giorni della famiglia Cardillo attraversa i generi finora provati e approda a una storia che unisce realtà e grottesco, spensieratezza, avventura, suspense e sorriso amaro. In attesa di immergersi nella lettura di questo nuovo romanzo pulp, ChronicaLibri intervista, per voi, l’autore.

 

“I tre giorni della famiglia Cardillo” domani sarà in tutte le librerie e c’è grande attesa; ma come è nata questa storia?

Non lo so. È nata da sé, all’improvviso. La prima versione, che in effetti era già la storia completa, la scrissi in pochi giorni. Pensavo da tempo a scrivere una storia diversa. E volevo che fosse una storia d’azione, all’americana. Volevo un tema forte, e pensavo a uno schema di base da film horror: la famiglia che si perde… grandi spazi… uno scenario naturale a tinte forti… un incontro fatale… e quindi una brutale escalation di follia. Insomma, avrebbe dovuto essere un thriller. Ma the unexpected always happens, diceva Conrad, e infatti, mettendo insieme tutti gli ingredienti, è venuta fuori una commedia, anche se nera, anzi nera che più nera non si può… Anche se non appartiene alla letteratura “di genere”. Ne I tre giorni della Famiglia Cardillo si toccano tanti registri letterari, e c’è uno sfondo polidialettale se mi passi il termine, che mi ha affascinato moltissimo, perché ai personaggi (romani, milanesi, o «terroni» che siano) do voce lasciandogli le loro inflessioni: è stato il mio modo di rendere omaggio alla meravigliosa polifonia della lingua italiana. È un libro tutto da scoprire, credimi.

Una commedia nera dunque, truce e decisamente esilarante, che però promette di fare scalpore per il ritratto graffiante che fa della società italiana e per l’originalità della vicenda che tocca senza pudori il tema del rapporto tra mafia e potere. Nasce così la mafìaba, cos’è questo nuovo genere?

Tocchi tutti i temi, tutti insieme. Sì, alla base ci sono, per così dire, due grandi brand italiani: la mafia (ahimé), e la bellezza del territorio, il Cilento in questo caso. Mafiaba è evidentemente la fusione delle parole «mafia» e «fiaba». Come i lettori più attenti noteranno, ogni tanto nel testo s’incontrano citazioni dal contesto (e dal lessico) tipico della fiaba. Le fiabe del resto erano storie terrificanti, e anche I tre giorni della Famiglia Cardillo è così. La storia possiede tutta la brutalità dell’innocenza, e tutto il languore della malvagità, i mafiosi, in fondo, fanno parte del catalogo degli orchi: in questo senso è decisamente fiabesca, però bisogna riconoscere che anche la vita reale possiede questi ingredienti… Ci sono molte situazioni (troppe) della nostra vita, anche di quella pubblica, che sembrano altrettante mafiabe! Quanto al ritratto della società italiana, sì, ho descritto credo senza indulgenza, ma anche senza barare, il mondo dei media, che è decisamente allo sbando, non meno dei suoi fruitori. Lettori, e comununicatori, sono entrambi confusi. Lo sono, lo siamo, un po’ tutti. Ma i mafiosi no, loro sono di un’altra razza come credo il libro – e proprio perché è una commedia – metta bene in evidenza. I «miei mafiosi» sono divertenti, ma soprattutto sono liberatori per il lettore perché sono l’incarnazione (anzi il trionfo) del «politicamente scorretto», e questo ha un suo innegabile fascino, perferso se volete, ma potente. C’è un problema che la società contemporanea deve risolvere: se quello che abbiamo da opporre a forze come la mafia, sono tweet e proteste su facebook, o marce della pace, la guerra è persa. Perché in realtà di quello si tratta. Lo disse anche Falcone: i mafiosi non hanno paura di niente, nemmeno di morire. Non ce ne dobbiamo dimenticare mai: è una guerra.

imageNonostante, però, si parli di mafia e lo si faccia anche in modo tragicomico, ironizzando su modalità e credenze di questi moderni boss della malavita, il linguaggio che tu usi non è mai indulgente verso la mafia. Come si riesce a ottenere questo brillante ed equilibrato risultato narrativo?

Se ci sono riuscito, è stato perché lo sento profondamente. In questa storia i Cardillo sono “vittime”. E questo li rende apparentemente simpatici. Ma, e cerco di non farlo perdere di vista al lettore mai, i mafiosi sono belve. Ce l’ho sempre ben presente: per questo ho deciso di non castrare le «qualità» del mafioso (il suo «coraggio» bestiale, ad esempio) ma non ho mai utilizzato le situazioni o i personaggi per costruire delle «macchiette» da teatro di Scarpetta. Credo che i lettori per certi versi s’indentificheranno profondamente nei protagonisti, ma credo che ne avranno anche orrore. Del resto l’amore, il desiderio, sono inscindibili dalla paura: se una cosa non fa paura, non può attrarci davvero.

Da Detroit i Cardillos arrivano in Italia e si spostano in Cilento; qui, tra le selvagge e affascinanti montagne che guardano al mare, vivono un’avventura senza eguali. Quanto conta l’ambientazione per un romanzo del genere e perché hai scelto di ambientare “I tre giorni della famiglia Cardillo” proprio in Cilento?

Prima di tutto l’ho scelto perché il Cilento, ed in particolare Petina – il paese reale accanto al quale ho inserito quello immaginario di Belcolle – è parte della mia vita. Ci sono andato da ragazzino, per anni. Erano gli anni settanta, e feci in tempo a conoscere – ciò che considero una fortuna inestimabile – il mondo contadino vero, quello, come si suol dire di una volta. Poi ci sono tornato da adulto, trovando intatti i miei ricordi e le suggestioni profonde di quel paesaggio quasi selvaggio e di bellezza sconvolgente che è il Cilento. I Monti Alburni sono una cattedrale naturale di un fascino semplicemente irresistibile, dalle vette si vede il mare, la costiera amalfitana. E dall’altro lato tutta la piana del Sele. Sono luoghi incontaminati, ancora tutti da scoprire: andateci, perché Petina è i suoi dintorni sono magici! L’artigianato gastronomico è semplicemente sublime, se mi si consente una nota di colore, e si sposa con luoghi che sembrano scivolati silenziosamente fuori del tempo. Montagne, boschi, ruscelli… Per avere un’idea degli spazi e della purezza di questo habitat, basti pensare che già da anni sono ricomparsi i lupi. I lupi, capite? L’animale più simbolico della cultura occidentale… E poi il Cilento è il territorio simbolo splendido della Campania felix, che ancora resiste e che dobbiamo difendere con le unghie e con i denti: l’opposto della martoriata «terra dei fuochi».

La Campania, comunque, è la culla di molti tuoi romanzi e uno di questi, Perdutamente (Giunti) torna alla terra in cui è ambientato e a settembre, possiamo anticiparlo, approderà in grande stile al Pompei Cinema Festival.

Sì, a Perdutamente è stato dato il premio «Un libro per il cinema» ed è un riconoscimento di cui sono felice e orgoglioso. Perdutamente è stato un libro che mi ha dato e mi dà grandissime soddisfazioni, non solo perché si è dimostrato valoroso in libreria, entrando in classifica, ma perché ne ho avuto un eccezionale ritorno dai lettori. Lettere e lettere di persone che mi dicono di essersi ritrovate in ogni situazione, in ogni parola, in ogni virgola, che mi dicono di essere state «aiutate» da questo libro: ecco, quando la letteratura riesce a uscire dall’artefazione, da quello stare un po’ in posa che oggi l’affligge, quando l’emozione dello scrivere e quella del leggere s’incontrano, allora la letteratura vive. E si scopre come un libro sia il mezzo di comunicazione più potente, dopo lo sguardo. Il premio del Pompei Cinema Festival tra l’altro – che quest’anno è dedicato al grande Troisi, si avvale della collaborazione dell’associazione «Ricomincio da te», presieduta da Antonella Esposito – ed è un evento straordinario in una città straordinaria. È stato il presidente Raffaele De Luca a volere fortemente anche un premio letterario, e ha scelto di chiamarlo “Un libro per il cinema”. La statuetta, una riproduzione del celeberrimo fauno pompeiano, è più bella di un Oscar! Un onore che abbiano scelto Perdutamente, e una grande soddisfazione che nella motivazione sia stata riconosciuta la qualità letteraria della scrittura, ma anche la capacità del libro di parlare per immagini.

“Migrando”, la battaglia poetica di un clandestino

MigrandoGiulia Siena
ROMAMigrando, il nuovo libro di poesie – il quarto – di Giulio Gasperini ha poco più di un mese. Da un mese questo libro e il suo autore viaggiano spediti per l’Italia – sono ancora al Nord ma presto scenderanno fino a Sud – a raccontare le poesie e il viaggio stesso. Perché il viaggio con la migrazione, l’inquietudine e la ricerca è il motore di Migrando. “Errare come vagare, / ma non come sbagliare. Perché lo sbaglio / non esiste: quello che si cerca è solo / l’ombra d’un giorno che non sia più triste”. Già dalla copertina del libro si intuisce, infatti, il tema antico e perenne dell’andare, che ha visto l’uomo partire in cerca di nuove terre e nuovi spazi, tornare per nuove avventure e nuove vite. Migrando (pubblicato da End Edizioni) torna a questa tematica e lo fa con gli occhi curiosi di Giulio Gasperini che alla sua innata voglia di movimento e scoperta unisce la forte esperienza umana e lavorativa con i migranti. Il viaggio, da semplice e poetico andare per piacere e irrequietezza, si fa migrazione, diventa viaggio di speranza, di salvezza e di emergenza. La mutazione prende vita dall’abilità poetica dello scrittore maremmano che ci trascina tra i migranti che non conoscono le parole e che non hanno voce, tra i disperati che nel viaggio cercano l’asilo, tra coloro che spesso, ai nostri occhi, diventano solamente “il problema”. Ma l’abilità poetica sta anche in altro: sta nel fatto che attraverso un groviglio di sguardi, di vite e di percorsi in terre di confine, dopo aver conosciuto l’altrove, conosciamo l’altro. L’altro è il viaggiatore, in questo caso il migrante o il clandestino, errante per disperazione e spaesato esploratore nel momento del bisogno: “Tocco un porto e poi un altro / – parto e rientro – da porto a porto – / salpo e attracco”. 

 

Quella di Migrando è la battaglia poetica di un clandestino che nel viaggio si afferma e si mette in discussione e, con il viaggio, tenta di portare sotto lo sguardo di tutti la sofferenza e le diversità che il migrante prova sulla sua pelle. La poesia di Gasperini, perciò, è una poesia necessaria, nata dall’atavico bisogno dell’uomo di raccontare e farsi tramite. Con i suoi occhi e la sua emotività si fa sguardo per il mondo.

Lisario o il piacere infinito delle donne: il Seicento, la donna e il piacere.

Lisario_cilentoGiulia Siena
ROMA
– È arrivato solamente quarto al Premio Strega 2014, ma Lisario o il piacere infinito delle donne è un libro che affascina e conquista, anche i più titubanti.

È  il 16 marzo 1640 quando Lisario comincia a scrivere lettere di devozione e dissenso, speranza, preghiere e vita quotidiana rivolte alla Madonna, nascondendole, poi, in una grotta vicino al mare partenopeo. Lisario, la fanciulla dalla voce cristallina divenuta muta dopo una brutta malattia, all’improvviso cade in un sonno profondo che la rende inerme al cospetto della vita. Il suo sonno è una fuga, un modo per ribellarsi alle decisioni di don Ilario Morales, suo padre, e per sottrarsi ai doveri che la sua condizione di femmina, “nata per obbedire, tacere e soffrire” le impone. Lisario è diversa, ma da questo sonno ribelle dovrà pure svegliarsi. Arriva, allora, Iguelmano Avicente, il giovane medico giunto a Napoli dalla Spagna con la volontà di far dimenticare le piccole, ma già chiacchierate, insolvenze professionali vissute in Patria, “per questo era a Napoli, perché qui nessuno ne conosceva i fallimenti”. A lui, al medico venuto da lontano, il compito di svegliare la bella Lisario dal suo sonno.
Comincia così Lisario o il piacere infinito delle donne, il romanzo di Antonella Cilento – giornalista e scrittrice napoletana – pubblicato da Mondadori. Da qui il libro prende una piega diversa: con un piglio quasi scanzonato, affascinante e particolareggiato, l’autrice ci accompagna nelle stanze di Lisario, ci fa guardare il suo sonno e i tentativi disperati di Avicente nel confutare la sua frustrazione di medico. Lo spagnolo osserva quel corpo inerme e affascinante, lo scruta, lo scopre e lo esplora; lo guida nel piacere – involontario e allo stesso tempo voluto. Ma cos’è questo piacere che avvolgeva Lisario e fa impazzire Avicente? È “Una potenza immane, scriveva l’anonimo pagano, capace di smontare palazzi e sradicare alberi. Così si sente la donna quando prova piacere”. Il piacere di Lisario diventa un segreto tra i due e diviene cagione di ossessiva attrazione e studio per il medico: come nasce e cosa nasconde il piacere delle donne? Lisario diventa cavia dei mille quesiti di Avicente, di quei fantasmi e paure che porteranno la “bella addormentata” nelle braccia di un nuovo amore, il pittore Jacques Colmar. La vicenda si arricchisce, così, di sfumature barocche e di passioni travolgenti, mentre sullo sfondo c’è una Napoli divisa fra i moti rivoluzionari, Masaniello e la peste. E il racconto non è ancora finito.

 

Iperbolica, densa e particolareggiata è la storia che Antonella Cilento ci racconta: la condizione della donna – e del piacere della donna – nel Seicento, l’amore, il tradimento e la scienza vengono  trattati con intelligenza e pathos, senza mai dimenticare che ogni buon romanzo storico deve fare i conti con la storia.

“Sono tutti bravi a morire” di Niccolò Zancan: la città oltre le apparenze

Zancan_BraviaMorireGiorgia Sbuelz
ROMA – Milton Manera era la prima firma della cronaca, aveva camicie con bottoni color madreperla, una casa che divideva con la donna dei suoi sogni e una debolezza per i massaggi (erotici) cinesi, con cui ha fatto saltare in aria carriera, relazione e reputazione.

Dopo il supplizio della condanna pubblica operata, immancabilmente, dai suoi colleghi, si reinventa in una nuova poco onorevole professione: fornitore di alibi per coniugi fedifraghi. Mentre legge fra le righe del foglietto illustrativo di una confezione di psicofarmaci la penosità della sua attuale esistenza, bussa alla sua porta un’opportunità di riscatto travestita da proposta lavorativa.

 

Stavolta dovrà procurare un alibi per l’avvocato Rigamonti, persona bene in vista in città, ma con molti segreti, ed abitudini, da nascondere, segreti che sua moglie, l’intelligente e ancora affascinante Lisa Rigamonti, sta per scoprire. L’omicidio della donna e il colpevole frettolosamente rintracciato in un immigrato romeno, fa scattare in Manera il piglio del cronista che era stato e, malgrado l’incendio appiccato nel suo appartamento come monito, decide di andare a fondo con la storia.
Lo seguirà nelle indagini la fotoreporter Charo: avvenente, perspicace e riconosciuta come la migliore in piazza. Con lei condivide già il gusto per la birra a doppio malto e le belle donne, stavolta condividerà le stesse intuizioni su un caso che nasconde molto più del marcio che già preannuncia. In una foto, scattata da Charo poco dopo l’assassinio della signora Rigamonti, i due riconoscono il volto di un altro ragazzo romeno, Sorin, trovato impiccato ad un albero poco distante da una ex fabbrica di pneumatici.
Da questo momento, ricollegando gli indizi e sfruttando le vecchie conoscenze da giornalista d’assalto, Milton e Charo scovano la porta d’accesso ad una città “altra”. Silenziosa e inesorabile affiora dalle viscere della metropoli visibile, la città nascosta dell’immigrazione clandestina, dello sfruttamento e del degrado.
L’ex fabbrica di pneumatici è il covo per piegare con la violenza uomini senza documenti venuti in Italia inseguendo un sogno che s’infrange presto nelle scatolette di riso per cani come pasto e nelle scudisciate di aguzzini che muovono la nuova economia abusiva, fatta di mani sporche che spellano cavi di rame, che recuperano ogni singola vite o bullone dai materiali di scarto per rivenderli al mercato nero.

Emergono le storie amare di Doru, Maria, Laurent e Cosmina, la sorella scomparsa del defunto Sorin, tutti provenienti da Macin, una località a pochi chilometri dal mar Morto, luogo d’origine abbandonato e presto rimpianto, dove far ritorno appare più che mai impossibile. Milton e Charo seguono la pista della prostituzione di lusso per rintracciare Cosmina: orge elitarie coadiuvate da droghe con cui stordire le giovani vittime, depravazioni esaudite nella riservatezza di ville appartate sulla collina che guarda sprezzante il resto della città, la collina dei ricchi che odora del cloro delle loro piscine.
Ma ficcare il naso negli affari della gente “dabbene” ha un suo prezzo… e Milton e Charo lo scopriranno sulla propria pelle, catturati da una realtà che va al di là della loro propensione allo scoop: è la sete di verità che li muove, la voglia di recuperare parte della loro storia nella storia dell’altro, del “diverso” del “cattivo”, quando una vita e la sua storia sono solo un fattore contingente nel piano di qualcun altro.

 

Sono tutti bravi a morire, di Niccolò Zancan, edizioni Meridiano Zero, ha il gusto di un’inchiesta , il ritmo di un action movie e una costruzione narrativa scattante, che punta dritta al sodo, fatta di scambi di battute e un tono colloquiale che stempera l’acredine dell’argomento trattato. Le descrizioni vivide di odori e sapori si mescolano di volta in volta alle riflessioni sulle inquietudini proprie estendibili a una realtà sociale non circoscritta, ma rappresentativa, come il taglio su una ferita in cancrena che ha già infettato l’intero apparato. Una storia che può tranquillamente essere il retroscena di uno dei tanti episodi di cronaca a cui viene spesso attribuita una facile conclusione; Zancan qui pone un ragionevole dubbio attraverso un protagonista emblematico: fragile quanto sagace e cocciuto. Il profilo ideale di chi è in grado di gettare veramente uno sguardo oltre…

Giornata Mondiale del Rifugiato: con “Migrando” il grande ritorno in libreria del nostro Giulio Gasperini

MigrandoGiulia Siena
AOSTA – Giulio Gasperini – il nostro redattore dalle passioni “Vintage”, nonché scrittore ed operatore culturale dalle radici ben salde nella sua Caldana – torna in libreria e lo fa in grande stile. La nuova opera, Migrando (pubblicata dalla End Edizioni) è una raccolta poetica che si arricchisce di maturità, esperienza e sensibilità. Migrando, in cui esprime forte e coraggioso il tema della migrazione, sarà presentato ad Aosta – la città che da qualche anno ha adottato lo scrittore maremmano – oggi, venerdì 20 giugno 2014 in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Il rifugiato, esule tra l’altro e l’altrove, è protagonista di questa raccolta divisa in cinque sezioni che mano mano, poco alla volta, disvelano la persona e rafforzano la flebile voce di chi viene spesso visto esclusivamente come problema. La migrazione, in questo libro, viene intesa come arrivo, partenza, diario di viaggio, occasione di incontro, momento di dolore, speranza e motivo di razzismi.  La migrazione è, inoltre, il limite fisico tra terra e mare: questa poesia, infatti, narra di luoghi in cui si nasce, terre che si abbandonano per approdare in terre in cui si viene condannati dai nostri stessi simili; narra di mari – materni e stranieri – da attraversare e dove spesso si muore.

 

Migrando è cronaca dei giorni nostri, è tutto quello che ci è difronte agli occhi ma non riusciamo a vedere. Giulio Gasperini fa questo, ci apre gli occhi e ci regala una nuova e diversa chiave di lettura: i migranti sono lì, davanti a noi, sulle nostre coste, alle porte delle nostre case, sui marciapiedi accanto alle nostro auto. Loro sono lì e ognuno di loro ha dentro una storia di migrazione che li ha segnati, un’avventura che per terre e attraverso il “mare nostrum” li ha portati a vivere sul nostro stesso suolo. La prima persona usata spesso da Gasperini, poi, spoglia questa poesia dei soli tratti cronistici e l’arricchisce di emotività, coinvolgimento e azione.

Sorpresa Homo Scrivens: Solo Nina, il romanzo di Rosalia Catapano

catapano_ninaGiulia Siena
ROMA “E aveva passato in rassegna il suo abbigliamento, con l’occhio esperto di chi di abiti femminili se ne intende. Quello di Nina era di una semplicità disarmante. Un vestitino di garza bianca che arrivava poco sopra il ginocchio e lasciava scoperte le spalle. Un qualcosa di svolazzante nel taglio della gonna, il tessuto inconsistente, quasi etereo, di un candore perfetto, conferivano alla sua figura un tocco deliziosi di leggerezza e femminilità”. Rivelazione, visione, disvelamento. E’ questo quello a cui assiste Raùl Ortega all’aeroporto di Napoli in una banale mattina d’estate. In questo momento la sua vita è a un punto fermo. Raùl deve decidersi: ha trentatrè anni e se vuole sfondare nel mondo della moda deve darsi da fare seriamente, non bastano più i suoi natali, non basta più fare la spola tra il passato e la classicità di Napoli e la creatività e il genio di Barcellona. Se la sua anima è così divisa ora deve trovare una strada, una sua strada. E quella che incrocia aspettando il volo da Capodichino non è solamente una nuova rotta. Raùl in questo momento incrocia Nina, “Solo Nina”. Comincia così l’omonimo romanzo di Rosalia Catapano, medico napoletano che da qualche anno si dedica – con ottimi risultati – all’attività letteraria. Il libro, pubblicato dalla casa editrice Homo Scrivens, è l’incontro tra un uomo e una donna in un momento qualsiasi. Per loro, però, questo momento è cruciale: entrambi aspettano qualcosa, sono in attesa di partire, ma il viaggio vero è la vita. Da una parte Raùl, la sua anima fragile e le tante aspettative, dall’altra Nina, “solo Nina”, la donna che viaggia per incontrare l’affetto delle sue amiche e aspetta quell’amore che non le faccia più sentire il grande vuoto lasciato dalla sua famiglia. Tra loro un trolley, punto d’incontro del loro futuro sentirsi.

Arrivati a destinazione Raùl deve creare, soddisfare le aspettative della vulcanica zia Blanca e dare vita ad abiti che lascino il segno. Ma nella sua mente ora c’è il ricordo della ragazza dell’aeroporto. Semplice, femminile, graziosa, gioiosa e malinconica; Nina, solo Nina. Lei, Nina, a Barcellona abbraccia le sue amiche e cerca di dimenticare Vincenzo, l’ennesimo errore sentimentale. Lei, non pensa minimamente che il ragazzo serioso e affidabile a cui ha lasciato il suo trolley per scappare alla toilette prima di partire sia rimasto così ammaliato da lei. Non lo sa. Non può saperlo. Ma lui ha qualcosa di lei, il suo numero di telefono e ha qualcosa che lei gli ha lasciato, l’ispirazione.

 

Una storia di vita, amore – probabile – cambiamento, coincidenze e speranze. “Solo Nina” è questo, anche questo, insieme a un grandioso affresco di vita quotidiana, con personaggi, errori e contrattempi che cambiano il nostro vissuto, e di conseguenza, la nostra vita.

Rosalia Catapano ha il merito di lasciarci, a ogni pagina, con l’emozione in gola e la curiosità negli occhi, creando quella silenziosa e quasi inconscia consapevolezza che le attese, le coincidenze e le speranze danno vita al nostro cammino quotidiano.

Terre di Mezzo: Mari Accardi e “Il posto più strano dove mi sono innamorata”

il posto piu strano dove mi sono innamorata_chronicalibriGiulia Siena
ROMA
– All’inizio erano Tanya e Big Jim contro Barbie e Ken; poi la goffaggine di Irma contro l’eleganza delle Billeci. Con il tempo arrivarono gli amori sbagliati, le fughe, gli studi e i tanti lavori impossibili. Tutto, nella vita di Irma – la protagonista de Il posto più strano dove mi sono innamorata, il primo libro di Mari Accardi pubblicato da Terre di Mezzo Editore – era un contrasto, un continuo fuggire altrove per avere di più o avere cose diverse. Forse perché Irma, sin dall’inizio, aveva ascoltato suo padre ripetere “Cu niesci arriniesci”: se dalla vita vuoi qualcosa, devi andare via dal posto in cui sei nato. Così Irma si lasciò convincere e dopo aver sancito la sua inadeguatezza per Palermo arrivò a Torino. Da studentessa fuori sede alle prese con la solitudine e la paure Irma – ormai donna – inciampa in amori sbagliati e lavori impossibili. La nostra eroina siciliana viene licenziata da ogni posto di lavoro perché “troppo lenta”; passa, così, da cucinare per una mensa a cancellare foto pornografiche in un sito di annunci. Ed è in questo periodo che conosce Paolo, il decoratore di interni che non ricorda di aver mai baciato, ma con il quale vive ed è fidanzata da mesi. Forse la loro non è una vera storia d’amore, forse perché il loro è stato un incontro troppo normale, mentre, “A quanto pare, secondo un sondaggio di non so quale agenzia, gli amori più importanti nascono in circostanze o in luoghi anomali. E sono quelli che in percentuale durano di più”. Allora Irma è pronta a cambiare di nuovo, per l’ennesima volta, lei cambia rotta: viene licenziata, sale su una mongolfiera e poi vola a Praga con la convinzione di poter prendere in giro il tempo, fermarlo per giocarci e poi rientrare nella sua normalità anonima e viverlo. Perché il tempo, anche se scorre, rimane lì, attaccato a quella linea del telefono che lega Irma ai suoi genitori, alla sua isola, alla sua Palermo… richiamo perenne (quasi un rimpianto) che si accompagna e scontra con la sua certezza di sempre: fuggire.

 

Il posto più strano dove mi sono innamorata è un romanzo breve, intenso e immediato che raccoglie l’essenza di questo periodo incerto. La sua Irma è la giovane donna che vedi allo specchio o che incontri per strada, sul bus o in fila dal medico: tanto forte e determinata quanto nostalgica e indecisa; una donna che rincorre i sogni lontani convinta di cercare un posto nel mondo, un posto che forse non ha pensato di avere già. Una donna, Irma, che attraversa le situazioni e risorge dalle sue sconfitte.

“Io non sono ipocondriaca”: la scoppiettante commedia di Giusella De Maria

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ROMA
  “Rido di me, tra me. Sono ancora viva e ho intenzione di esserlo ancora per molto.”

“Se nella vostra borsa c’è di tutto, dal gel igienizzante a un beauty che pare un kit di pronto soccorso…” non potete allora perdere il divertentissimo romanzo di Giusella De Maria: Io non sono ipocondriaca, edito da Mondadori. A fare da sfondo alle singolari vicende della simpatica protagonista, maniaca dell’igiene e della perfezione, è la bellissima Sorrento. Nina è una cuoca straordinaria, dirige un’eccellente attività di catering insieme al suo infallibile staff, composto da Lucy, Gigi e Kimmi, ma ha un grosso limite: non ammette la sua ipocondria acuta. Oltre al suo team di lavoro, la giovane donna condivide tutte le sue paturnie esistenziali con l’adorata coinquilina e amica americana Carol e con i due simpatici vicini di casa, il farmacista Lino e l’eclettico Brad. A scombinare la sua buffa routine – fatta di antinfiammatori, antistaminici, antiacidi e assiduo shopping in farmacia – è l’arrivo dell’affascinante chirurgo bolognese, Marcus, giunto nella splendida Sorrento per lavoro. Fra mille peripezie, il brillante dottore tenterà – a suo modo – di aiutare Nina a superare il suo male immaginario. Tra i due si instaurerà subito uno strano rapporto, fatto di equivoci, incontri casuali e bizzarre diagnosi. L’iniziale insofferenza di Nina nei confronti del solare medico, ben presto lascerà il posto alla fiducia, un sentimento talmente forte da rischiare di farla innamorare proprio dell’uomo che ha irriverentemente deriso il suo essenziale kit farmaceutico: ‘Mai senza’. Fra incontri, separazioni, drammatiche scoperte, Nina riuscirà lentamente a individuare la vera cura al suo disturbo psico-fisico e imparerà a esorcizzare le sue paure attraverso la via più difficile e dolorosa, ma allo stesso tempo necessaria per poter ritornare alla vita.
Con uno stile brillante e un’ironia disarmante, Giusella De Maria ci regala una commedia romantica che non fa bene solo al cuore, ma soprattutto all’umore. Fra presunti attacchi di TIA (ischemia transitoria) e improvvisi shock anafilattici, Nina e la sua inseparabile compagnia di amici vi farà ridere a crepapelle, ma anche commuovere, dalla prima all’ultima pagina.

“Come fossi solo”: Srebrenica a tre voci, vent’anni dopo

come-fossi-soloGiulia Siena
ROMA
“Quante volte hanno già vissuto questo momento nei loro incubi? Anni trascorsi sotto le granate, consapevoli che prima o poi sarebbe successo. Adesso che i loro peggiori presagi si sono realizzati, adesso che non possono più sperare in un colpo di scena, in una qualsivoglia via d’uscita, sembrano persi, svuotati dalla loro unica ragione d’essere”. Questa è la guerra in Bosnia. Srebrenica, 1995. Qui l’esercito serbo-bosniaco uccise 8372 persone, un massacro ritenuto genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia il 19 aprile 2004. Ma partiamo dall’inizio.

 

Dopo quasi vent’anni dalle atrocità avvenute, un giovane scrittore aretino, Marco Magini, decide di tornare ai fatti di Srebrenica e usarli, ricordarli, impastarli nella trama di un romanzo, per entrare, così, nel panorama letterario italiano con un libro di grande impatto. “Come fossi solo”, pubblicato da Giunti – finalista al Premio Calvino 2013 e con buone chance per lo Strega 2014 – è una storia che ripercorre la storia. Tre voci: quella di Drik, casco blu olandese, rappresentante del contingente Onu colpevole di non aver impedito la strage che cerca ogni giorno un motivo per riscattare la sua sensazione di impotenza; quella di Dražen, il soldato “mezzosangue” che non voleva essere un soldato, nato in questa stessa terra, nella parte a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina da genitori croati. E, infine, quella di Romeo Gonzales, magistrato spagnolo di lungo corso che vede questa convocazione da parte del tribunale internazionale per giudicare Dražen come l’occasione per ampliare il suo prestigio personale. Tre voci coinvolte, diverse e distinte che portano avanti il proprio punto di vista per costruire la Storia.

Ognuno di loro è un piccolo tassello nella grande vicenda che prende forma, spettatori inconsapevoli di come le dinamiche della guerra siano ogni volta simili e ogni volta spietatamente sorprendenti. I protagonisti sono attori e marionette, colpevoli e vittime di crimini e ingiustizie, sono coloro che provocano dolore e che ricevono dolore. Sono al fronte. Sono in una guerra. Fino a quando la morte non metterà fine alla guerra.

 

 

Marco Magini era un ragazzo durante la guerra in Jugoslavia. Sapeva di quella guerra come ne sapevamo noi italiani in quel periodo – forse un po’ meno: notizie allarmanti, confuse. Dopo vent’anni Magini ha voluto approfondire quel periodo storico e ripercorrere con una scrittura lineare e asciutta – forse alle volte dando per scontato un po’ troppe cose – il genocidio di Srebrenica. Ma “Come fossi solo” non è un libro storico – devi già conoscere i fatti storici per leggere con consapevolezza il libro – è un romanzo in cui viene data voce ai personaggi e alle loro emozioni; alle difficoltà, le paure, le ansie e le oppressioni di chi sta dalla parte del più forte temendo, comunque, gli eventi.