Il “Proclama del fascino” alla fine dei giorni.

Giulio Gasperini
ROMA –
Era morto da una manciata di giorni. Si era spento, come tanti suoi amici, di AIDS, a Roma, in quella stessa città che lo aveva visto protagonista di magiche e irregolari notti. Era stato sepolto al Cimitero degli Acattolici, sotto la Piramide Cestia. Fu sepolto accanto all’amica, Amelia Rosselli, che si era suicidata poche settimane prima. Era il 1996: un anno tragico per la Roma letteraria (che a quel tempo ancora esisteva). Poche settimane dopo, nell’aprile, Arnoldo Modadori Editore pubblicò il suo addio al mondo: con “Proclama sul fascino” Dario Bellezza si separò dalla terra cantando un ultimo omaggio all’unica cosa che, oltre l’amore, aveva contato per lui, che gli aveva donato il potere di poetare: il fascino. Inteso come eros, come forza tellurica, potente e sferzante, che stimola gli uomini e impedisce loro di prostrarsi e inaridirsi. Tutto ha fascino, intorno all’uomo, anche tradire: “La verità è che tradire / ha fascino, violento e incorruttibile”. L’uomo vi è immerso, nel fascino, come fosse circondato da una cornice di perfezione: “Come debbo sparire dinanzi / alla bellezza del Creato!”. Il fascino, fin dai versi di “Morte segreta”, ha rappresentato in Bellezza un addendo fondamentale, che spesso si sommava alla morte, alla perdizione, alla putredine. Un compito gravoso, il suo, consapevole che “i poeti animali parlanti / sciagurano in bellezza versi / profumati – nessuno li legge, / nessuno li ascolta. Gridano / nel deserto la loro legge di gravità”.
Si separa dal mondo, Bellezza, da ogni oggetto che lo ha definito uomo. A cominciare dal telefono, “strumento libero / e appassionato di conversari / lugubri e obliqui, allegri / sin da ragazzo, adolescente / e più invano parlando d’amore / che di altro passai la vita / al telefono”. Si separò dal mondo, Bellezza, consapevole di stare per farlo, guardando la paura negli occhi; una paura con la quale conviveva dal 1987, una lotta impari, con un “male stupido”, che gli permetteva di contare i giorni, con la certezza che, presto o tardi, l’ultimo sarebbe arrivato: “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei”. Si sentiva peccatore, si sentiva parte dell’annuncio evangelico: “Chi non ha paura di morire / scagli la prima pietra: adoro / la lapidazione; così il sangue / non sarà più rosso e la morte / non sarà più nera”. Si separò dal mondo, Bellezza, ostaggio della solitudine: “E oggi il telefono / muto non riporta più nessuna / parola amica”. Ogni amico abbandonato, ogni spazio lasciato vuoto, riempito soltanto da un ennesimo dolore: “La sedia di paglia si è rotta, / ne conservo solo lo schienale. / Fu regalo di un amico defunto / ormai sparito, suicida, arrivato / nel buio calmo degli Inferi”. Si sveste persino del suo ruolo, quello poetico, del quale chiede ammenda, come se fosse l’unico, reale, più importante peccato di cui mondarsi per consegnarsi alla luce. E trova spazio anche la concessione del perdono, come un novello Cristo in croce prima dell’ultimo fiato: “Dio mi assolva i peccati capitali. / Quelli sessuali non sono né tali / né osceni reati da prigione, lager / o manicomio. Se sono un expoeta è / solo colpa mia. I critici li perdono”. L’unica certezza di fronte alla morte è, di medicea memoria, la fugacità del tempo migliore, quello più perfetto: “Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità: / poi avanza tremando / vecchiaia e dura, dura / un’eternità”. L’eternità, per Bellezza e i suoi versi, però perdura. E ancora perdurerà.

“Neurosuite”: la poesia che rima con pazzia.

Giulio Gasperini
ROMA – Alda Merini poetò la sua “Terra Santa”: quelle “mura di Gerico antica” che erano il limite tra sanità e follia (anche se confuse erano le parti, se chi dentro o chi fuori). Ma la pazzia, la pericolosità dei manicomi, la perversa pretesa di guarigione che lì si covava erano già state declinate in versi. Da tante. Soprattutto femmine. Una gemma è “Neurosuite”, della dimenticata Margherita Guidacci, edito nel 1970 da Neri Pozza.
La silloge è un attraversamento delle “acque oscure”, come le appella la Guidacci stessa, a partire dalla soglia d’ingresso, da quella “Sala d’attesa” che è anticamera dell’inferno. Sicché non è un caso se anche nella poesia della Guidacci compare Dante e il suo Minosse, declinato nella figura del (nemico) dottore: “Avvìnghiati Minosse, / cingiti con la coda / anche se noi non la possiamo scorgere / perché l’hai ben nascosta / sotto il camice bianco”. In realtà, non ha neppure importanza il luogo: “Ma cosa importa dove siamo / se, essendo quel che siamo, / in nessun luogo ci sentiamo salvi?”. Lì i pazienti “entrano e ricevono / […] / un nome greco per il loro male”. Lì dentro si muore, “sepolte le stelle, la luna, / abrogata l’alba, distrutto / ogni ricordo luminoso” non c’è più una scheggia di vita, una scintilla di forza, di dignità. Le sbarre recintano l’uomo, lo delimitano nello spazio e lo sviliscono nell’animo: proprio il luogo che dovremmo pensare più sicuro ci rende più spesso prigionieri. E ci viola, violento. Tutto diventa ostile, sospettabile, anche un carrello che “non si capisce bene se col tè o l’iniezione”. E l’animo si frantuma: “Questi cocci che furono anime / non ti dicono i loro segreti”, perché “il nostro crollo non finiva mai”. Nulla conforta, neppure le arance col chiasso del loro colore, neppure le visite nell’ora del passo, perché “la solitudine / è la peggiore compagnia / come la compagnia / è la peggiore solitudine”.
La Guidacci lascia anche spazio alla polemica politica, un elegante e delicato affondo ai legiferanti: “Avemmo troppo o troppo poco – / ed il vano rimpianto / di leggi più serene”. C’è spazio per la polemica medica, per le tecniche adoperate – in particolare l’elettrochoc – che trasforma i pazienti in martiri dai segni tangibili, come sanguinanti icone ortodosse, nella “traccia degli elettrodi”. E poi c’è la polemica sociale, data dall’incontro tra un ‘cittadino’ e un ‘reduce’: l’imbarazzo che ne deriva, l’inutilità della tangenza, quella “conversazione interrotta, l’inquieto sorriso”.
Secondo la Guidacci, il malato pretenderebbe soltanto la sua dignità, pretenderebbe di non essere un numero incasellato e archiviato ma di poter sfogliare i propri diritti, di fronte all’inibizione della propria vita (“Almeno sia la morte di mia scelta!”). Quel che è più agghiacciante, però, ci confida la Guidacci, è la totale impossibilità di guarire, per l’inutilità delle cure. Non c’è cura, infatti, nel manicomio; c’è soltanto posticipo dell’inevitabile: “Si levano i nostri demoni / e vanno ad aspettarci / un po’ più in là, verso l’alba”. Non c’è nessuno che conforta, nessuno che aiuta: “Insegneresti il volo / a una farfalla murata / in secoli d’ambra?”. La disperazione è pesante, la prospettiva funesta: “Qui tante tende sbattono, / tante porte si schiudono. / Balenano spiragli, / ma tutti danno sul vuoto”. Ma un po’ di speranza affiora, filtra tra queste pieghe disperate: siamo tutti come una giovane rondine che “ubbidisce al richiamo / d’altri cieli che ancora non vide”. Perché la peggior prigione siamo noi per noi stessi: “Tu confini con l’aria, / tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera, / e sei tu stessa la tua prigione che cammina”.

“La vacanza delle donne” e l’inevitabilità della guerra.

Giulio Gasperini

ROMA – Come potrebbe cambiare una società se le donne smettessero di voler fare l’amore? Aristofane aveva provato a tratteggiarla, con le sue sagge donne, capeggiate da Lisistrata, che per convincere gli uomini a non far più la guerra negavano sé stesse e i dolci piaceri del talamo. Le donne di Luigi Compagnone, invece, non decidono arbitrariamente uno “sciopero” del sesso ma rimangono colpite come da un’epidemia che le fa placare le voglie e le fa, pudicamente, ritrarre di fronte ai loro doveri coniugali. “La vacanza delle donne”, edito per la prima volta nel 1954 e riproposto, nel 1999, da Avagliano Editore, è il racconto ironico e divertito della crisi di un paese, Melaria, descritto come una sorta di Utopia, di Città del Sole, dove la società era composta e civile, dove si badava “alle serene articolazioni della sintassi” e dove c’era “molta fatica d’amore”. Dove “le stesse pagine bianche degli annali non eran lì a indicare stagioni vissute in pace e decoro?”

Gli annali del paese, che Compagnone finge di consultare, non hanno mai registrato nulla che valesse la pena di annotare: “Le nascite e le morti, e qualche sporadico episodio di nessuna importanza”. Tutti hanno un impiego, tutti hanno una loro collocazione nella società. Nessuno ne è escluso, nessuno sente il bisogno di fuggirne. Gli uomini, nerboruti e passionali, pieni di fiduciosa speranza in sé stessi e nell’avvenire, trovano il compimento del loro orgoglio nel possedere le mogli, le quali parimenti si fanno luoghi di ritorno e sublimi approdi, senza nessuna malizia né svilimento umano. E all’improvviso, senza nessun preavviso né motivo, le donne cominciano a ritrarsi alle carezze e ai gesti dei mariti; principiano a nascondere il volto nel cuscino, a schermirsi e sottrarsi, a privare gli uomini del loro successo quotidiano.
E come sublimano, gli uomini, la loro inesauribile tensione sessuale? Nel modo che, più di tutti, è all’opposto: con la violenza. Cominciano, infatti, una serie inaspettate di violenze e di vandalismi, così inusuali per quella delizia di posto che era Melaria. Un uomo precipita da un balcone; un giovanetto viene aggredito “con innominabili intenzioni in una strada fuori mano”; la farmacia devastata; il convento minacciato di saccheggi e distruzioni; “e ovunque ubriacamenti e cazzotti, a rotoli il lavoro negli uffici amministrativi”. Il delicato equilibrio sul quale si muoveva tutta la cittadinanza era misteriosamente spezzato: la sconosciuta formula magica che lo preservava intatto e immacolato era svanita, nell’assurda assenza d’un nemico concreto con cui prendersela e a cui addossare la responsabilità. Sicché diventa naturale, in quest’accelerarsi di eventi, pensare di formare un esercito, accreditando titoli e promuovendo persone per le loro capacità, più che per il loro reale merito. E partire, delirando, verso un nemico inesistente, cercandolo chissà dove, chissà quanto lontano, chissà per quanto.
Tutto questo per colpa di una mancanza. Non di sesso, ovviamente; ma d’amore.

Avete mai notato “La bellezza dell’asino”?

Giulio Gasperini
ROMA – Shakespeare lo aveva fatto. Nella sua commedia forse più straordinaria, “Sogno di una notte di mezz’estate”, aveva addirittura costretto una fata, pur sotto incantesimo, a innamorarsi di una testa d’asino su un corpo di uomo. Pia Pera parte proprio da qui: da un amore che troppo spesso è onirico, perso tra i fumi della trasformazione, quando tutto il mondo si scontorna e, come vento, sposta le sabbie e modifica le dune. I racconti de “La bellezza dell’asino” (Marsilio, 1992) testimoniano proprio questo: quanto il mondo possa essere completamente diverso, persino capovolto, se osservato e analizzato da un’altra prospettiva, collaterale, finanche estraniante.
I sentimenti, gli amori, il sesso, le sensazioni possono pur essere sempre le medesime, ma si quantificano e significano diversamente, offrendoci magari un appiglio estraniato ed estraniante. Un gatto che parla della sua padrona modella come se lei fosse la sua amante, e facendoci credere di esserlo stato veramente, in carne e ossa. Una successione di lettere consequenziali ma pericolanti, in una sorta di “relazioni pericolose” degli anni Novanta. Una confessione dolorosa e lancinante, compromettente e invalidante dell’umanità intima e più profonda. Il mondo va così accelerato, così rutilante, da mozzare il fiato nei polmoni, da lasciarli sgonfi. E allora cosa c’è di meglio che riposarsi tra le parole, tra i pensieri che vengono modellati dalle sillabe, messe poi nero su bianco con la precisione chirurgica di un inchiostro che non si smarrisce e che compatta l’uomo, impedendogli di sciogliersi e perdersi. Tutti marionette siamo, tutti goffi fantocci che il destino (o, chi preferisce, il caso e la casualità) muove docilmente, plasma secondo le sue direttive, gestisce e smentisce. Ma non ci sono solo gli uomini ad avere importanza. Ci sono anche gli animali che pensano e si comportano come gli uomini, meglio di loro in qualche caso, dimostrando sia istinto che inarrestabile spirito di conservazione. I legami umani sono complessi e fragili, delicati nel loro equilibrio di parole non dette ma pensate, di voci compromesse e di destini riscattati.
Al centro di tutto, c’è comunque la bellezza; la bellezza che provoca indifferenza, sospetto nei confronti dell’altra umanità che respira e pulsa tutt’intorno; la bellezza contro la quale ci troviamo a combattere e vivere; la bellezza che non sempre incentiva, quasi mai si trova nei posti che ci aspetteremmo; la bellezza che comporta fatica, mette in gioco l’uomo, lo porta a scommettere persino contro sé stesso, attendendo la possibilità di un riscatto e di una riconversione sincera; la bellezza che lo motiva e lo sostanzia, lo giustifica e lo definisce, che lo compromette e, in qualche caso, lo divora e lo strazia. Qualcuna ha scritto che, forse, potrebbe pure salvarlo!
La bellezza c’è. Da qualche parte. E da qualche parte, ognuno di noi, la scova. Anche in un asino.

“Il vecchio e il mare”, quando Di Caprio ti suggerisce cosa leggere

Marianna Abbate

ROMA – Era l’ormai lontano 1998. La radio trasmetteva a rotazione “My heart will go on” e si faceva a gara su chi avesse visto più volte il Titanic al cinema. Frequentavo le scuole medie presso delle suore acide e rotonde, mi mancavano almeno due denti davanti e la mia faccia era tempestata di pustole acneiche, che (io non lo sapevo ancora) mi avrebbero perseguitato per lunghi anni.

Ero in possesso di qualunque supporto cartaceo contenesse l’immagine, per me mistica, del bel Leonardo; compreso un album di figurine Panini dal quale appresi inquietanti notizie sulla vita privata, e con mio immenso sgomento ed emozione, anche sulle esperienze sessuali dell’attore. Ora non voglio discutere sull’incoscienza dell’editore che ha messo queste informazioni dentro ad un prodotto dedicato principalmente alle bambine, e non saprei dirvi se queste notizie mi hanno bloccato la crescita o semplicemente raggiunto il metro e 80 il Signore ha pensato bene di non farmi crescere ulteriormente. Sono qui per parlarvi del libro preferito di uno dei più grandi divi della mia infanzia, accanto ai Take That e alle Spice Girls.

Quando appresi che il mio mito era innamorato del Vecchio e il mare di Hemigway, feci praticamente di tutto per procurarmene una copia. Mi ricordo che lo lessi di nascosto da mia madre, che mi perseguitava dicendo che l’autore era un ubriacone e che nulla di quello che aveva scritto mi sarebbe stato utile. Ma io ero incredula, convinta che in quelle pagine si celasse chissà quale segreto del successo internazionale di Leo, e che quel libro mi avrebbe consentito di raggiungere con lui una fratellanza spirituale- che mi avrebbe inevitabilmente portato a diventare la signora Di Caprio.

Leggevo, leggevo, leggevo e non capivo. Cosa c’era da amare in quel libro? Ad un certo punto ho addirittura sospettato che il mio Amore non l’avesse visto neanche da lontano, e che fosse tutto un’invenzione dei giornalisti per screditarlo ai miei occhi.

Un povero vecchio solo in mare a mangiare pesce crudo col sale, a bruciare al sole giornate intere, per poi tornare a riva con null’altro che una carcassa inutile e sanguinolenta.

Dov’era il senso? Come in un trans rimediai ogni libro disponibile di Hemingway, cercando una risposta concreta alla mia domanda. Soffrivo ad ogni pagina di Fiesta e Per chi suona la campana, a volte mollavo la lettura- ma qualcosa mi spingeva a riprendere in mano quei libri. A voltare le pagine e raggiungere la parola fine.

Oggi ripenso a quel Vecchio, al sapore del whisky di una taverna in riva al mare. Al calore del sole su quella pelle vecchia e dura, al sale nella carne cruda. All’emozione della pesca, al successo e alla caduta.

Ho letto quel libro quasi quindici anni fa, senza capirlo. Ma ancora oggi mi ricordo praticamente ogni parola.

Forse io e Leonardo siamo destinati a stare insieme.

“Un mondo a parte”, quando il lager si chiama gulag.

Marianna Abbate
ROMA – Ho pensato a Gustaw Herling questa mattina a Napoli. Un autore che mi è particolarmente caro, dal momento che viene dalla mia amata Kielce, la città d’origine di mia madre. L’ho pensato a Napoli, perché dopo il dramma della sua vita è venuto proprio a Napoli, dove ha sposato la figlia di Benedetto Croce e ha avuto una figlia, vivendo i suoi anni felici circondato dagli intellettuali napoletani.

Ho avuto l’occasione di conoscere sua figlia in un incontro per la dedica della scuola polacca di Roma alla memoria del padre, e con mio immenso sgomento scoprii che non parlava il polacco.

Ma in questa mattina di sole, il mio ricordo va a quelle pagine che lessi con sgomento e disagio, anni fa. Una lettura obbligatoria, durante i miei studi di polacco- pubblicata in Italia da Feltrinelli, per la prima volta nel 1958, con il titolo “Un mondo a parte“, anche se la traduzione letterale dovrebbe essere: un altro mondo, o un mondo diverso.

Non sto qui ad enumerarvi i singoli fatti che non mi lasciarono dormire per lungo periodo. Vorrei soltanto condividere quel disagio appunto, quella tristezza che ho provato nel comprendere come i sentimenti umani siano fragilissimi e soggetti all’estinzione.

L’autore ammette di non aver descritto realmente tutti i fatti di cui è stato testimone, ma di aver mantenuto il rispetto per il verosimile. A mio avviso, aver romanzato alcuni elementi nel suo racconto, gli ha permesso di esorcizzare immagini che lo avrebbero comunque perseguitato fino alla morte.

Atti disumani, come la violenza di gruppo, compiuta su una donna con il tacito assenso dell’amante, che non voleva mostrarsi debole davanti al gruppo, erano all’ordine del giorno. E, ora, con il senno di poi – non mi stupisce che Herling non abbia voluto insegnare alla figlia il polacco, la lingua che lo ricollegava al dolore – a quella patria perduta per sempre, a quelle ferite putride dell’anima che quel mondo a parte ha lasciato in crudele eredità.

Leggete, fate leggere e raccontate; è l’unica arma che abbiamo contro il mondo che ama dimenticare.

 

“La ragazza scalza” che resisteva in montagna.

Giulio Gasperini
ROMA – Combattere sulle montagne è sempre stato difficoltoso. Un vero e proprio calvario. Uno sforzo aggiuntivo in un momento in cui tutto ero rischioso. Sulla coltre di neve, ogni orma era una traccia compromettente, ogni rumore era amplificato come diventasse un urlo, un grido che inficiava ogni nascondiglio e rovinava la vita. In montagna, però, ugualmente si combatté e si resisté. Saverio Tutino fu commissario politico della 76° Brigata Garibaldi nella zona di Ivrea; e poi fu scrittore e narratore. Conobbe i personaggi protagonisti della resistenza tra Valle d’Aosta, Canavese e Biellese, e li raccontò in una serie di racconti brevi, schegge di azione e di ricordi, dal titolo “La ragazza scalza” (Einaudi 1975).
Vengono raccontate le ore calme, quelle che seguono le azioni di guerriglia; vengono raccontati i riconoscimenti, le tangenze delle vite, le occasioni di incontro. Sono squadernate le ore nelle quali si mescolano “vino e sentimenti” e nelle quali i personaggi si palesano per quello che veramente sono, con le loro debolezze e i loro vizi, ma anche le virtù e i piccoli gesti che, dimessi e modesti, edificano un “uomo”. Sono narrate quelle “ore calme”, che rallentano dopo la troppa vita e le emozioni che infiammano e stordiscono, che scontornano e sconfinano nella Storia. Quella Storia che la Morante aveva così bene rappresentato: distante, distaccata, indifferente agli uomini. Ma in Tutino c’è una consapevolezza diversa, una visione cordiale: lo scrittore ha simpatia per l’uomo, per i suoi sforzi, e qualche volta gli regala persino la consolazione di un premio, di una vittoria. Non esiste soltanto la sconfitta, per il giornalista: c’è anche la possibilità che l’ideale (e l’illusione) si concretino e prendano forma e sapore.
Incantevole il ritratto della partigiana Aurora Vuillerminaz, conosciuta come Lola. Aveva soltanto 22 anni quel 15 ottobre 1944 quando, catturata dai militi del battaglione fascista IX Settembre, fu uccisa con un colpo di rivoltella alla tempia, presso il cimitero di Villeneuve. Era una staffetta; stava rientrando dalla Svizzera e conduceva con sé cinque fuoriusciti (“un poeta, un operaio, un dottore in medicina”). Tutino ce la presenta come “la moglie ideale di un vero partigiano: era bella e tutti se lo dicevano: ma dalla sua bellezza era escluso ogni gioco sottinteso o malizia. Non doveva essere semplice innamorarsi di lei; prima di tutto bisognava misurarsi col suo carattere”.
Tutti i personaggi, questi nomi che non sono semplici nomi, ma volti e storie anonime, non si domandano se saranno ricordati o amati, in futuro; se le loro azioni saranno prese a modello, se i loro colori esploderanno ancora e quali cieli coloreranno. Sanno per atavica legge di natura che il loro contributo aiuterà i loro discendenti, che siano figli, nipoti o perfetti sconosciuti, magari persino avversari: “Discussero un poco, e poi ognuno di quelli che avevano partecipato all’azione riprese il racconto delle cose viste da lui e così, come sempre, ci si rese conto che la storia è fatta da tutti: ognuno, muovendosi, ci mette qualcosa di suo”. È la scrittura, poi, che li eterna; e che non li fa scolorire.

I nostri “Ricordi di scuola” e i migliori anni della nostra vita

Giulio Gasperini
ROMA – Ciascuno di noi ha pochi ricordi indelebili, come quelli della scuola. A scuola cresciamo, diventiamo adulti, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con la vite e con la realtà, ci esageriamo le persone che vorremmo: e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita. Giovanni Mosca nella scuola trascorse pochi anni, come maestro. Di questo mestiere, a cui rinunciò per dedicarsi al giornalismo, i suoi “Ricordi di scuola”, editi nel 1968 da Rizzoli, sono una testimonianza preziosa e irrinunciabile: ci aiutano a capire come funzionasse la scuola, nel passato non troppo distante, ma, soprattutto, cosa “fosse” e dove avesse intenzione di andare.
Quel che di più importante, infatti, si evince dalla lettura di queste pagine, redatte dall’occhio d’un maestro giovane e con poca esperienza ma non per questo acerbo né ingenuo, edotto di teorie didattiche e formative ma anche consapevole del proprio entusiasmo e dell’opportunità della deroga, è il legame di profondo rispetto che si instaurava tra tutti i partecipanti all’azione: allievi, genitori, maestri, istituzione scolastica. Tutti contribuivano alla realizzazione del progetto educativo di cui la scuola era referente ultimo e, forse, più determinante. Tutti concordavano su quali fossero gli obiettivi principali, le possibilità di deroga, gli spazi per la flessibilità, i giusti ruoli e i giusti spazi, le giuste pretese e i corretti giudizi.
Non c’è, in “Ricordi di scuola”, nessun’atmosfera idilliaca né idealizzata, alla maniera di “Cuore”; nessuna deificazione di alunni professori o programmi scolastici. Semplicemente, uno sguardo tenero ma non indulgente, ironico e sagace dimostra quanto buono poteva esserci in un’istituzione che, di lì a poco tempo, sarebbe stata colpita in pieno dalla potenza dirompente e stravolgente delle proteste studentesche e del ’68. Parrebbe quasi dirci Mosca che la rivoluzione, se cieca e incontrollata, rischia di privarci anche dell’essenzialità e della positività del buono.
È un racconto lungo di tenerezza e di affetto, che si concreta in figure plastiche, reali, concrete, che maturano e che impartiscono preziosi insegnamenti. Sono personaggi magistralmente contornati, raccontati nel loro ambiente privilegiato ed esclusivo: personaggi che crescono e maturano, esattamente come fanno gli alunni, in uno scambio continuo di esperienze e di insegnamenti; mai univoci né unidirezionali. Personaggi come la signorina Cenci, che, amante del suo mestiere, persino d’estate, quando la scuola è vuota e abbandonata, percorre leggera i corridoi e va a dare l’acqua alle piante rimaste nella classe; o come il maestro Garbini, che al pari dei suoi studenti fantastica su un cavallo bianco; o ancora, come la maestra Marini che, con la prospettiva di un fiore e di un amore, saprà cambiare e diventare più buona e meno severa coi bambini del suo doposcuola.
Alunni e insegnanti sono protagonisti allo stesso tempo, sullo stesso palcoscenico: ma sono forse i maestri a ricevere la rivalutazione più importante, dalla pena intelligente dell’ex giovane maestro Mosca. Sono tutti insegnanti, cioè, che hanno a cuore il loro mestiere, che non difendono inutilmente gli alunni ma ne esaltano le peculiarità e i talenti, che, anche quando li sgridano, ne conservano in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo: una scuola, tutto sommato, radicalmente giusta negli intenti.

“Bodas de sangre”, Lorca e le nozze insanguinate.

Marianna Abbate

ROMA – Un’atmosfera magica, inquietante e un tantino afosa- quella delle tragedie di Garcia Lorca. Uno dei miei autori preferiti, sia per la sua lirica pesante e carica di duende, sia per i versi più riflessivi, ma soprattutto per il suo teatro. Nel tempo in cui in Italia Pirandello cercava con impeto un autore per i suoi personaggi, molti personaggi avevano trovato il loro autore in Garcia Lorca. Un uomo piccolino, scuro e introverso- ma passionale, forte e rivoluzionario. Ha osato sfidare il regime, un po’ in stile manzoniano- raccontando la storia contemporanea vestita di passato, e questa sfida è venuta a costargli la vita. Bodas de sangre- Le nozze di sangue, sono solo un pretesto per avvicinarsi alla sua letteratura teatrale. Un mondo popolato da donne, dipinte in ogni sfaccettatura: deboli e prive di diritti, ma forti delle tradizioni, del coraggio e di un desiderio di sopravvivenza che gli uomini sembrano avere perduto, in qualche lontana battaglia per una Libertà senza volto.

In un mondo in cui il razionalismo sembra aver preso potere su tutto, in cui in tutto il mondo si celebra la guerra, unica pulizia, la Spagna sembra galleggiare in uno spazio-tempo lontano, astruso. Che vede protagonista il surrealismo di Dalì e Bunuel, e il ritorno in auge del Cante Jondo e della magia Andalusa.

Le nozze combinate, contro la volontà di una sposa innamorata, non possono avere luogo. Perché l’amore vero e la passione preferiscono la morte e la tragedia ad una vita spenta e non voluta. I protagonisti sono spinti da forze occulte, molto più grandi di quelle che guidano e regolano la società contemporanea. Forze che sono metafora della poesia, della passione della libertà. Quelle stesse forze che porteranno gli spagnoli nelle piazze a combattere. E ridaranno ai poeti il loro posto nel mondo.

Quando la legge assolveva le coscienze per “Un delitto d’onore”.

Giulio Gasperini
ROMA – Non sono passati molti anni da quando la legge serviva per assolvere le coscienze nei casi di delitti d’onore. Un uomo si scopriva “tradito” e la legge gli permetteva di rivalersi sulla donna “peccatrice”. Che poi l’uomo fosse un “padre-padrone” nessuno se ne curava: nessuna legge tutelava la donna dai capricci di un machismo violento e cieco. Giovanni Arpino, in questo suo romanzo, intitolato con scarna evidenza proprio “Un delitto d’onore” (Mondadori, 1960) per non farci mai perdere d’occhio l’inderogabile oggetto di analisi, offre una testimonianza letteraria di quello che significava macchiarsi di un tale crimine.
Gaetano Castiglia, giovane medico ostile al progresso e che preferisce condurre una vita sonnacchiosa nella sua Avellino piuttosto che proseguire il suo brillante futuro negli States, si scopre tradito dalla donna alla quale aveva destinato attenzioni e premure, finalizzate a una sua rieducazione e a un suo innalzamento sociale e (nelle intenzioni dell’uomo) finanche morale: come se vestirsi bene e saper parlare fossero garanzie d’integrità d’anima. Poco importa che la donna sia stata oggetto di violenze altrui. Poco importa se si sia fidata di un altro maschio che le ha promesso l’amore e le ha lasciato solamente il disincanto della violenza. (Le vagine ancora non parlavano: lo faranno molto dopo, con Eve Ensler). Quel che interessa il maschio legittimo è il sangue dell’imene; a macchiare un lenzuolo bianco da esporre come prova di virilità (per lui) e di sottomissione (per lei). Castiglia consuma il primo atto carnale con l’ansia di guardarsi, subito dopo, e di scoprirsi addosso le tracce della verginità della femmina. Ma non le trova e rimane sbigottito, spaventato, incredulo di fronte alla presa in giro, al tradimento evidente. Il suo esame di coscienza è breve e indolore: sa già quel che è giusto fare e lo compie con una freddezza da chirurgo, sgozzando la donna nel letto: come fosse un altare di sacrificio, gesto estremo verso qualche improbabile divinità.
Poi Castiglia scompare; e compare la legge, l’avvocato che accetta di difenderlo e sa che, dimostrati i fatti e reso evidente il “tradimento” della donna (offertasi come vergine ma già defraudata d’innocenza e serenità), nessuno lo condannerà e, anzi, gli offrirà modo di emendarsi e auto-assolversi. L’unico pericolo è la coscienza dell’uomo stesso, dell’assassino (“Ma io ho ucciso. Io, io solo. Voi venite a farmi la parte. Avete ragione, dovete scusarmi. Ma io solo ho fatto quel che ho fatto”); ma la legge sa come agire, sa come confondere colpa e giustizia, sa come crearsi giustificazioni fittizie, perché peggiore della condanna è solamente il rimorso (“Niente commedie. Rimorsi no, va bene? L’amore oltre la morte, e così via, benissimo, ma non tra noi, va bene? Capisci? In aula io non voglio pazzie, lamenti, pianti…”).
La narrazione di Arpino è di un estremo lirismo, severo nella lingua e nelle immagini, così come severo vuol essere l’insegnamento. Non c’è nessun giudizio, nascosto tra le sillabe. Ci sono soltanto immagini e parole crude, dure, pesanti come pietre. E come pietre vengono scagliate, a dimostrare che tutti noi abbiamo peccati. E che alcuni peccati, indipendentemente da tutto e da chiunque, non posson esser autorizzati col beneplacito della legge.